lunedì 31 maggio 2021

Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Lc 1,39-56

 Dal Vangelo secondo Luca

In quei giorni, Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Allora Maria disse:
«L'anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l'umiltà della sua serva.
D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».

Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Parola del Signore 


Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco 

La festa della Visitazione è una di quelle feste che ci costringe a metterci in cammino, o perlomeno a metterci in cammino seguendo il racconto del vangelo. Maria è la protagonista di un gesto talmente tanto rivoluzionario che rimarrà come battistrada per tutti coloro che vogliono prendere sul serio Dio. Ella davanti all’annuncio dell’angelo non si ritira in una preghiera solipsistica, ma sente l’urgenza di trasformare in carità il dono ricevuto. Ed è proprio in questo gesto che Maria ritrova la parola per se, cioè la rilettura sapienziale di ciò che le è accaduto. Infatti le parole che Ella pronuncia nel Vangelo di oggi, sono la diretta conseguenza delle parole di Elisabetta. Maria canta la sua storia, la racconta, la condivide. E mentre ci guarda dentro scorge anche i segni del domani e non solo traccia del passato. Quando guardiamo la nostra vita non dobbiamo soltanto tirare le conclusioni dalle nostre esperienze, dobbiamo avere il coraggio di guardare anche avanti, al futuro, e ricordarci che siamo figli di un Dio che disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, rovescia i potenti e gratifica gli umili, ricolma di beni chi è affamato e a chi si crede ricco lo lascia a mani vuote. Maria dice tutto questo mentre sa che dovrà fare i conti con le angherie di Erode, le incomprensioni dei vicini, la disoccupazione di Giuseppe, la povertà dell’esilio forzato in Egitto. Ella sa bene che la cronaca è molto spesso cronaca nera, ma nonostante ciò sa cantare la luce nascosta in essa. L’esperienza della fede non è l’esperienza di vedersi risolti tutti i problemi e per questo sentirsi grati, è invece l’esperienza di saper scorgere un misterioso bene lì dove tutti vedono solo ingiustizia e imprevisti. Ma il dono di questo sguardo viene donato solo a coloro che sanno mettersi in gioco nella carità concreta, così come ha fatto Maria. Anzi è proprio Lei che ci dice in fondo qual è lo scopo di ogni carità portare gioia nella vita degli altri. Chi sa fare questo trova gioia anche per sé.


lunedì 10 maggio 2021

Donami un cuore che prega - Trascrizione della catechesi di don Luigi Maria Epicoco

 


Ho pensato questa sera con voi di fare un itinerario, così, di lasciarvi una traccia, con una piccola premessa. La premessa è questa, e cioè che tutte le volte che noi facciamo questo tipo di iniziativa - che è un po’ tracciare una scuola di preghiera - che possa aiutare un po’ a prendere contatto con questa bellissima esperienza della preghiera, che è un po’ come il respiro per un cristiano. Cioè, una persona che prega, è una persona che respira, una persona che non prega è come se sta costantemente in apnea, vive nella disperazione della mancanza di fiato, nella mancanza di ossigeno. C’è una saturazione proprio dell’anima che viene dall’assenza della preghiera. Quando una persona prega, quando un cristiano prega, funziona, funziona fino in fondo. Quindi per noi la preghiera non è un hobby, non è qualcosa di cui possiamo fare a meno,  ma fa parte di quel minimo sindacale che ci riguarda come cristiani, prima di tutto il resto, prima di ogni cosa. Tanto è vero che la cosa che colpisce di più dei vangeli, a nostro avviso, dovrebbero essere i grandi segni, i miracoli…. ma c’è qualcosa che è come un sottofondo, che accompagna un po’ tutta la vicenda di Gesù, ed è la sua capacità di pregare, in circostanze anche molto diverse tra di loro: fa dei miracoli, e poi si allontana, passa la notte in preghiera; prima di far risuscitare Lazzaro prega e prega anche così come abbiamo ascoltato anche adesso, poche ore prima di entrare nel momento clou della sua esistenza, che sono le ore della passione e della croce. La sua passione la inizia pregando, pregando nell’orto degli ulivi, cercando ancora una volta quel rapporto col Padre, quel desiderio della volontà di Dio. Quindi “il Gesù che prega”, in fondo, è forse il segreto di Gesù. Noi cristiani non possiamo fare a meno di imparare la preghiera, di dire qualcosa che abbia a che fare un po’ con questo grande argomento della preghiera; però, vi dicevo all’inizio, con questa premessa: non esiste una tecnica. Dobbiamo rifuggire la mentalità che ci vuole vendere la preghiera come una tecnica. Quale è la differenza: se noi diciamo che la preghiera è una tecnica, basta semplicemente applicare una sorta di indicazioni, di regole, e pensiamo che basta stare a quelle regole per ottenere un risultato. Magari fosse così! In realtà non è così perché la preghiera non può essere ridotta a una tecnica, perché la preghiera è una relazione. E le relazioni sono imprevedibili, soprattutto ci coinvolgono in maniera molto profonda, non possono essere racchiuse in una formula; e hanno bisogno invece di imparare a regolarci di volta in volta, a capire che cosa è giusto in quel momento. Quindi una scuola di preghiera, in fondo, ci insegna una cosa molto importante: che non esiste una scuola di preghiera, cioè che non esiste un modo attraverso cui noi sicuramente impareremmo a pregare, ma esiste qualcosa che dovrebbe farci venir voglia di pregare. L’unico modo per imparare a  pregare è: pregare. Non ci sono altri modi. Quindi per tentativo, per esperienza, perché ci proviamo e ci riproviamo, ogni giorno, a volte sbagliando, a volte deragliando, a volte paganizzando, perché c’è questo fantasma costante di usare un atteggiamento pagano nella preghiera che va purificato, di volta in volta, con molta misericordia. Ma noi non conosciamo nessun altro modo di progredire nella preghiera se non pregando. Leggere molti libri sulla preghiera non aiuta la preghiera. Fare molti corsi sulla preghiera non aiuta la preghiera quanto, invece, pregare, provare a pregare, tentare di pregare. Un buon libro che vuole insegnare la preghiera deve far venire voglia di pregare, non sostituirsi. Una buona scuola di preghiera deve far  venire il desiderio di cominciare questo tentativo della preghiera. Pregare è “provare a pregare”, come l’amore, per noi cristiani, è “provare ad amare”, anche quando non ci riusciamo, ma noi dobbiamo provarci costantemente.

