martedì 9 luglio 2019

Don Fabio Rosini - Le 7 parole - 4.MIO DIO PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO


4.MIO DIO PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO
Mt 27,45-46

Arriviamo alla quarta parola che Gesù dice sulla croce, nell’ordine tradizionale di questa devozione delle sette parole di Gesù sulla croce.
La ascoltiamo:
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre Gesù gridò a gran voce: “Elì, Elì, lemasabactani” che significa “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” (Mt 27,45-46).
Noi siamo di fronte a questa frase che - dobbiamo ricordare - essenzialmente è la citazione di un versetto della bibbia. È l’inizio del salmo 22, che è un salmo particolarmente legato alla passione di Cristo. Questo salmo così antico di secoli e secoli precedenti, parla di un percorso: si parte da questo grido e si arriva ad una gioia indicibile, che proclama qualcosa che sarà narrato di generazione in generazione e passa per una sofferenza lancinante. Ha frasi del tipo: “Hanno forato le mie mani e i miei piedi” “si dividono le mie vesti” “sulla mia tunica gettano le sorti”. È proprio una realtà che profetizza ciò che è successo al Signore Gesù.
Questo salmo ci dà la filigrana di questa frase. Questa frase è qualcosa che rimanda a tutto il salmo e tutto il salmo è proprio il processo, l’avventura, la dinamica pasquale: si parte dal dolore per arrivare alla gioia.
In genere nella nostra vita si parte dalla gioia per arrivare alla sua morte, alla sua fine. Si parte dall’allegria, si parte dall’intontimento, si parte da un momento di appagamento per arrivare allo sfaldamento, alla dissoluzione, per arrivare al nulla. La nostra vita sembra una rincorsa al nulla. E invece qui si proclama che dal dolore si parte per andare da qualche parte.
In realtà questo è appunto ciò che – chiunque voglia veramente capire questa frase – deve tenere presente. Questo salmo 22 è essenziale per capire ciò che Gesù sta dicendo, perché è una citazione assolutamente letterale del salmo. Addirittura lo vuole dire in ebraico, nemmeno in aramaico. Direttamente in ebraico sta citando proprio le scritture. Non si può prendere questa frase se non in questo senso.
Però resta - come sempre nel vangelo - un altro livello, altri livelli di lettura, soprattutto in un momento come questo e di fronte a una frase così tragica, drammatica. Siamo di fronte al dolore e al momento più acuto del dolore: il non senso totale, il momento in cui le cose non hanno più nessuna prospettiva.
Questo momento viene introdotto da un’annotazione ambientale molto, molto peculiare: “A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio”. Stiamo parlando delle ore più luminose del giorno. A mezzogiorno e alle tre sono le ore assolutamente in cui il sole batte e sfrutta tutto il calore che c’è stato precedentemente. Ed è questo il momento in cui proprio c’è luce. È il momento della luce e in quel momento c’è buio. Tanta gente sembra stare nella luce, ma non ha luce. Tante volte nella nostra vita ci vendiamo per allegri, per scodinzolanti, tutti contenti della nostra vita ma in realtà dissimuliamo un grande vuoto interiore. Può capitare a tutti.
La realtà è che questo sole – che è il sole di questo mondo – viene spento. È la negazione del quarto giorno della creazione. La creazione si sta rovesciando, perché c’è una nuova creazione.
L’inno della chiesa dice: “Dinanzi alla sua gloria anche il sole si oscura”. Sì, perché in quel momento il sole è questo uomo che ama, è questo uomo che sta dando la vita. La luce del mondo è lui.
Ma cos’è questo buio? Cos’è il buio per l’uomo? Perché l’avventura più incredibile e straordinaria deve andare in onda senza luci? Perché questa è la nostra condizione e Gesù si sta incarnando fino in fondo in questa condizione. Deve venire Cristo a salvarci. E dove deve venire? Nel nostro buio.
E che cos’è il buio per l’uomo? Il luogo dove gridiamo: “Sono solo! Dove sei? Dove sono gli altri? E dov’è Dio? Ma perché sto qui? Ma che senso ha la mia vita? Ma questo a che serve? Ma perché non c’è soluzione a questa situazione? Perché mi sento abbandonato”?
La psicodinamica dice che la paura primordiale, essenziale - che è la paura del neonato - è la paura dell’abbandono. La paura dell’abbandono si cripta dentro mille paure che noi abbiamo. La nostra solitudine è la nostra morte. Essere soli e non essere nella vita coincidono come esperienza esistenziale. Da questo buio tutti noi gridiamo il nostro bisogno di essere visitati, di essere presi e non abbandonati.
La paura di essere lanciati nella vita come - in maniera primordiale, assolutamente precategoriale - succede a un neonato che esce dal grembo della mamma e piange, trema perché ha il dolore ma anche perché “che succede? Dove mi portate? Chi c’è? C’è qualcuno”? Infatti si rasserena solamente quando si avvicina al grembo della mamma, viene posto sul petto della madre e sente l’odore, che è il primo senso che funziona appena si è nati. Sente l’odore della mamma e dice: “Questa la conosco. C’è qualcuno”. Quella paura di essere abbandonati, di essere lanciati nel nulla, finisce mai nel nostro cuore? Termina mai?
