venerdì 27 marzo 2009

L'arresto di Gesù



di Conf. Massimo della SS.Trinità, Passionista

L’arresto: Gesù affronta i suoi nemici (dal Vangelo di Giovanni capitolo 18, versetti 1-12)

Il racconto della passione secondo Giovanni inizia con una scena potentemente allestita, che mostra presto al lettore e all’ascoltatore l’abilità drammatica dell’evangelista.
L’arresto di Gesù dà il via ad un aspro scontro tra il Cristo e i suoi nemici, tra il Verbo di Dio mandato al mondo e le forze dell’incredulità e del male. Questo stesso dramma, che è continuato a scorrere lungo tutto il vangelo di Giovanni come una corrente profonda, sfocerà nel momento culminante della morte di Gesù.

Il Vangelo, inoltre, avverte che la Passione, ossia il momento in cui le forze del male verranno completamente sguinzagliate dietro Gesù, farà pagare il suo pedaggio anche alla comunità. Pure i discepoli dovranno subire l’assalto del male e sopportare il freddo disprezzo del mondo, non solo mentre se ne staranno ritti accanto a Gesù durante la sua Passione, ma anche durante il compimento della missione nel mondo da lui affidata. Se le sue parole sul pane di vita scandalizzano, ci sarà assai più da scandalizzarsi per la sua morte di croce (6, 62). Nel discorso finale Gesù avverte che il mondo odierà i discepoli proprio come ha odiato lui (15,18; 17,14) e che come ha perseguitato Gesù, perseguiterà loro (15,20). I discepoli verranno scacciati dalle sinagoghe, anzi, verrà l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio, dice Gesù al capitolo 16, versetto 2 del vangelo di Giovanni. Essi, come il Maestro, dovranno perdere la loro vita per salvarla e odiare la propria vita in questo mondo per guadagnarla in eterno. Seguire Gesù significa imparare la lezione del chicco di frumento cha ha dovuto cadere nella terra e morire, per poter dare molto frutto (cf 12, 4-26).

Al lettore che sfoglia le pagine del Vangelo giovanneo e al nostro ascoltatore, il messaggio appare chiaro: solo con la morte di Gesù la storia del Verbo fatto carne raggiungerà la sua conclusione terribile, ma trionfante.

1 Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron dove c' era un orto, in cui entrò con i suoi discepoli.2 Anche Giuda, che lo stava tradendo, conosceva bene il posto, perché Gesù molte volte si era riunito là con i suoi discepoli.
3 Giuda dunque, presa la coorte e le guardie dei sacerdoti-capi e dei farisei, vi si recò con lanterne, fiaccole ed armi.4 Gesù, sapendo tutto ciò che stava per accadergli, si fece avanti e disse loro: «Chi cercate?».5 Gli risposero: «Gesù il Nazareno». Dice loro: «Io sono». Stava con loro anche Giuda che lo tradiva.6 Quando ebbe detto loro: «Io sono», indietreggiarono e caddero a terra.7 Domandò allora di nuovo: «Chi cercate?». Ed essi dissero: «Gesù il Nazareno».8
Gesù rispose: «Ve l' ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate andare via costoro».9 Così si adempì la parola che aveva detto: «Di quelli che mi hai dato non ne ho perduto nessuno».
10 Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la sfoderò e colpì il servo del sommo sacerdote e gli mozzò l' orecchio destro; quel servo si chiamava Malco.11 Ma Gesù disse a Pietro: «Metti la spada nel fodero. Non dovrò forse bere il calice che il Padre mi ha dato?». Allora la coorte, il tribuno e le guardie dei Giudei si impadronirono di Gesù e lo legarono12.

La scena d’apertura introduce subito nel tono paradossale che accompagna da cima a fondo il racconto giovanneo della passione. Ad un livello di racconto abbiamo i rituali minacciosi della violenza e dell’evidente sconfitta: il tradimento di un amico; la presenza minacciosa di soldati armati; l’arresto notturno di un uomo innocente; un interrogatorio e un processo sommario, la tortura; da ultimo, un’esecuzione pubblica e una frettolosa sepoltura. La caratteristica originale del racconto giovanneo della passione sta nel fatto che queste tristi realtà di sconfitta apparente e di morte non dominano la narrazione. In tutto il racconto della sofferenza e della morte di Gesù, è presente un altro aspetto che si impone: Gesù trionfa sulla morte. Egli non è una vittima a cui si strappa con violenza la vita, ma uno che dà la sua vita liberamente come un atto d’amore per il mondo.
Questo miscuglio di morte e di trionfo è rintracciabile in quasi tutti gli elementi della scena di apertura. Riascoltiamo i primi due versetti del capitolo 18:

1 Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron dove c' era un orto, in cui entrò con i suoi discepoli.2 Anche Giuda, che lo stava tradendo, conosceva bene il posto, perché Gesù molte volte si era riunito là con i suoi discepoli.