Bene, il punto di partenza, io credo, per avere un cuore che prega – ed è una preghiera, veramente, domandare al Signore di donarci un cuore che prega – è comprendere quello che ci ha insegnato in maniera mirabile S. Agostino quando ci ha detto che l’inizio vero della preghiera è il desiderio. Che cosa significa, fondamentalmente: che il primo modo di iniziare a pregare è desiderare di pregare, è coltivare dentro di noi questo desiderio. Vedete, amici, non è scontato che dal desiderio si passi poi al fatto. Però è importante il desiderio. Cioè, pregare non può essere un incidente; non può essere semplicemente qualcosa che a un certo punto la vita ci costringe a fare… Avete presente quando magari dopo tanto tempo che non abbiamo una vita cristiana, dobbiamo partecipare a un funerale o a un matrimonio o a un battesimo… siamo un po’ costretti a pregare… in quelle circostanze cerchiamo di ricordare delle formule, di dire delle parole…. No, io credo che c’è una fase, e questa è una fase proprio della vita spirituale. E quando dico che è una fase della vita spirituale sto dicendo che è lo Spirito che sta facendo questa cosa dentro il nostro cuore. Quando lo Spirito vuole insegnarci a pregare, la prima cosa che fa crescere dentro di noi è il desiderio della preghiera. Solitamente, però, questo desiderio della preghiera poi si scontra con che cosa? Con il nostro peccato originale, con le ferite del nostro peccato originale. La ferita più grande del nostro peccato originale, che ci portiamo tutti addosso, è la ferita del nostro “IO”.  Cioè, il nostro “io” solitamente riempie tutto lo spazio e impedisce l’ingresso di qualunque altra esperienza, persino l’esperienza dell’amore. Ad esempio, una persona che è molto concentrata sul proprio io, cioè ha un “IO” che ha preso tutto lo spazio, in italiano si usa la parola egoista; però solitamente quando usiamo la parola egoista ne diamo subito un’accezione morale, moralistica. Invece vorrei dire che una persona che è centrata su di sé non trova spazio nemmeno per amare, perché per poter amare tu devi diminuire, devi fare spazio all’altro. Per poter amare tu devi far rimpicciolire il tuo “io” perché se il tuo io riempie tutta la stanza del tuo cuore, non può entrare nessuno dentro quel cuore. Ecco allora perché - se in quella stanza c’è tanto del nostro io, che fa da impedimento, c’è tanta della nostra esperienza che fa da impedimento; ci sono le nostre ferite che impediscono la preghiera - il primo modo attraverso cui si crea una crepa dentro quel pieno del nostro cuore è esattamente il desiderio. DESIDERARE. Desidero ma non ci riesco. Allora, se voi che mi state ascoltando avete un grande desiderio di preghiera, ma non state riuscendo ancora a pregare veramente, questa non è una brutta notizia…. Significa che lo Spirito sta iniziando dentro di voi un percorso, un cammino. Quanto durerà questo desiderio prima di diventare un fatto? Non lo so, ve l’ho detto prima, non è una tecnica. Magari per molti anni ci terremo semplicemente una nostalgia di preghiera, un desiderio di Dio e non riusciremo mai a farlo diventare davvero una fedeltà, un’esperienza forte che possa attraversare la nostra vita. Ma dobbiamo coltivare questo desiderio. Non dobbiamo smettere di desiderare questa cosa. Un po’ come quando nella vita a un certo punto sentiamo l’unica cosa che potrebbe riempire la nostra esistenza sarebbe amare qualcuno. Però non abbiamo nessuno da amare, cioè non ci accorgiamo che nella nostra vita c’è una persona in particolare da amare e chiediamo questo amore, desideriamo con tutte le nostre forze qualcuno da amare, una persona specifica con cui costruire una relazione unica, irripetibile, esclusiva. Ecco, se viene meno questo desiderio dell’amore, allora non daremo a nessuno mai l’occasione di entrare davvero  dentro la nostra vita e di amarci. Ecco, nella preghiera funziona anche in questo modo. Prima però vi ho detto che, in realtà, il più grande impedimento alla nostra di preghiera è il nostro “io”. Padre Pio ci insegna, in fondo – ma non solo lui – queste figure di santità così essenziali ci ricordano che la conditio sine qua non, cioè la condizione minima per poter dire che noi possiamo vivere davvero una vita spirituale e imparare a pregare è l’umiltà. E che cos’è l’umiltà? L’umiltà è la capacita di saper ridimensionarsi, cioè di scoprire di nuovo la nostra vera dimensione. Le persone umili sono coloro che in fondo hanno ritrovato la loro giusta dimensione perché hanno preso contatto con la propria miseria, conoscono i propri limiti, hanno fatto esperienza di quanto valgono e non vivono questo come una frustrazione ma spalancano l’esperienza della loro miseria all’amore di Dio. Gli umili sono le persone concrete che non sono concrete solo perché sono pratiche, sono concrete perché concretamente conoscono se stessi, conoscono che cosa li aiuta e che cosa li ferma; conoscono le loro potenzialità e le loro mancanze. Le persone umili sono quelle che riescono a indicare, in maniera molto precisa, chi sono loro. E questo, vedete, non si apprende per riflessione, si apprende, purtroppo, per trauma, perché l’umiltà la impariamo sbagliando; soprattutto quando facciamo l’esperienza del peccato ci accorgiamo di toccare in maniera violenta, traumatica i nostri limiti. E siccome noi