Ho
pensato questa sera con voi di fare un itinerario, così, di lasciarvi una
traccia, con una piccola premessa. La premessa è questa, e cioè che tutte le
volte che noi facciamo questo tipo di iniziativa - che è un po’ tracciare una
scuola di preghiera - che possa aiutare un po’ a prendere contatto con questa
bellissima esperienza della preghiera, che è un po’ come il respiro per un
cristiano. Cioè, una persona che prega, è una persona che respira, una persona
che non prega è come se sta costantemente in apnea, vive nella disperazione
della mancanza di fiato, nella mancanza di ossigeno. C’è una saturazione
proprio dell’anima che viene dall’assenza della preghiera. Quando una persona
prega, quando un cristiano prega, funziona, funziona fino in fondo. Quindi per
noi la preghiera non è un hobby, non è qualcosa di cui possiamo fare a
meno, ma fa parte di quel minimo
sindacale che ci riguarda come cristiani, prima di tutto il resto, prima di
ogni cosa. Tanto è vero che la cosa che colpisce di più dei vangeli, a nostro
avviso, dovrebbero essere i grandi segni, i miracoli…. ma c’è qualcosa che è come
un sottofondo, che accompagna un po’ tutta la vicenda di Gesù, ed è la sua
capacità di pregare, in circostanze anche molto diverse tra di loro: fa dei
miracoli, e poi si allontana, passa la notte in preghiera; prima di far
risuscitare Lazzaro prega e prega anche così come abbiamo ascoltato anche
adesso, poche ore prima di entrare nel momento clou della sua esistenza, che
sono le ore della passione e della croce. La sua passione la inizia pregando,
pregando nell’orto degli ulivi, cercando ancora una volta quel rapporto col
Padre, quel desiderio della volontà di Dio. Quindi “il Gesù che prega”, in
fondo, è forse il segreto di Gesù. Noi cristiani non possiamo fare a meno di
imparare la preghiera, di dire qualcosa che abbia a che fare un po’ con questo
grande argomento della preghiera; però, vi dicevo all’inizio, con questa
premessa: non esiste una tecnica. Dobbiamo rifuggire la mentalità che ci vuole
vendere la preghiera come una tecnica. Quale è la differenza: se noi diciamo
che la preghiera è una tecnica, basta semplicemente applicare una sorta di
indicazioni, di regole, e pensiamo che basta stare a quelle regole per ottenere
un risultato. Magari fosse così! In realtà non è così perché la preghiera non
può essere ridotta a una tecnica, perché la
preghiera è una relazione. E le relazioni sono imprevedibili, soprattutto
ci coinvolgono in maniera molto profonda, non possono essere racchiuse in una
formula; e hanno bisogno invece di imparare a regolarci di volta in volta, a
capire che cosa è giusto in quel momento. Quindi una scuola di preghiera, in
fondo, ci insegna una cosa molto importante: che non esiste una scuola di
preghiera, cioè che non esiste un modo attraverso cui noi sicuramente
impareremmo a pregare, ma esiste qualcosa che dovrebbe farci venir voglia di
pregare. L’unico modo per imparare a pregare è: pregare. Non ci sono altri
modi. Quindi per tentativo, per esperienza, perché ci proviamo e ci riproviamo,
ogni giorno, a volte sbagliando, a volte deragliando, a volte paganizzando,
perché c’è questo fantasma costante di usare un atteggiamento pagano nella
preghiera che va purificato, di volta in volta, con molta misericordia. Ma noi
non conosciamo nessun altro modo di progredire nella preghiera se non pregando.
Leggere molti libri sulla preghiera non aiuta la preghiera. Fare molti corsi
sulla preghiera non aiuta la preghiera quanto, invece, pregare, provare a
pregare, tentare di pregare. Un buon libro che vuole insegnare la preghiera
deve far venire voglia di pregare, non sostituirsi. Una buona scuola di
preghiera deve far venire il desiderio
di cominciare questo tentativo della preghiera. Pregare è “provare a pregare”,
come l’amore, per noi cristiani, è “provare ad amare”, anche quando non ci
riusciamo, ma noi dobbiamo provarci costantemente.