Dopo aver illuminato i discepoli e averli plasmati, con opportuni discorsi, a ogni genere di virtù, dopo aver comandato loro di scegliere una vita molto onesta e pia, e dopo aver promesso inoltre di riempirli dei doni spirituali, dopo aver detto che avrebbe mandato loro la benedizione dall’alto e dal Padre, esce ormai prontamente, non evitando il tempo della passione, né temendo la morte che avrebbe subìto a favore di tutti. Spesso, è vero, era sfuggito ai Giudei che lo volevano assalire e cercavano di lapidarlo, e si era sottratto alla loro vista: ma non voleva affrontare la passione perché non era ancora giunto il tempo conveniente. Ma, ora, che era giunto il tempo, abbandonata la casa nella quale aveva istruito i suoi discepoli, andò in un luogo nel quale Cristo, Salvatore di tutti, e i suoi discepoli solevano spesso stare insieme. E questo lo fece per essere trovato senza difficoltà dal traditore.

Che il Figlio di Dio sia pronto ad affrontare la morte è provato dall’arrivo improvviso di Giuda e di una banda armata di soldati venuti a prenderlo. Il punto focale della scena sarà questo scontro drammatico tra Gesù e i suoi nemici.

È Giuda, il traditore, a prendere l’iniziativa durante il tradimento. Giuda sa dove si trova Gesù quella notte, si procura una banda di soldati e di guardie e la conduce da Gesù (18,3).
La solidarietà di Giuda con i nemici di Gesù al momento dell’arresto viene chiaramente ribadita al versetto 5: Stava con loro anche Giuda che lo tradiva. Ma nonostante il discepolo caduto, il potere di Roma e le autorità religiose, Gesù non viene colto alla sprovvista. Anzi, tutti questi raccapriccianti aspetti mettono in risalto il maestoso potere di Gesù. Egli, si legge nel Vangelo, si fece innanzi e affronta il potere delle tenebre dicendo: chi cercate (18,4)?

Il Figlio di Dio non aspetta che essi lo assalgano, ma va coraggiosamente incontro a loro, dimostrando che il delitto non gli era sconosciuto e, poiché era facile per lui, conoscitore del futuro, sfuggire, si offre spontaneamente alla passione, di sua volontà e senza essere costretto ad affrontare questo pericolo, affinché i sapienti dei greci non prendessero da ciò l’occasione per deriderlo e considerassero la croce scandalo e simbolo della sua debolezza e affinché il giudeo non si insuperbisse, pensando di averla avuta vinta su di lui.

I nemici di Gesù rispondono: Gesù, il nazareno. Alla risposta di Gesù, sono io, i componenti la banda armata indietreggiarono e caddero a terra (18,6). Proprio nel momento in cui ci si aspetterebbe che la vittima disarmata crolli, notiamo che Gesù è nel pieno controllo della situazione.
Quelli che fanno prigioniero Gesù indietreggiano di fronte alla sua autorità divina e cadono a terra (18,6). Al livello di conversazione ordinaria, le parole con cui Gesù risponde: “Sono io”, servono semplicemente a identificare Gesù come il ricercato. Ma la reazione, il cadere all’indietro, confusi, alla risposta di Gesù, non è semplicemente un naturale stupore.
Gli avversari di Gesù si prostrano sulla faccia davanti alla sua maestà, di modo che ci sono ben pochi dubbi che Giovanni intenda IO SONO come un nome divino. Il cadere a terra è una reazione alla rivelazione divina. In questo modo Giovanni spiega che Gesù ha il potere di Dio sulle forze delle tenebre, perché ha il nome divino. Essa rafforza l’impressione che Gesù non avrebbe potuto essere arrestato se non lo avesse permesso.
L’impotenza delle forze delle tenebre è evidente: è Gesù che deve prendere l’iniziativa.
Egli ripete la domanda: Chi cercate? E dice di essere Gesù il Nazareno che essi vogliono trovare (18,7).
Non solo, ma Gesù giunge fino a proteggere i discepoli, cosicché non hanno bisogno di fuggire. Con grande padronanza di sé, Gesù offre se stesso per i discepoli: Se dunque cercate me, lasciate andare via costoro. E ottiene la loro libertà (18,8). L’evangelista vede in questo gesto protettore l’adempimento della parola di Gesù: Di quelli che mi hai dato non ne ho perduto nessuno.

La sollecitudine di Gesù per i suoi discepoli e la sua incrollabile decisione di non perderne nessuno evocano le immagini del Pastore, nel capitolo 10. Il Gesù giovanneo vede nella propria morte la volontà del Pastore di offrire la vita per le pecore (10, 11.15). La cura che Gesù Pastore ha per la vita del suo gregge fa sì che egli possa dichiarare: Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio (10, 27-29).


Rileggiamo i versetti 10 e 11 del capitolo 18:
Pietro
10 Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la sfoderò e colpì il servo del sommo sacerdote e gli mozzò l' orecchio destro; quel servo si chiamava Malco.11 Ma Gesù disse a Pietro: «Metti la spada nel fodero. Non dovrò forse bere il calice che il Padre mi ha dato?».