perdiamo molto tempo quando incontriamo i nostri limiti – a sentirci in colpa, a giudicarci – ci dimentichiamo una cosa che sta per accadere tra poche ore, e cioè che Gesù morendo in croce ci ha liberato dalla colpa e noi non dobbiamo perdere tempo a sentirci in colpa ma dobbiamo fare tesoro persino delle nostre esperienze di peccato affinché ciascuno di noi possa conoscere se stesso, conoscere come è fatto, conoscere ciò che lo aiuta, ciò che lo avvantaggia, ciò che lo limita. Ad esempio una persona che ha come limite il voler affermare eccessivamente se stesso – pensate, non so, alla vanagloria, a una forma di dipendenza, ecc. – finché tu non ne hai consapevolezza rimani sempre incastrato in situazioni della vita dove tutto questo ti impedisce di progredire, di andare avanti. Se tu conosci te stesso, riesci anche a prendere le giuste misure, a capire come devi comportarti in questo senso. Ecco, se l’inizio della preghiera è il desiderio di pregare, il secondo passaggio è capire che per poter pregare dobbiamo accettare di conoscere noi stessi, dobbiamo imparare l’umiltà,  dobbiamo imparare a lasciarci educare anche dai nostri limiti, dalle nostre cadute. Dobbiamo liberare anche la nostra fragilità dal senso di colpa e lasciare che le nostre cadute possano darci una lezione, perché ci insegnano, in fondo, chi siamo e chi siamo in questo momento, i nostri “più” e i nostri “meno”, le cose belle e le cose brutte, la luce e l’ombra che ci abita. Ma le persone umili sono anche quelle che comprendono che si può vivere la preghiera a patto che la preghiera sia una relazione. Sapete perché questo è importante? Perché noi viviamo in un momento storico dove c’è una grande domanda di spiritualità. Ma questa domanda di spiritualità non è cristiana perché è un’espressione del nostro individualismo. Cerco di spiegarmi e di essere molto concreto. La gente vuole imparare a pregare perché vuole stare meglio, vuole pregare per ritrovare un benessere. Vorrebbe una vita spirituale perché vuole pacificarsi, vuole tenere sotto controllo la propria vita, vuole rasserenarsi. In tutto ciò – e non c’è niente di male nel far questo -  non c’è niente di cristiano. Perché? Perché la preghiera non è fatta per donarci il benessere. Al massimo quella è una conseguenza della preghiera, ma non è il motivo della preghiera. La preghiera è un modo di stare in relazione con qualcuno che ami. Se tu sei concentrato su te stesso, tu cerchi la preghiera per star bene tu, ma non ti interessa dell’altro. Vuoi l’altro, ad esempio vuoi l’incontro con Dio, vuoi l’incontro con Gesù, perché vuoi pregare Gesù e vuoi piegare Gesù e vuoi piegare Dio ai tuoi bisogni, al tuo desiderio di trovare benessere, di star bene, di pacificarti. Invece la rivoluzione della preghiera è che a un certo punto tu smetti di pensare a te, non sei più la cosa più interessante in quella relazione, perché quando tu ami qualcuno, tu smetti di essere interessante. E che cosa diventa interessante? L’altro, chi c’hai di fronte, quella persona che stai amando: quella persona diventa la cosa più interessante per te. Allora noi possiamo dire di aver sperimentato l’amore nella vita quando abbiamo sperimentato una relazione che ci ha distratti da noi, da noi stessi e ci ha fatto concentrare fuori da noi stessi verso qualcun altro. La preghiera cristiana è focalizzare che la cosa più importante per noi non è star bene noi ma è scoprire il volto di questa persona che diciamo di amare e che nella preghiera vogliamo cominciare a esprimere in una relazione concreta e precisa. Ecco, io mi fermo mezzo secondo su questa immagine perché in realtà penso che tutti noi siamo un po’ vittime di questo fraintendimento della preghiera. E dico che ne siamo vittime perché a un certo punto, ad esempio, pensiamo che non siamo capaci di pregare semplicemente perché, magari, pregando non otteniamo quello che avevamo in mente quando abbiamo iniziato a pregare. Una persona dice: “Io oggi….. questa adorazione non è servita a niente perché… non ho sentito niente durante questa adorazione”. Ma lo scopo dell’adorazione non era che tu sentissi qualcosa; tu sei andato lì per Qualcuno, non sei andato lì per te stesso; non sei andato lì per trovare qualcosa che aiutasse te, ma sei andato lì spinto dal desiderio profondo di incontrare qualcuno che ami. A volte i nostri percorsi, anche le nostre proposte, possono diventare terribilmente un modo di essere ripiegati su noi stessi. E Gesù, Dio, la Madonna, i Santi.. sono semplicemente un modo per celebrare noi stessi, per essere concentrati su noi stessi. Quindi finché noi non convertiamo questa visione della preghiera, vorremmo soltanto imparare tecniche di rilassamento, di meditazione: yoga di matrice cristiana, modi per calmare l’ansia… ma questa non è la preghiera cristiana, tanto è vero che se noi ci andiamo a prendere tutti i brani del vangelo in cui Gesù ci spiega la preghiera, unisce sempre l’esperienza della preghiera a due cose importanti: dice che una preghiera è efficace a patto che sia unita all’elemosina e al digiuno. Ora anche qui non è una tecnica che ci sta insegnando Gesù, ma ci sta dicendo una cosa molto importante: affinché la nostra preghiera non diventi rischiosamente un modo per essere ripiegati su noi stessi, noi dobbiamo esercitare l’elemosina.