Bene,
il punto di partenza, io credo, per avere un cuore che prega – ed è una
preghiera, veramente, domandare al Signore di donarci un cuore che prega – è
comprendere quello che ci ha insegnato in maniera mirabile S. Agostino quando
ci ha detto che l’inizio vero della preghiera è il desiderio. Che cosa
significa, fondamentalmente: che il
primo modo di iniziare a pregare è desiderare di pregare, è coltivare
dentro di noi questo desiderio. Vedete, amici, non è scontato che dal desiderio
si passi poi al fatto. Però è importante il desiderio. Cioè, pregare non può
essere un incidente; non può essere semplicemente qualcosa che a un certo punto
la vita ci costringe a fare… Avete presente quando magari dopo tanto tempo che
non abbiamo una vita cristiana, dobbiamo partecipare a un funerale o a un
matrimonio o a un battesimo… siamo un po’ costretti a pregare… in quelle
circostanze cerchiamo di ricordare delle formule, di dire delle parole…. No, io
credo che c’è una fase, e questa è una fase proprio della vita spirituale. E
quando dico che è una fase della vita spirituale sto dicendo che è lo Spirito
che sta facendo questa cosa dentro il nostro cuore. Quando lo Spirito vuole
insegnarci a pregare, la prima cosa che fa crescere dentro di noi è il
desiderio della preghiera. Solitamente, però, questo desiderio della preghiera
poi si scontra con che cosa? Con il nostro peccato originale, con le ferite del
nostro peccato originale. La ferita più
grande del nostro peccato originale, che ci portiamo tutti addosso, è la ferita
del nostro “IO”. Cioè, il nostro
“io” solitamente riempie tutto lo spazio e impedisce l’ingresso di qualunque
altra esperienza, persino l’esperienza dell’amore. Ad esempio, una persona che
è molto concentrata sul proprio io, cioè ha un “IO” che ha preso tutto lo
spazio, in italiano si usa la parola egoista; però solitamente quando usiamo la
parola egoista ne diamo subito un’accezione morale, moralistica. Invece vorrei
dire che una persona che è centrata su di sé non trova spazio nemmeno per
amare, perché per poter amare tu devi diminuire, devi fare spazio all’altro.
Per poter amare tu devi far rimpicciolire il tuo “io” perché se il tuo io
riempie tutta la stanza del tuo cuore, non può entrare nessuno dentro quel
cuore. Ecco allora perché - se in quella stanza c’è tanto del nostro io, che fa
da impedimento, c’è tanta della nostra esperienza che fa da impedimento; ci
sono le nostre ferite che impediscono la preghiera - il primo modo attraverso
cui si crea una crepa dentro quel pieno del nostro cuore è esattamente il
desiderio. DESIDERARE. Desidero ma non ci riesco. Allora, se voi che mi state
ascoltando avete un grande desiderio di preghiera, ma non state riuscendo
ancora a pregare veramente, questa non è una brutta notizia…. Significa che lo
Spirito sta iniziando dentro di voi un percorso, un cammino. Quanto durerà
questo desiderio prima di diventare un fatto? Non lo so, ve l’ho detto prima, non
è una tecnica. Magari per molti anni ci terremo semplicemente una nostalgia di
preghiera, un desiderio di Dio e non riusciremo mai a farlo diventare davvero
una fedeltà, un’esperienza forte che possa attraversare la nostra vita. Ma
dobbiamo coltivare questo desiderio. Non dobbiamo smettere di desiderare questa
cosa. Un po’ come quando nella vita a un certo punto sentiamo l’unica cosa che
potrebbe riempire la nostra esistenza sarebbe amare qualcuno. Però non abbiamo
nessuno da amare, cioè non ci accorgiamo che nella nostra vita c’è una persona
in particolare da amare e chiediamo questo amore, desideriamo con tutte le
nostre forze qualcuno da amare, una persona specifica con cui costruire una
relazione unica, irripetibile, esclusiva. Ecco, se viene meno questo desiderio
dell’amore, allora non daremo a nessuno mai l’occasione di entrare davvero dentro la nostra vita e di amarci. Ecco, nella
preghiera funziona anche in questo modo. Prima però vi ho detto che, in realtà,
il più grande impedimento alla nostra di preghiera è il nostro “io”. Padre Pio
ci insegna, in fondo – ma non solo lui – queste figure di santità così
essenziali ci ricordano che la conditio sine qua non, cioè la condizione minima
per poter dire che noi possiamo vivere davvero una vita spirituale e imparare a
pregare è l’umiltà. E che cos’è l’umiltà? L’umiltà è la capacita di saper
ridimensionarsi, cioè di scoprire di nuovo la nostra vera dimensione. Le
persone umili sono coloro che in fondo hanno ritrovato la loro giusta
dimensione perché hanno preso contatto con la propria miseria, conoscono i
propri limiti, hanno fatto esperienza di quanto valgono e non vivono questo
come una frustrazione ma spalancano l’esperienza della loro miseria all’amore
di Dio. Gli umili sono le persone concrete che non sono concrete solo perché
sono pratiche, sono concrete perché concretamente conoscono se stessi,
conoscono che cosa li aiuta e che cosa li ferma; conoscono le loro potenzialità
e le loro mancanze. Le persone umili sono quelle che riescono a indicare, in maniera
molto precisa, chi sono loro. E questo, vedete, non si apprende per
riflessione, si apprende, purtroppo, per trauma, perché l’umiltà la impariamo
sbagliando; soprattutto quando facciamo l’esperienza del peccato ci accorgiamo
di toccare in maniera violenta, traumatica i nostri limiti. E siccome noi