Se il Signore Gesù vuole salvarci, deve mettersi proprio nella nostra condizione. Possiamo tranquillamente dire che – in questo momento – il Signore Gesù tocca la vetta dell’incarnazione, cioè diventare uomo, lui “figlio del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”.
“Si è fatto peccato” dice San Paolo, per noi. Che cosa vuol dire? Ha fatto peccati? No. Si è messo nella condizione di chi ha fatto il peccato. Chi fa il peccato si è staccato da Dio. Chi ha fatto il peccato è lontano da Dio, ha negato l’amore di Dio, non si è fidato di Dio (anche se non s’è nemmeno reso conto di farlo) e ha affermato – con un atto che è il peccato – la propria totale autonomia (perché la vita obbedisce solo alle sue proprie categorie). E questa è la condizione che ci condanna all’estraneità con Dio.
E il Signore Gesù va lì, in questo posto. Come se una persona sia stata condannata a morte per un delitto fatto - in una di queste società che ancora hanno questa tragica condanna che è la condanna a morte - e succede che qualcuno vada al posto suo, per prendere su di sé tutta l’angoscia di un condannato a morte, tutta l’angoscia del nulla che gli arriva addosso, tutta l’angoscia della sua vita che finisce e delle cose che sono senza senso. Ancor più perché uno non se lo merita. Ecco, lui sta lì dentro la massima angoscia dell’uomo. 
Entriamo ancora meglio in questo atto di Gesù, in questo momento che Gesù vive. Essendosi fatto peccato (nel senso di aver preso le conseguenze del peccato su di sé), essendo morto come un malfattore, condannato dal suo popolo, rifiutato dai capi, dileggiato dagli estranei, dai passanti, insultato da tutti e lasciato nel più completo fallimento, lui vive che cosa? Non tanto la lontananza dagli uomini, ma questa condizione grida ciò che appunto lui non puòconoscere.Lui non può conoscere l’estraneità al Padre, lui non conosce lo stare lontano da Lui. Lui nel vangelo di Giovanni dice: “Io non sono solo, il Padre è con me, il Padre mio opera in me sempre, io faccio ciò che ho visto fare dal Padre, io sono con il Padre, il Padre è in me”. Lo ha detto in tante bellissime forme. E cosa significa questo? Che proprio questa è la sua vita.
Come abbiamo già detto nel secondo articolo del nostro credo, del simbolo della fede, “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato della stessa sostanza del Padre”, attraverso queste parole - che non sono algebra teologica ma sono qualcosa di molto serio, di molto profondo che nella chiesa paleocristiana sono state un frutto bello della vita cristiana, che permetteva di capire questo della vita intima di Dio -  questa è la sua condizione: lui è perché è dal Padre.
Cosa è vivere senza il Padre per lui? È l’estraneità della sua esistenza, è la negazione di sé, è la cosa più assurda che possa capitargli, la “s-comunione” con il Padre, sentire il Padre lontano, non sentirsi vicino il Padre. Il Padre fa un passo indietro, perché lui deve vivere fino in fondo la condizione di uomo, che purtroppo è la condizione di chi ha saputo dire di no al Padre.
Questo a Gesù dà terrore. Infatti è questo ciò che lui combatte per accogliere come il disegno del Padre per salvare gli uomini. È questo che lui al Getsemani “suda sangue”: lui suda questa perdita, questa vita, questa realtà che rappresenta questo luogo impensabile (lui che è felice di stare col Padre, lui che esiste perché è “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”).
Noi vediamo che lui sta entrando in qualche cosa che è la massima tortura, più forte della tortura fisica: la lontananza di Dio.
È difficile spiegare queste cose, perché qual è la nostra condizione di uomini? A noi l’idea di stare lontani dal Padre non ci spaventa per niente, anzi, un po’ ci annoia tante volte l’idea di stare con il Padre. Noi che abbiamo subito la catechizzazione profonda del padre della menzogna, che ci ha detto che stare lontano da Dio non è così grave. Noi siamo abituati a non stare con Dio. Noi siamo un po’ come gente che vivendo in città non sa più che cos’è il sapore dei cibi genuini, gente che è abituata a cose artefatte, trattate, create a botte di chimica e di manipolazione e non sente più interesse per le cose che sanno di fresco. Invece qualcuno che venga da un mondo sano, buono, da una realtà rurale dove si mangia quello che è appena prodotto, appena colto, viene qui e sente tutto sporco, contaminato, slavato e nello stesso tempo greve, aggressivo.
Gesù viene dal rapporto col Padre e la nostra vita mediocre di autonomi, individualisti, spaccati fra di noi e lontanissimi da Dio, gli dà orrore. È come mangiare spazzatura per lui. A noi in realtà queste cose ci piacciono, ci siamo abituati. E l’idea di mangiare cose semplici, autentiche, ci annoia, ci interessa molto poco.