Che cos’è l’elemosina? Accorgerti del dolore dell’altro, del bisogno dell’altro, del dolore del fratello. Se tu non coltivi un profondo senso di empatia, di coinvolgimento – usiamo la parola giusta - di compassione nei confronti della vita delle persone che il Signore ti ha messo accanto, tu non puoi pregare. Se tu sei cinico, freddo, indifferente rispetto alle persone che hai accanto, puoi frequentare tutte le scuole di preghiera del mondo, puoi dire tutte le formule del mondo, ma tu non stai pregando; perché l’unica cosa che ti aiuta davvero ad entrare nella preghiera è cominciare a smettere di essere indifferente al dolore, al bisogno dell’altro. L’elemosina non è semplicemente dare qualcosa da mangiare a qualcuno, ma è considerare attorno a me la sofferenza, il dolore, e il bisogno dell’altro. Chi esercita l’elemosina deve poter essere attento a chi c’ha di fianco. Se tu non coltivi questo atteggiamento compassionevole intorno a te, non puoi nemmeno pregare.

La seconda caratteristica che Gesù unisce per una buona preghiera è il digiuno. Anche qui, se tu passi la vita a riempire semplicemente i tuoi vuoti – e solitamente noi usiamo il cibo per riempire i nostri vuoti (è il nostro modo principale e non è l’unico: a volte abbiamo relazioni tossiche, modi sbagliati di vivere la sessualità….però sono tutti tentativi di riempire un vuoto). Finché tu non impari a digiunare, cioè ad accettare che tu hai un vuoto, una mancanza, a saper abitare quel vuoto e quella mancanza, se tu continui invece ad essere sempre dipendente da qualcosa che deve riempire quel vuoto, non si può dare nessuna preghiera per te perché, in realtà, la preghiera per te inizia quando tu accetti quel vuoto, quando accetti di essere mancante, di essere bisognoso. Il diavolo nel deserto, quando tenta Gesù, lo tenta esattamente su questo: Gesù ha fame. Dice il racconto del vangelo che dopo quaranta giorni Gesù ebbe fame; e quindi avverte un bisogno Gesù, avverte una fame. Cosa fa il demonio? Dice a Gesù: “riempi subito quella fame, quel vuoto. E fallo in tutti i modi possibili e immaginabili, Tu che tutto puoi e che sei onnipotente, prendi delle pietre e trasformale in pane e riempi quel vuoto”. E che cosa risponde Gesù? “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, che è un po’ come dire: se io voglio ascoltare Dio, devo ascoltare questa fame, devo ascoltare questa mancanza. E se io invece soffoco quella fame e quella mancanza, non riuscirò mai, fino in fondo, ad ascoltare Dio.