perdiamo molto tempo quando incontriamo i nostri limiti – a sentirci in colpa,
a giudicarci – ci dimentichiamo una cosa che sta per accadere tra poche ore, e
cioè che Gesù morendo in croce ci ha liberato dalla colpa e noi non dobbiamo
perdere tempo a sentirci in colpa ma dobbiamo fare tesoro persino delle nostre
esperienze di peccato affinché ciascuno di noi possa conoscere se stesso,
conoscere come è fatto, conoscere ciò che lo aiuta, ciò che lo avvantaggia, ciò
che lo limita. Ad esempio una persona che ha come limite il voler affermare
eccessivamente se stesso – pensate, non so, alla vanagloria, a una forma di
dipendenza, ecc. – finché tu non ne hai consapevolezza rimani sempre incastrato
in situazioni della vita dove tutto questo ti impedisce di progredire, di
andare avanti. Se tu conosci te stesso, riesci anche a prendere le giuste
misure, a capire come devi comportarti in questo senso. Ecco, se l’inizio della
preghiera è il desiderio di pregare, il secondo passaggio è capire che per
poter pregare dobbiamo accettare di conoscere noi stessi, dobbiamo imparare
l’umiltà, dobbiamo imparare a lasciarci
educare anche dai nostri limiti, dalle nostre cadute. Dobbiamo liberare anche
la nostra fragilità dal senso di colpa e lasciare che le nostre cadute possano
darci una lezione, perché ci insegnano, in fondo, chi siamo e chi siamo in
questo momento, i nostri “più” e i nostri “meno”, le cose belle e le cose
brutte, la luce e l’ombra che ci abita. Ma le persone umili sono anche quelle
che comprendono che si può vivere la preghiera a patto che la preghiera sia una
relazione. Sapete perché questo è importante? Perché noi viviamo in un momento
storico dove c’è una grande domanda di spiritualità. Ma questa domanda di
spiritualità non è cristiana perché è un’espressione del nostro individualismo.
Cerco di spiegarmi e di essere molto concreto. La gente vuole imparare a
pregare perché vuole stare meglio, vuole pregare per ritrovare un benessere.
Vorrebbe una vita spirituale perché vuole pacificarsi, vuole tenere sotto
controllo la propria vita, vuole rasserenarsi. In tutto ciò – e non c’è niente
di male nel far questo - non c’è niente
di cristiano. Perché? Perché la preghiera non è fatta per donarci il benessere.
Al massimo quella è una conseguenza della preghiera, ma non è il motivo della
preghiera. La preghiera è un modo di stare in relazione con qualcuno che ami.
Se tu sei concentrato su te stesso, tu cerchi la preghiera per star bene tu, ma
non ti interessa dell’altro. Vuoi l’altro, ad esempio vuoi l’incontro con Dio,
vuoi l’incontro con Gesù, perché vuoi pregare Gesù e vuoi piegare Gesù e vuoi
piegare Dio ai tuoi bisogni, al tuo desiderio di trovare benessere, di star
bene, di pacificarti. Invece la rivoluzione della preghiera è che a un certo
punto tu smetti di pensare a te, non sei più la cosa più interessante in quella
relazione, perché quando tu ami qualcuno, tu smetti di essere interessante. E
che cosa diventa interessante? L’altro, chi c’hai di fronte, quella persona che
stai amando: quella persona diventa la cosa più interessante per te. Allora noi
possiamo dire di aver sperimentato l’amore nella vita quando abbiamo
sperimentato una relazione che ci ha distratti da noi, da noi stessi e ci ha
fatto concentrare fuori da noi stessi verso qualcun altro. La preghiera
cristiana è focalizzare che la cosa più importante per noi non è star bene noi
ma è scoprire il volto di questa persona che diciamo di amare e che nella preghiera
vogliamo cominciare a esprimere in una relazione concreta e precisa. Ecco, io
mi fermo mezzo secondo su questa immagine perché in realtà penso che tutti noi
siamo un po’ vittime di questo fraintendimento della preghiera. E dico che ne
siamo vittime perché a un certo punto, ad esempio, pensiamo che non siamo
capaci di pregare semplicemente perché, magari, pregando non otteniamo quello
che avevamo in mente quando abbiamo iniziato a pregare. Una persona dice: “Io
oggi….. questa adorazione non è servita a niente perché… non ho sentito niente
durante questa adorazione”. Ma lo scopo dell’adorazione non era che tu sentissi
qualcosa; tu sei andato lì per Qualcuno, non sei andato lì per te stesso; non
sei andato lì per trovare qualcosa che aiutasse te, ma sei andato lì spinto dal
desiderio profondo di incontrare qualcuno che ami. A volte i nostri percorsi,
anche le nostre proposte, possono diventare terribilmente un modo di essere
ripiegati su noi stessi. E Gesù, Dio, la Madonna, i Santi.. sono semplicemente
un modo per celebrare noi stessi, per essere concentrati su noi stessi. Quindi
finché noi non convertiamo questa visione della preghiera, vorremmo soltanto
imparare tecniche di rilassamento, di meditazione: yoga di matrice cristiana,
modi per calmare l’ansia… ma questa non è la preghiera cristiana, tanto è vero
che se noi ci andiamo a prendere tutti i brani del vangelo in cui Gesù ci
spiega la preghiera, unisce sempre l’esperienza della preghiera a due cose
importanti: dice che una preghiera è
efficace a patto che sia unita all’elemosina e al digiuno. Ora anche qui
non è una tecnica che ci sta insegnando Gesù, ma ci sta dicendo una cosa molto
importante: affinché la nostra preghiera non diventi rischiosamente un modo per
essere ripiegati su noi stessi, noi dobbiamo esercitare l’elemosina.