Gesù è entrato con tutta la sua nobiltà, col suo essere, con la sua persona bella, luminosa, dentro questa tenebra. Il peccato è lontananza da Dio e lui entra nella lontananza da Dio, ci deve entrare perché è lì che ci deve venire a prendere, lì dove non c’è luce, lì dove non c’è la luce del mondo, lì dove il sole non funziona, lì dove si è dentro questo buco, questa tana nera che è il nostro individualismo, che in realtà viene svelato per quello che è: dolore, solitudine, abbandono. Invece noi l’individualismo lo vediamo come una cosa appagante, come una cosa autoaffermativa.
In realtà questo grido - che tanti guardano con comprensione tutta da rivedere, con compassione tutta da riesaminare - ma perché è brutto che Dio ti abbandoni? Per Gesù sì, per noi non tanto. Per Gesù è mostruoso che Dio sia lontano.
Questo dolore è un dolore che dice quel che dolore è e quel che dolore non è. Il problema nostro non è non essere affermati, non essere appagati, non avere successo, non essere comodi. Il nostro vero dolore è non avere Dio nel cuoreed essere lontani dal suo cuore. È non essere figli, è vivere da “bastardi”, vivere da estranei, è non accogliere l’amore di Dio.
Abituati come siamo a fare questa cosa, abituati come siamo a pensare a noi stessi, noi dobbiamo lasciarci svelare questo dolore. È come se uno ti dica: “Mamma mia, vai lì: che brutto posto”. E tu sei abituato ad andarci lì e non ti rendi conto. E forse da questa frase inizi a dire: “Ma sì, è vero, è un brutto posto. Dio mio, non me ne ero mai reso conto di quanto è brutta questa cosa che faccio, quanto sono brutte queste cose a cui do spazio nella mia vita”.
Si incontra in questo grido il sublime, si incontra in questo grido ciò che veramente uno ha da cercare. Che Dio non ci lasci mai, che non ci abbandoni in niente, che stia con noi nell’ora della tentazione, nell’ora della gioia, nell’ora del tedio, nell’ora delle difficoltà, nell’ora dell’allegria. Che siamo sempre con lui! Altrimenti niente ha sapore.
Un’ulteriore annotazione su questa frase è quel “perché”.
Dio mio” dice questa frase (c’è un possessivo bellissimo. C’è un suffisso che indica la prima persona singolare. “Dio mio” due volte: è affettuoso questo modo di dire) “perché mi hai abbandonato”?
La parola “perché” in ebraico “le-mah” (il Signore Gesù l’ha voluta dire in ebraico) è formata da due parti: “le” particella che indica un moto a luogo fondamentalmente, che però viene usata per il possessivo ma anche per indicare nelle strutture questo movimento a qualcosa; “mah”: questo tipo di parola indica la “cosa”. “Le-mah” alla lettera significa “a cosa mi hai abbandonato?” (è cacofonico - logicamente - detto in italiano) “verso cosa?” significa, “per cosa?”, “in vista di cosa?”.
La domanda non è una domanda che dice semplicemente: “È assurdo quel che vivo…. Dimmi perché?” in senso semplicemente casuale. No. È più aperto all’idea di una prospettiva di movimento (questa parola), piuttosto che a un cercare la causa.
Noi intendiamo la parola “perché” come la ricerca del colpevole: “Ma perché mi hai abbandonato?”. Dobbiamo un pochino andare più verso il senso ebraico: “Per cosa mi hai abbandonato? Per portarmi dove? Dove mi stai portando”? Nascosta in questa domanda c’è un’apertura: “Dio mio, Dio che sei mio, Dio che sei del mio cuore, dove mi stai portando? Mi hai abbandonato in vista di cosa”?
A questa domanda risponderà la resurrezione. A questa domanda risponderà il Padre. Dopo che il Signore Gesù entra fino in fondo nella condizione mortale dell’uomo, dopo il tempo perché questa morte sia vera o nulla, vera morte, vera condizione per cui il corpo di Gesù è realmente morto (non è stato un momentino: ci sta quelle ore che sono necessarie perché sia dalla morte che il Padre lo chiama), questo “perché” ha una risposta.
Il tempo che ci deve stare in mezzo (perché la risposta di Dio molto spesso è diversa da quello che noi ci aspettiamo e dà tempi diversi dai nostri perché è la sua sublime risposta non la nostra angoscia o la nostra fretta) non va al nostro tempo.
Questa domanda trova risposta, perché il Padre lo risusciterà.
In questa domanda dobbiamo entrare tante volte: “Dove mi stai portando?” quando il dolore ci tocca fino in fondo. Aprirci alla risposta di Dio, facendo veramente fino in fondo la domanda: “Dove mi stai portando?”.
L’arte dell’attesa della risposta di Dio è una ricerca e ci permette di mettere il nostro animo disposto verso l’opera di Dio. 

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