Capite allora che le due condizioni della preghiera, che sono l’elemosina e il digiuno, non sono semplicemente dare dei soldi a qualcuno e non mangiare a mezzogiorno, ma è coltivare due atteggiamenti di fondo: la compassione e la capacità di accettare i nostri vuoti, le nostre mancanze, senza riempirle con tutte le forme di dipendenza che abbiamo sviluppato all’interno della nostra vita. E’ un lavoro su noi stessi molto profondo questo, ma è l’unico modo che ci inserisce davvero in una preghiera efficace. E quando dico una preghiera efficace non sto dicendo una preghiera che alla fine ci ottiene la grazia, ma che trasforma noi in una grazia. Persone come Padre Pio, che pregavano davvero in questo modo, dispensavano, a volte, la grazia di Dio senza nemmeno saperlo, cioè erano un po’ come Mosè: ricordate il racconto di Mosè che scendendo dal monte Sion, dal monte dove ha ricevuto le tavole della legge, è trasfigurato in volto. Significa che emana luce e lui non può farci niente! Ma tutto questo nasce da che cosa? dalla sua capacità di essere stato davanti al Signore. Ecco, io credo che questa è un a condizione molto importante, cioè quella di unire delle scelte esistenziali che permettono un po’ la nostra preghiera. Se tu sei ripiegato su te stesso e se tu non lavori sulla tua compassione e sul tuo vuoto, non riesci ad entrare davvero in un clima di preghiera, in un cuore che prega, in un cuore che ha questa educazione, questa postura di fondo che ci mette in relazione con Dio.

Vorrei qui, a questo punto, individuare alcune cose che possono esserci di aiuto. Tre, fondamentalmente. In realtà ci sarebbero tantissime cose da dire sulla preghiera, ma purtroppo non abbiamo molto tempo e vorrei lasciare un po’ di spazio anche al nostro confronto, al fatto di poter dialogare, anche rispetto a quello che ci stiamo dicendo. Ho voluto scegliere, però, tre caratteristiche che spero possano esservi utili per poter avere un cuore che prega.

La prima caratteristica è il silenzio. Che cosa è il silenzio. Il silenzio è una cosa che temiamo moltissimo. Perché quando una persona comincia a fare silenzio dentro la propria vita, è scaraventato nella propria interiorità. Ora, se nella nostra interiorità ci fosse pace, ci sarebbe facilissimo fare silenzio; perché uno dice “faccio silenzio e ritrovo pace, perché nella mia interiorità c’è pace”. Ma solitamente la nostra interiorità sapete che cosa è? E’ una cantina ripiena di un sacco di roba che a noi non piace. E’ il tappeto sotto cui  abbiamo messo tante cose che a noi non piacciono. Allora noi non vogliamo mai stare in silenzio, perché, in realtà, noi non vogliamo mai tornare dentro noi stessi. Perché se noi andiamo dentro noi stessi sapete che cosa noi sperimentiamo? La folla, non la pace. Cominciamo ad avere pensieri, preoccupazioni, frustrazioni, sofferenze, esperienze del passato che ci ritornano alla mente, sogni che abbiamo paura di dire ad alta voce…. Insomma, dentro la nostra interiorità c’è il caos molto spesso. Noi non conosciamo nessun altro modo per imparare a pregare se non imparare a fare silenzio e cioè ad entrare dentro questo nostro mondo interiore che è abitato da una folla e permettere a Gesù di fare ordine in quella folla. Che cosa succede quando noi entriamo dentro noi stessi? Succede che è come se sentiamo tantissime voci che ci urlano a destra e a sinistra, che ci confondono e che ci inquietano. Ecco, in mezzo a tutte queste voci c’è una voce, che è la voce principale: è la voce dello Spirito Santo. E questa voce dello Spirito è mescolata a mille altre voci. Tu devi imparare a riconoscere quella voce tra mille voci. Gesù usa una espressione molto bella nel vangelo, dice che il pastore e le pecore, in fondo, hanno un linguaggio tutto loro. Quando il pastore parla (noi siamo gente del sud e quindi questa roba la capiamo meglio, perché magari ci è capitato proprio di incontrare delle persone che esercitano questo mestiere) allora tu ti accorgi che il fischio del pastore, che la parola del pastore, il rumore che lui fa con la sua voce diventa direttamente un segno di riconoscimento per quegli animali. Quelle pecore riconoscono subito quel segnale e si muovono di conseguenza. Hanno elaborato un alfabeto che li rende riconoscibili tra di loro. Ora anche noi abbiamo la voce del pastore che ci abita e dobbiamo tornare ad ascoltare questa unica voce preziosa che è mescolata in mezzo al rumore che ci portiamo dentro. S. Ignazio usa una parola, molto abusata, purtroppo, da noi, forse anche molto fraintesa, che è la parola “DISCERNIMENTO”. Il silenzio ti aiuta ad entrare dentro te stesso e quando tu entri dentro te stesso, devi imparare a fare discernimento. S. Ignazio dice: “Innanzitutto devi imparare a fare discernimento”. S. Ignazio dice: “Innanzitutto devi imparare a dividere tra le cose che vengono dall’alto e le cose che vengono dal basso; quelle cose che vengono dallo Spirito buono e le cose che vengono dallo spirito cattivo”. Già soltanto se dividessimo questi due gruppi, ci accorgeremmo che molti pensieri, molte emozioni, molte voci non vengono da sopra ma vengono da sotto e se tu sai che vengono da sotto devi imparare a non dare troppa importanza a queste voci, devi imparare a relativizzarle, a banalizzarle, a sorridere di queste voci, perché se invece ascolti quelle voci entri in paranoia. Non soltanto. Poi, quando incontri le voci che vengono dall’alto, non tutte le voci che vengono dall’alto sono voci che vengono da Dio, perché tu puoi avere dentro di te tante esperienze di bene, ma non tutto il bene che ti porti dentro è volontà di Dio. Volete un esempio? Io oggi devo decidere se aiutare una persona in una difficoltà, andare a fare il servizio alla mensa dei poveri, mettermi a confessare delle persone che me l’hanno domandato, preparare un incontro per domani…. Vi ho fatto un esempio di cose che potrei fare. Sono tutte cose buone…. e come faccio a capire quale è la cosa giusta!? Mi devo domandare, fra tutte queste cose buone, quale è la volontà di Dio, che è solo una fra tutte queste cose… e quindi fin che tu devi capire la differenza tra il bene e il male può essere relativamente facile – e vi posso assicurare che non lo è – ma una volta che hai escluso il male, non è detto che tutto il bene è comprensibile. Poi devi capire quale è il bene e la volontà di Dio… perché quando il male ha perso la sua partita, si traveste di bene e tu non riesci più a riconoscerlo, perché è travestito di bene: è “angelo della luce”, amici. Quindi quando smette di essere macabro, si traveste da una cosa buona e tu devi poter dire: “Tu sei una cosa buona, ma non vieni da Dio, non sei volontà di Dio”.