Che cos’è
l’elemosina?
Accorgerti del dolore dell’altro, del bisogno dell’altro, del dolore del
fratello. Se tu non coltivi un profondo senso di empatia, di coinvolgimento –
usiamo la parola giusta - di compassione nei confronti della vita delle persone
che il Signore ti ha messo accanto, tu non puoi pregare. Se tu sei cinico,
freddo, indifferente rispetto alle persone che hai accanto, puoi frequentare
tutte le scuole di preghiera del mondo, puoi dire tutte le formule del mondo,
ma tu non stai pregando; perché l’unica cosa che ti aiuta davvero ad entrare
nella preghiera è cominciare a smettere di essere indifferente al dolore, al
bisogno dell’altro. L’elemosina non è semplicemente dare qualcosa da mangiare a
qualcuno, ma è considerare attorno a me la sofferenza, il dolore, e il bisogno
dell’altro. Chi esercita l’elemosina deve poter essere attento a chi c’ha di
fianco. Se tu non coltivi questo atteggiamento compassionevole intorno a te,
non puoi nemmeno pregare.
La
seconda caratteristica che Gesù unisce per una buona preghiera è il digiuno. Anche qui, se tu passi la vita
a riempire semplicemente i tuoi vuoti – e solitamente noi usiamo il cibo per
riempire i nostri vuoti (è il nostro modo principale e non è l’unico: a volte
abbiamo relazioni tossiche, modi sbagliati di vivere la sessualità….però sono
tutti tentativi di riempire un vuoto). Finché tu non impari a digiunare, cioè
ad accettare che tu hai un vuoto, una mancanza, a saper abitare quel vuoto e
quella mancanza, se tu continui invece ad essere sempre dipendente da qualcosa
che deve riempire quel vuoto, non si può dare nessuna preghiera per te perché,
in realtà, la preghiera per te inizia quando tu accetti quel vuoto, quando
accetti di essere mancante, di essere bisognoso. Il diavolo nel deserto, quando
tenta Gesù, lo tenta esattamente su questo: Gesù ha fame. Dice il racconto del
vangelo che dopo quaranta giorni Gesù ebbe fame; e quindi avverte un bisogno
Gesù, avverte una fame. Cosa fa il demonio? Dice a Gesù: “riempi subito quella
fame, quel vuoto. E fallo in tutti i modi possibili e immaginabili, Tu che
tutto puoi e che sei onnipotente, prendi delle pietre e trasformale in pane e
riempi quel vuoto”. E che cosa risponde Gesù? “Non di solo pane vive l’uomo, ma
di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”, che è un po’ come dire: se io
voglio ascoltare Dio, devo ascoltare questa fame, devo ascoltare questa
mancanza. E se io invece soffoco quella fame e quella mancanza, non riuscirò
mai, fino in fondo, ad ascoltare Dio.
Capite
allora che le due condizioni della
preghiera, che sono l’elemosina e il digiuno, non sono semplicemente dare dei
soldi a qualcuno e non mangiare a mezzogiorno, ma è coltivare due atteggiamenti
di fondo: la compassione e la capacità di accettare i nostri vuoti, le
nostre mancanze, senza riempirle con tutte le forme di dipendenza che abbiamo
sviluppato all’interno della nostra vita. E’ un lavoro su noi stessi molto
profondo questo, ma è l’unico modo che ci inserisce davvero in una preghiera
efficace. E quando dico una preghiera efficace non sto dicendo una preghiera
che alla fine ci ottiene la grazia, ma che trasforma noi in una grazia. Persone
come Padre Pio, che pregavano davvero in questo modo, dispensavano, a volte, la
grazia di Dio senza nemmeno saperlo, cioè erano un po’ come Mosè: ricordate il
racconto di Mosè che scendendo dal monte Sion, dal monte dove ha ricevuto le
tavole della legge, è trasfigurato in volto. Significa che emana luce e lui non
può farci niente! Ma tutto questo nasce da che cosa? dalla sua capacità di
essere stato davanti al Signore. Ecco, io credo che questa è un a condizione
molto importante, cioè quella di unire delle scelte esistenziali che permettono
un po’ la nostra preghiera. Se tu sei ripiegato su te stesso e se tu non lavori
sulla tua compassione e sul tuo vuoto, non riesci ad entrare davvero in un
clima di preghiera, in un cuore che prega, in un cuore che ha questa
educazione, questa postura di fondo che ci mette in relazione con Dio.
Vorrei
qui, a questo punto, individuare alcune cose che possono esserci di aiuto. Tre,
fondamentalmente. In realtà ci sarebbero tantissime cose da dire sulla
preghiera, ma purtroppo non abbiamo molto tempo e vorrei lasciare un po’ di
spazio anche al nostro confronto, al fatto di poter dialogare, anche rispetto a
quello che ci stiamo dicendo. Ho voluto scegliere, però, tre caratteristiche che spero possano esservi utili per poter avere un
cuore che prega.