L’ultima parte della scena dell’arresto ha per protagonista l’apostolo Pietro.
Fino a questo punto i discepoli hanno recitato un ruolo passivo nel dramma. Ma l’arresto sta per avvenire. Simon Pietro estrae la spada e stacca l’orecchio destro di Malco, lo schiavo del sommo sacerdote (18,10). Pietro si mosse secondo la Legge. Questa, infatti, comandava di ricambiare, senza colpa, l’offesa ricevuta, piede per piede, mano per mano, ferita per ferita (Es. 21, 24-25). Ma nostro Signore Gesù Cristo, che è venuto per insegnare ciò che è al di sopra della Legge e per formarci secondo la sua mansuetudine, riprende iniziative di tal genere che sono secondo la Legge, come se fossero contrarie alla perfezione del vero Bene.

La perfezione, infatti, non consiste nella Legge del Taglione, ossia dell’occhio per occhio, dente per dente, ma piuttosto risplende nella somma pazienza. Con questo breve episodio il Signore ci insegna che per combattere per Cristo non bisogna impugnare la spada e colpire gli avversari. Bisogna invece affrontare con mitezza quelli che cercano di farci del male, quando ci si impedisce di fuggire. È molto meglio, infatti, che gli altri siano puniti per i delitti commessi contro di noi dal Giudice Supremo, che è Dio, piuttosto che da noi, con il pretesto della pietà ed esigendo invece una pena dura. Anzi, è assurdo che noi onoriamo con la morte dei persecutori colui che, per distruggere la morte, si sottopose volontariamente ad essa. Perciò in tali circostanze dobbiamo seguire necessariamente l’esempio di Cristo.

Metti la spada nel fodero. Non dovrò forse bere il calice che il Padre mi ha dato? (18,11).
Il rimprovero genera la legge della dottrina evangelica che ha la forza di comandamento, non quello dato da Mosè agli antichi, ma quello che è stato dato da Cristo, il quale è tanto lontano dall’uso della spada per vendicarsi, che anzi, se qualcuno ci percuote una guancia e vuole inoltre percuoterci l’altra, bisogna offrirla (Mt 5,39).
Gesù rifiuta di approvare l’uso della violenza, sia pure in suo favore. Nella scena il Figlio di Dio ricorda a Pietro che egli deve bere il calice che il Padre gli ha dato. Il “calice” qui è simbolo della morte di Gesù. La morte gli è stata data da Dio Padre, sebbene sia stata preparata dall’empietà dei Giudei, giacché nulla sarebbe potuto accadere, se il Padre non lo avesse permesso per il nostro vantaggio. Il Figlio di Dio è deciso a bere il “calice” della sua morte, perché questo atto di supremo amore e non l’uso della forza e della violenza è in grado di rivelare l’amore redentore stesso di Dio per il mondo.
In altre parole Giovanni crea un forte contrasto tra l’uso del potere fatto dai nemici di Gesù, che vengono con le armi (18,3) e il potere liberatorio della vita e della morte di Gesù.

Rileggiamo il versetto 12 del capitolo 18:
Allora la coorte, il tribuno e le guardie dei Giudei si impadronirono di Gesù e lo legarono12.
Tolti di mezzo gli impedimenti e tolta la spada dalla mano di Pietro, dal momento che Cristo stesso, sebbene potesse sfuggire, si consegnava spontaneamente nelle mani dei suoi nemici, alla fine si avventarono su di lui, accesi da una grande audacia, sia i soldati che il loro capo e con essi i servi. Nonostante che avessero preso il Signore disposto a tutto, tuttavia lo legano, proprio lui che era venuto per liberarci dai lacci della morte e per slegarci dai legami del peccato.
Ancora una volta l’evangelista elenca le forze schierate per distruggere Gesù: … il distaccamento con il comandante e le guardie dei Giudei.. (18,12). Rappresentanti del mondo intero - potere religioso e potere civile - si ergono contro la Parola di Dio. E nelle tenebre sta in agguato il potere demoniaco che si è impadronito di Giuda e lo ha portato a tradire Gesù. Ma l’ascoltatore sa bene che le forze di morte che ora si impadroniscono di Gesù non prevarranno.

Si impadroniscono di colui al quale prima neppure avevano potuto avvicinarsi. Egli era il giorno ed essi le tenebre e tenebre rimasero perché non ascoltarono l’invito: avvicinatevi a lui e sarete illuminati (Salmo 34,6). Se si fossero avvicinati a lui in questo modo, lo avrebbero preso non per ucciderlo, ma per accoglierlo nel loro cuore. Ma siccome lo presero in ben altro modo, si allontanarono da lui ancora di più; e legarono colui dal quale piuttosto avrebbero dovuto essere sciolti. E forse, tra coloro che caricarono Cristo di catene vi era qualcuno che più tardi, parliamo di sant’Agostino, da lui liberato, disse: Tu hai spezzato le mie catene (Salmo 116,16).

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