Ecco, come ci si fa ad educare a questo silenzio? Facendo silenzio. Scusate se posso sembrare un po’ buffo nel dire queste cose di una semplicità estrema. Ma in fondo la vita spirituale è diventare semplici. Cioè, se noi all’interno della nostra giornata non abbiamo spazi di silenzio, non ci prendiamo mai dieci minuti in cui stacchiamo i cellulari, abbassiamo il volume delle nostre radio, televisioni, cuffie… ci allontaniamo un attimo dagli altri.  Rientriamo dentro noi stessi, invochiamo lo Spirito Santo e impariamo a stare in silenzio, solo in silenzio, senza pensare a nulla senza dire nulla, senza domandare niente, standoci. Ci accorgeremo che dopo i primi secondi veniamo bombardati da migliaia di pensieri e di emozioni contrastanti, ma noi dobbiamo stare lì, fermi, in silenzio. Man mano quel caos comincia a calmarsi e in mezzo a quella calma tu cominci a discernere, a capire il bene dal male e il bene che è volontà di Dio. Quindi un grande aiuto è il silenzio.

Un grande maestro di vita spirituale, poco conosciuto,  purtroppo - papa Francesco lo ha canonizzato pochi mesi dopo che è stato eletto papa, forse perché era anche un suo confratello gesuita. Mi sto riferendo a questo santo che è san Pietro Favre, che è uno dei primi compagni di S. Ignazio di Loyola, un mistico, un uomo di immensa contemplazione – ecco, nel suo memoriale, che è il suo diario personale, a un certo punto lui dice che non iniziava mai la preghiera, ad esempio la preghiera dei salmi, quella del breviario, o la celebrazione eucaristica senza farla anticipare dal silenzio, perché il silenzio dispone il cuore. Se tu passi dall’esteriorità all’interiorità senza nessuna mediazione, senza nessuna anticamera, che dovrebbe essere l’anticamera del silenzio,  tu sprechi quel momento perché non sei presente. E perché anche se il Signore ti sta parlando, quello che tu ascolti è solo il fruscio, il fruscio di un rumore che non ti dice nulla. Io non lo so se siamo abituati al silenzio. Il silenzio ci imbarazza, il silenzio ci sembra sempre qualcosa di accessorio di cui possiamo fare a meno. Invece un cuore che prega è un cuore che misura le parole e che, solitamente, sa far diminuire le parole. Anche qui i grandi maestri di vita spirituale dicono che per poter coltivare il silenzio bisogna imparare a smettere di parlar male degli altri, bisogna imparare a mordersi la lingua. Il primo modo di esercitare il silenzio è smettere di parlar male, di giudicare gli altri, di usare la lingua in modo sbagliato. E’ interessante, no? E così come il digiuno e l’elemosina aiutano la preghiera, smettere di essere malelingue ci dispone al silenzio autentico. Quando tu controlli la tua parola e non la usi contro l’altro, tu cominci ad entrare nel clima vero del silenzio. Ecco, parlar male, giudicare, parlare a sproposito…. tutto questo rovina il silenzio perché non è semplicemente l’assenza di un suono, è una disposizione interiore il silenzio.