La prima
caratteristica è il
silenzio. Che cosa è il silenzio. Il
silenzio è una cosa che temiamo moltissimo. Perché quando una persona comincia
a fare silenzio dentro la propria vita, è scaraventato nella propria
interiorità. Ora, se nella nostra interiorità ci fosse pace, ci sarebbe
facilissimo fare silenzio; perché uno dice “faccio silenzio e ritrovo pace,
perché nella mia interiorità c’è pace”. Ma solitamente la nostra interiorità
sapete che cosa è? E’ una cantina ripiena di un sacco di roba che a noi non
piace. E’ il tappeto sotto cui abbiamo
messo tante cose che a noi non piacciono. Allora noi non vogliamo mai stare in
silenzio, perché, in realtà, noi non vogliamo mai tornare dentro noi stessi.
Perché se noi andiamo dentro noi stessi sapete che cosa noi sperimentiamo? La
folla, non la pace. Cominciamo ad avere pensieri, preoccupazioni, frustrazioni,
sofferenze, esperienze del passato che ci ritornano alla mente, sogni che
abbiamo paura di dire ad alta voce…. Insomma, dentro la nostra interiorità c’è
il caos
molto spesso. Noi non conosciamo nessun altro modo per imparare a pregare se
non imparare a fare silenzio e cioè ad entrare dentro questo nostro mondo
interiore che è abitato da una folla e permettere a Gesù di fare ordine in
quella folla. Che cosa succede quando noi entriamo dentro noi stessi? Succede
che è come se sentiamo tantissime voci che ci urlano a destra e a sinistra, che
ci confondono e che ci inquietano. Ecco, in mezzo a tutte queste voci c’è una
voce, che è la voce principale: è la voce dello Spirito Santo. E questa voce
dello Spirito è mescolata a mille altre voci. Tu devi imparare a riconoscere
quella voce tra mille voci. Gesù usa una espressione molto bella nel vangelo,
dice che il pastore e le pecore, in fondo, hanno un linguaggio tutto loro.
Quando il pastore parla (noi siamo gente del sud e quindi questa roba la
capiamo meglio, perché magari ci è capitato proprio di incontrare delle persone
che esercitano questo mestiere) allora tu ti accorgi che il fischio del
pastore, che la parola del pastore, il rumore che lui fa con la sua voce
diventa direttamente un segno di riconoscimento per quegli animali. Quelle
pecore riconoscono subito quel segnale e si muovono di conseguenza. Hanno
elaborato un alfabeto che li rende riconoscibili tra di loro. Ora anche noi
abbiamo la voce del pastore che ci abita e dobbiamo tornare ad ascoltare questa
unica voce preziosa che è mescolata in mezzo al rumore che ci portiamo dentro.
S. Ignazio usa una parola, molto abusata, purtroppo, da noi, forse anche molto
fraintesa, che è la parola “DISCERNIMENTO”.
Il silenzio ti aiuta ad entrare dentro te stesso e quando tu entri dentro te
stesso, devi imparare a fare discernimento. S. Ignazio dice: “Innanzitutto devi
imparare a fare discernimento”. S. Ignazio dice: “Innanzitutto devi imparare a
dividere tra le cose che vengono dall’alto e le cose che vengono dal basso;
quelle cose che vengono dallo Spirito buono e le cose che vengono dallo spirito
cattivo”. Già soltanto se dividessimo questi due gruppi, ci accorgeremmo che
molti pensieri, molte emozioni, molte voci non vengono da sopra ma vengono da
sotto e se tu sai che vengono da sotto devi imparare a non dare troppa
importanza a queste voci, devi imparare a relativizzarle, a banalizzarle, a
sorridere di queste voci, perché se invece ascolti quelle voci entri in
paranoia. Non soltanto. Poi, quando incontri le voci che vengono dall’alto, non
tutte le voci che vengono dall’alto sono voci che vengono da Dio, perché tu
puoi avere dentro di te tante esperienze di bene, ma non tutto il bene che ti porti dentro è volontà di Dio. Volete un
esempio? Io oggi devo decidere se aiutare una persona in una difficoltà, andare
a fare il servizio alla mensa dei poveri, mettermi a confessare delle persone
che me l’hanno domandato, preparare un incontro per domani…. Vi ho fatto un
esempio di cose che potrei fare. Sono tutte cose buone…. e come faccio a capire
quale è la cosa giusta!? Mi devo domandare, fra tutte queste cose buone, quale
è la volontà di Dio, che è solo una fra tutte queste cose… e quindi fin che tu
devi capire la differenza tra il bene e il male può essere relativamente facile
– e vi posso assicurare che non lo è – ma una volta che hai escluso il male,
non è detto che tutto il bene è comprensibile. Poi devi capire quale è il bene
e la volontà di Dio… perché quando il male ha perso la sua partita, si traveste
di bene e tu non riesci più a riconoscerlo, perché è travestito di bene: è “angelo della luce”, amici. Quindi quando
smette di essere macabro, si traveste da una cosa buona e tu devi poter dire:
“Tu sei una cosa buona, ma non vieni da Dio, non sei volontà di Dio”.