Seconda caratteristica che vorrei darvi: è l’ascolto. Non basta che tu faccia silenzio, devi sapere che in quel silenzio Dio parla. Ora, come facciamo a non perderci? Cioè, che cosa può dirci in maniera oggettiva che Dio ci sta parlando?. Vedete, amici, noi abbiamo uno strumento, che purtroppo non usiamo moltissimo, ma che in realtà è uno strumento potentissimo che educa il nostro ascolto; sapete che cos’è? E’ la Parola di Dio. Se tu vuoi ascoltare Dio, devi imparare ad ascoltare la sua parola. La Parola di Dio non può essere usata in maniera casuale, banale, episodica, presa a pezzettini. La parola di Dio non può essere ridotta semplicemente a qualche passo nelle nostre liturgie; la Parola di Dio deve diventare una compagnia per ciascuno di noi perché, soprattutto i vangeli, devono diventare per noi una compagnia costante, perché frequentare quella parola significa predisporre dentro di noi l’ascolto vero. Ma anche qui dobbiamo stare molto attenti: anche il demonio può usare la parola di Dio. Vi ricordate quando tenta Gesù? Come fa a tentare Gesù? Cita i salmi. Cita la bibbia. Quindi non è detto che siccome ci troviamo davanti alla Parola di Dio allora automaticamente noi ci troviamo davanti oggettivamente a Dio che ci sta parlando. Dobbiamo fare questa differenza dentro di noi. Tu devi imparare ad ascoltare la Parola permettendo alla parola di entrare dentro la tua vita facendo verità, ma facendo verità nella misericordia. Il male, invece, usa la parola di Dio per fare un altro tipo di verità. Vuole fare verità, ma per accusarti, per giudicarti, per far crescere dentro di te i sensi di colpa. Allora quando un passo della Parola di Dio vi punta il dito e vi condanna significa che ve lo sta porgendo il demonio, non lo Spirito Santo. Quando un passo della parola di Dio vi fa anche soffrire perché vi mette a nudo ma vi sentite profondamente amati in quella nudità, sentite che c’è pace in quella verità, allora lì c’è lo Spirito Santo. Ecco, noi dobbiamo imparare a frequentare la Parola di Dio e a permettere alla Parola di Dio di fare verità dentro la nostra vita, a fare verità nella carità e non verità nel giudizio. Verità come misericordia e non verità come accusa. Quindi non basta semplicemente reintrodurre i vangeli nella nostra vita, ma dobbiamo introdurre i vangeli in una modalità unica, che è quella che ci ha insegnato Gesù Cristo: “Io non sono venuto per condannare, ma per salvare”.  Quindi certamente voi questo non lo farete, ma qualcuno può avere la tentazione di poter leggere molta Parola di Dio e poi gli viene di giudicare gli altri usando quella Parola di Dio o di giudicare se stesso usando quella Parola di Dio. E citano passi e brani della bibbia per condannare la gente o per condannare se stessi. Questo è un modo diabolico di usare la Parola di Dio. Perché tu puoi usare la Parola di Dio solo e soltanto quando quella parola è misericordia. Il che non significa: “Eh no, vogliamoci bene, va bene tutto”. No. La misericordia ha la stessa rudezza di Padre Pio che diceva la verità alle persone, ma la diceva per salvarle, la diceva nella carità, con lo scopo di guarigione, non con lo scopo di distruggere chi abbiamo di fronte. Il male invece accusa per distruggere, accusa per giudicare. Io spero di avervi dato una chiave di lettura anche in questo senso, cioè educare l’ascolto significa far tornare centrale nella nostra vita la Parola di Dio, ma la Parola di Dio usata con misericordia e non con giudizio.

Terza e ultima caratteristica che vorrei condividere con voi è l’affezione. Allora, io so che è una parola un po’ desueta, quasi ottocentesca.  Che cos’è l’affezione. L’affezione significa che la preghiera deve diventare una partecipazione affettiva alla vita di Dio, cioè deve coinvolgermi nei miei affetti e non soltanto a livello intellettuale, perché altrimenti sarebbe un atteggiamento gnostico la nostra preghiera. La preghiera è vera quando ci coinvolge in maniera affettiva. E sentite come ci aiutano i santi. Che cosa facevano i santi, cosa faceva Padre Pio per coltivare questa dimensione affettiva nei confronti di Cristo: si inventava modi per voler bene a Lui… pensate alla giaculatoria. Che cos’è la giaculatoria: è una frase breve, a volte è una frase che non ha grandi significati, eccetera… ma è carica di amore, è carica di una potenza affettiva e la persona che la pronuncia, la pronuncia per esprimere l’amore, per rafforzarsi nell’amore. Se una persona che non ama sente parlare due innamorati comincia a dire: “Oddio, ma questi che si dicono ‘ste frasette…. mamma mia, basta! Non sopportabili….”. Perché non amando non riesce a comprendere che chi ama ha bisogno di esprimere in maniera affettiva il suo amore. Io mi domando se la nostra preghiera è una preghiera affettiva, oppure è semplicemente una preghiera emozionale, che non è la stessa cosa degli affetti. Emozionale significa che noi andiamo a cercare le emozioni; le cerchiamo per noi stessi. La preghiera affettiva, invece, è esprimere l’amore per indirizzarlo a qualcuno. Allora capite che la visita al Santissimo Sacramento non è una pia devozione. E’ un modo di dire: “quei due minuti che vado davanti al tabernacolo, lo faccio esattamente per rafforzare il mio legame affettivo con Lui. Signore sai perché sono venuto qui? Perché non voglio niente, voglio amarti e voglio farti compagnia un po’, perché mi manchi”. Fermarsi durante il lavoro e dire al Signore: “Ti amo, Signore, mia forza” significa non cercare grandi cose se non quello di esprimere l’amore, rafforzarsi nell’amore. Insomma, noi dovremmo imparare che l’autentica preghiera è tale quando è semplice e quando è affettiva, quando ci coinvolge anche nei nostri affetti. E sapete, penso che tutti noi, almeno una volta, abbiamo fatto esperienza nella nostra vita… e cioè che amare non è mai facile. Pensate a una madre che a volte è stanca e nonostante questo deve accudire i figli. Però lo fa; nonostante questo deve cucinare. Però cucina. Nonostante questo deve essere l’ultima che spegne la luce, e lo fa. Emotivamente non sta provando niente se non stanchezza, a volte confusione, a volte frustrazione. Però lo fa. E lo sapete perché lo fa? Perché ama. Questo è il suo modo di esprimere la sua affezione nei confronti dei figli: fare delle cose anche quando non glie ne viene, perché li ama. Ecco, nella preghiera funziona nello stesso modo. Se tu fai le cose soltanto quando te le senti di fare… eh, stiamo freschi! Se dovessimo amare così una persona… ci abbandonerebbe dopo due giorni. Voler bene a qualcuno significa coltivare, decidere di amare affettivamente qualcuno, a volte mettendosi anche un po’ contro noi stessi, contro quello che noi possiamo provare in quel momento.

Ecco, mi avvio alla conclusione: da dove nasce la preghiera allora. La preghiera non è una iniziativa nostra, è una iniziativa dello Spirito e lo Spirito solitamente suscita la preghiera dentro di noi facendoci desiderare di pregare, anche quando non ci riusciamo. Ma questo desiderio non può semplicemente rimanere un desiderio, ha bisogno di diventare un fatto. Per aiutare questo seme a germogliare, noi possiamo fare due cose: l’elemosina e il digiuno. Cioè, coltivare in maniera orizzontale compassione nei confronti della vita delle persone che sono accanto a noi, amici, non di quelle che non ci scegliamo, ma di quelle che ci stanno. Perché anch’io vorrei stare con delle persone… che purtroppo però non ci vivo, con queste persone, e vivo con altre persone… ma io è nei confronti di chi c’è dentro la mia vita che devo esercitare compassione, non di quelle che io mi scelgo. Gesù dice nel vangelo: Ma se amate quelli che vi amano, che merito ne avete, fanno così tutti” eh… sono tutti bravi a fare così dice Gesù. Amate quelli che non vi stanno proprio simpatici…. però ce li avete di fianco! Amate i vostri nemici, a volte, e i nemici ti vivono in casa, a volte, sono accanto a te, sono i tuoi colleghi di lavoro, il tuo vicino di casa. Coltivare la compassione, l’elemosina, accorgersi del dolore e del bisogno dell’altro…. questo fa germogliare il desiderio della preghiera in fatto. E la seconda cosa: digiunare, cominciare a disintossicarci da tutte le nostre dipendenze, perché sono dipendenze che riempiono il vuoto. Dobbiamo imparare ad essere nudi e crudi per poter pregare, dobbiamo imparare ad abitare il nostro vuoto. Poi dobbiamo smettere di essere concentrati su noi stessi e dobbiamo capire che non preghiamo perché stiamo cercando qualcosa per noi, ma perché stiamo cercando un altro, stiamo cercando chi amiamo. E non stiamo cercando semplicemente noi stessi. E comprendere così che la preghiera è una relazione con Dio, non una relazione con il nostro “io” più profondo.

Che cosa potrebbe aiutarci: il silenzio, l’ascolto e l’affezione.

Il silenzio come la capacità di saper entrare in maniera giusta dentro la nostra interiorità, per riscoprire, all’interno della nostra interiorità, che quel caos è abitato anche da una voce di cui noi abbiamo bisogno. Il silenzio che ci predispone, il silenzio che ci fa fare discernimento. E per poter avere questo silenzio che ci fa entrare dentro la nostra interiorità smettere di parlar male degli altri. Questo ci dispone al silenzio.

L’ascolto. Che cosa è l’ascolto: un’idea geniale che ci balena nella mente quando riflettiamo molto? No, l’ascolto è l’ascolto soprattutto della Parola di Dio. Ma la Parola di Dio può essere ambigua, può essere posta a noi dal Male o dallo Spirito Santo. Noi siamo autorizzati ad ascoltare la Parola quando quella Parola è Misericordia, quando ci dice la verità nell’amore e non quando ci dice una verità per farci sentire in colpa. E’ una verità per la vita non per la morte.

Terza cosa: coltivare un’affezione nei confronti di Dio, elaborare, cioè, dei modi di amarlo che sono tutti nostri, tutti personali; ma in cui riempiamo il tempo delle nostre giornate, il tempo di questa nostra relazione di piccole attenzioni, di piccole caratteristiche che altro non sono che un modo di esprimere l’amore e rafforzare l’amore. Pregare come partecipazione affettiva alla vita di Dio.

Mi piacerebbe dirvi che io tutte queste cose le faccio e mi riescono benissimo, sono molto bravo e sono molto felice. Invece…. sono ancora un principiante e sto imparando tutto questo e se sono molto chiaro a spiegarlo agli altri è perché in realtà sono molto affaticato nel cercare di renderlo vivo dentro la mia vita. Quindi non sono qui come testimone ma come un povero disgraziato che si trova sulla stessa barca e che ha il medesimo desiderio di pregare, ma che sa che quello che vi ho appena detto non è frutto mio ma è frutto della tradizione che la Chiesa ci ha consegnato in tanti anni e di cui io insieme con voi vorrei farne tesoro. Grazie mille.