Ecco,
come ci si fa ad educare a questo silenzio? Facendo silenzio. Scusate se posso
sembrare un po’ buffo nel dire queste cose di una semplicità estrema. Ma in
fondo la vita spirituale è diventare semplici. Cioè, se noi all’interno della
nostra giornata non abbiamo spazi di silenzio, non ci prendiamo mai dieci
minuti in cui stacchiamo i cellulari, abbassiamo il volume delle nostre radio,
televisioni, cuffie… ci allontaniamo un attimo dagli altri. Rientriamo dentro noi stessi, invochiamo lo
Spirito Santo e impariamo a stare in silenzio, solo in silenzio, senza pensare
a nulla senza dire nulla, senza domandare niente, standoci. Ci accorgeremo che
dopo i primi secondi veniamo bombardati da migliaia di pensieri e di emozioni
contrastanti, ma noi dobbiamo stare lì, fermi, in silenzio. Man mano quel caos comincia a calmarsi e in mezzo a
quella calma tu cominci a discernere, a capire il bene dal male e il bene che è
volontà di Dio. Quindi un grande aiuto è il silenzio.
Un
grande maestro di vita spirituale, poco conosciuto, purtroppo - papa Francesco lo ha canonizzato
pochi mesi dopo che è stato eletto papa, forse perché era anche un suo
confratello gesuita. Mi sto riferendo a questo santo che è san Pietro Favre,
che è uno dei primi compagni di S. Ignazio di Loyola, un mistico, un uomo di
immensa contemplazione – ecco, nel suo memoriale, che è il suo diario
personale, a un certo punto lui dice che non iniziava mai la preghiera, ad
esempio la preghiera dei salmi, quella del breviario, o la celebrazione
eucaristica senza farla anticipare dal silenzio, perché il silenzio dispone il
cuore. Se tu passi dall’esteriorità all’interiorità senza nessuna mediazione,
senza nessuna anticamera, che dovrebbe essere l’anticamera del silenzio, tu sprechi quel momento perché non sei presente.
E perché anche se il Signore ti sta parlando, quello che tu ascolti è solo il
fruscio, il fruscio di un rumore che non ti dice nulla. Io non lo so se siamo
abituati al silenzio. Il silenzio ci imbarazza, il silenzio ci sembra sempre qualcosa
di accessorio di cui possiamo fare a meno. Invece un cuore che prega è un cuore
che misura le parole e che, solitamente, sa far diminuire le parole. Anche qui
i grandi maestri di vita spirituale dicono che per poter coltivare il silenzio
bisogna imparare a smettere di parlar male degli altri, bisogna imparare a
mordersi la lingua. Il primo modo di esercitare il silenzio è smettere di
parlar male, di giudicare gli altri, di usare la lingua in modo sbagliato. E’
interessante, no? E così come il digiuno
e l’elemosina aiutano la preghiera, smettere di essere malelingue ci dispone al
silenzio autentico. Quando tu controlli la tua parola e non la usi contro
l’altro, tu cominci ad entrare nel clima vero del silenzio. Ecco, parlar male,
giudicare, parlare a sproposito…. tutto questo rovina il silenzio perché non è
semplicemente l’assenza di un suono, è
una disposizione interiore il silenzio.
Seconda
caratteristica che vorrei darvi: è l’ascolto. Non basta che tu faccia silenzio, devi sapere
che in quel silenzio Dio parla. Ora, come facciamo a non perderci? Cioè, che
cosa può dirci in maniera oggettiva che Dio ci sta parlando?. Vedete, amici,
noi abbiamo uno strumento, che purtroppo non usiamo moltissimo, ma che in
realtà è uno strumento potentissimo che educa il nostro ascolto; sapete che
cos’è? E’ la Parola di Dio. Se tu vuoi ascoltare Dio, devi imparare ad
ascoltare la sua parola. La Parola di Dio non può essere usata in maniera
casuale, banale, episodica, presa a pezzettini. La parola di Dio non può essere
ridotta semplicemente a qualche passo nelle nostre liturgie; la Parola di Dio
deve diventare una compagnia per ciascuno di noi perché, soprattutto i vangeli,
devono diventare per noi una compagnia costante, perché frequentare quella
parola significa predisporre dentro di noi l’ascolto vero. Ma anche qui
dobbiamo stare molto attenti: anche il demonio può usare la parola di Dio. Vi
ricordate quando tenta Gesù? Come fa a tentare Gesù? Cita i salmi. Cita la
bibbia. Quindi non è detto che siccome ci troviamo davanti alla Parola di Dio
allora automaticamente noi ci troviamo davanti oggettivamente a Dio che ci sta
parlando. Dobbiamo fare questa differenza dentro di noi. Tu devi imparare ad
ascoltare la Parola permettendo alla parola di entrare dentro la tua vita
facendo verità, ma facendo verità nella misericordia. Il male, invece, usa la
parola di Dio per fare un altro tipo di verità. Vuole fare verità, ma per
accusarti, per giudicarti, per far crescere dentro di te i sensi di colpa.
Allora quando un passo della Parola di Dio vi punta il dito e vi condanna
significa che ve lo sta porgendo il demonio, non lo Spirito Santo. Quando un
passo della parola di Dio vi fa anche soffrire perché vi mette a nudo ma vi
sentite profondamente amati in quella nudità, sentite che c’è pace in quella
verità, allora lì c’è lo Spirito Santo. Ecco, noi dobbiamo imparare a
frequentare la Parola di Dio e a permettere alla Parola di Dio di fare verità dentro
la nostra vita, a fare verità nella carità e non verità nel giudizio. Verità
come misericordia e non verità come accusa. Quindi non basta semplicemente
reintrodurre i vangeli nella nostra vita, ma dobbiamo introdurre i vangeli in
una modalità unica, che è quella che ci ha insegnato Gesù Cristo: “Io non sono
venuto per condannare, ma per salvare”.
Quindi certamente voi questo non lo farete, ma qualcuno può avere la
tentazione di poter leggere molta Parola di Dio e poi gli viene di giudicare
gli altri usando quella Parola di Dio o di giudicare se stesso usando quella Parola
di Dio. E citano passi e brani della bibbia per condannare la gente o per
condannare se stessi. Questo è un modo diabolico di usare la Parola di Dio.
Perché tu puoi usare la Parola di Dio solo e soltanto quando quella parola è
misericordia. Il che non significa: “Eh no, vogliamoci bene, va bene tutto”.
No. La misericordia ha la stessa rudezza di Padre Pio che diceva la verità alle
persone, ma la diceva per salvarle, la diceva nella carità, con lo scopo di
guarigione, non con lo scopo di distruggere chi abbiamo di fronte. Il male
invece accusa per distruggere, accusa per giudicare. Io spero di avervi dato
una chiave di lettura anche in questo senso, cioè educare l’ascolto significa
far tornare centrale nella nostra vita la Parola di Dio, ma la Parola di Dio
usata con misericordia e non con giudizio.
Terza e ultima
caratteristica che vorrei condividere con voi è l’affezione. Allora, io so che è una
parola un po’ desueta, quasi ottocentesca.
Che cos’è l’affezione. L’affezione
significa che la preghiera deve diventare una partecipazione affettiva alla
vita di Dio, cioè deve coinvolgermi nei miei affetti e non soltanto a
livello intellettuale, perché altrimenti sarebbe un atteggiamento gnostico la
nostra preghiera. La preghiera è vera quando ci coinvolge in maniera affettiva.
E sentite come ci aiutano i santi. Che cosa facevano i santi, cosa faceva Padre
Pio per coltivare questa dimensione affettiva nei confronti di Cristo: si
inventava modi per voler bene a Lui… pensate alla giaculatoria. Che cos’è la
giaculatoria: è una frase breve, a volte è una frase che non ha grandi
significati, eccetera… ma è carica di amore, è carica di una potenza affettiva
e la persona che la pronuncia, la pronuncia per esprimere l’amore, per
rafforzarsi nell’amore. Se una persona che non ama sente parlare due innamorati
comincia a dire: “Oddio, ma questi che si dicono ‘ste frasette…. mamma mia,
basta! Non sopportabili….”. Perché non amando non riesce a comprendere che chi
ama ha bisogno di esprimere in maniera affettiva il suo amore. Io mi domando se
la nostra preghiera è una preghiera affettiva, oppure è semplicemente una
preghiera emozionale, che non è la stessa cosa degli affetti. Emozionale
significa che noi andiamo a cercare le emozioni; le cerchiamo per noi stessi.
La preghiera affettiva, invece, è esprimere l’amore per indirizzarlo a
qualcuno. Allora capite che la visita al Santissimo Sacramento non è una pia
devozione. E’ un modo di dire: “quei due minuti che vado davanti al
tabernacolo, lo faccio esattamente per rafforzare il mio legame affettivo con
Lui. Signore sai perché sono venuto qui? Perché non voglio niente, voglio
amarti e voglio farti compagnia un po’, perché mi manchi”. Fermarsi durante il
lavoro e dire al Signore: “Ti amo, Signore, mia forza” significa non cercare
grandi cose se non quello di esprimere l’amore, rafforzarsi nell’amore.
Insomma, noi dovremmo imparare che l’autentica preghiera è tale quando è
semplice e quando è affettiva, quando ci coinvolge anche nei nostri affetti. E
sapete, penso che tutti noi, almeno una volta, abbiamo fatto esperienza nella
nostra vita… e cioè che amare non è mai facile. Pensate a una madre che a volte
è stanca e nonostante questo deve accudire i figli. Però lo fa; nonostante
questo deve cucinare. Però cucina. Nonostante questo deve essere l’ultima che
spegne la luce, e lo fa. Emotivamente non sta provando niente se non
stanchezza, a volte confusione, a volte frustrazione. Però lo fa. E lo sapete
perché lo fa? Perché ama. Questo è il suo modo di esprimere la sua affezione
nei confronti dei figli: fare delle cose anche quando non glie ne viene, perché
li ama. Ecco, nella preghiera funziona nello stesso modo. Se tu fai le cose
soltanto quando te le senti di fare… eh, stiamo freschi! Se dovessimo amare
così una persona… ci abbandonerebbe dopo due giorni. Voler bene a qualcuno
significa coltivare, decidere di amare affettivamente qualcuno, a volte
mettendosi anche un po’ contro noi stessi, contro quello che noi possiamo
provare in quel momento.
Ecco,
mi avvio alla conclusione: da dove nasce la preghiera allora. La preghiera non è una iniziativa nostra, è
una iniziativa dello Spirito e lo Spirito solitamente suscita la preghiera
dentro di noi facendoci desiderare di pregare, anche quando non ci riusciamo.
Ma questo desiderio non può semplicemente rimanere un desiderio, ha bisogno di
diventare un fatto. Per aiutare questo seme a germogliare, noi possiamo fare
due cose: l’elemosina e il digiuno. Cioè, coltivare in maniera orizzontale
compassione nei confronti della vita delle persone che sono accanto a noi, amici,
non di quelle che non ci scegliamo, ma di quelle che ci stanno. Perché anch’io
vorrei stare con delle persone… che purtroppo però non ci vivo, con queste persone,
e vivo con altre persone… ma io è nei confronti di chi c’è dentro la mia vita che
devo esercitare compassione, non di quelle che io mi scelgo. Gesù dice nel vangelo: “Ma se amate quelli che vi amano, che merito
ne avete, fanno così tutti” eh… sono tutti bravi a fare così dice Gesù.
Amate quelli che non vi stanno proprio simpatici…. però ce li avete di fianco!
Amate i vostri nemici, a volte, e i nemici ti vivono in casa, a volte, sono
accanto a te, sono i tuoi colleghi di lavoro, il tuo vicino di casa. Coltivare
la compassione, l’elemosina, accorgersi del dolore e del bisogno dell’altro…. questo
fa germogliare il desiderio della preghiera in fatto. E la seconda cosa:
digiunare, cominciare a disintossicarci da tutte le nostre dipendenze, perché
sono dipendenze che riempiono il vuoto. Dobbiamo imparare ad essere nudi e
crudi per poter pregare, dobbiamo imparare ad abitare il nostro vuoto. Poi
dobbiamo smettere di essere concentrati su noi stessi e dobbiamo capire che non
preghiamo perché stiamo cercando qualcosa per noi, ma perché stiamo cercando un
altro, stiamo cercando chi amiamo. E non stiamo cercando semplicemente noi
stessi. E comprendere così che la preghiera è una relazione con Dio, non una
relazione con il nostro “io” più profondo.
Che
cosa potrebbe aiutarci: il silenzio, l’ascolto e l’affezione.
Il
silenzio
come la capacità di saper entrare in maniera giusta dentro la nostra
interiorità, per riscoprire, all’interno della nostra interiorità, che quel
caos è abitato anche da una voce di cui noi abbiamo bisogno. Il silenzio che ci
predispone, il silenzio che ci fa fare discernimento. E per poter avere questo
silenzio che ci fa entrare dentro la nostra interiorità smettere di parlar male
degli altri. Questo ci dispone al silenzio.
L’ascolto. Che cosa è l’ascolto:
un’idea geniale che ci balena nella mente quando riflettiamo molto? No,
l’ascolto è l’ascolto soprattutto della Parola di Dio. Ma la Parola di Dio può
essere ambigua, può essere posta a noi dal Male o dallo Spirito Santo. Noi
siamo autorizzati ad ascoltare la Parola quando quella Parola è Misericordia,
quando ci dice la verità nell’amore e non quando ci dice una verità per farci
sentire in colpa. E’ una verità per la vita non per la morte.
Terza
cosa: coltivare un’affezione nei confronti di Dio, elaborare, cioè, dei modi di
amarlo che sono tutti nostri, tutti personali; ma in cui riempiamo il tempo
delle nostre giornate, il tempo di questa nostra relazione di piccole
attenzioni, di piccole caratteristiche che altro non sono che un modo di
esprimere l’amore e rafforzare l’amore. Pregare come partecipazione affettiva
alla vita di Dio.
Mi
piacerebbe dirvi che io tutte queste cose le faccio e mi riescono benissimo,
sono molto bravo e sono molto felice. Invece…. sono ancora un principiante e
sto imparando tutto questo e se sono molto chiaro a spiegarlo agli altri è perché
in realtà sono molto affaticato nel cercare di renderlo vivo dentro la mia
vita. Quindi non sono qui come testimone ma come un povero disgraziato che si
trova sulla stessa barca e che ha il medesimo desiderio di pregare, ma che sa
che quello che vi ho appena detto non è frutto mio ma è frutto della tradizione
che la Chiesa ci ha consegnato in tanti anni e di cui io insieme con voi vorrei
farne tesoro. Grazie mille.