martedì 31 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 13,36-43
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo».
Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Gesù, che non è mai un ingenuo nei suoi discorsi, spiega ai discepoli che in mezzo alle cose buone è sempre in agguato anche ciò che non è buono. Non bastano le etichette DOC sui campi che frequentiamo a dire che lì non c'è il male, non c'è la zizzania, perché essa è seminata dal "nemico" quando nessuno se ne accorge. Ma la domanda vera è cos'è la zizzania? "La zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l'ha seminata è il diavolo", così dice Gesù. E ciò è interessante perché noi solitamente pensiamo che la zizzania sia la semplice "maldicenza", invece Gesù dice che sono delle persone vere e proprie. Chi sono questi "figli del maligno"? E' facile riconoscerli, anche se a volte non hanno nemmeno loro consapevolezza di essere tali, sono tutti quelli che seminano divisione, cattiveria, egoismo, paura, insicurezza, tristezza ovunque passano. Ma "figli del maligno" non si nasce ma si diventa. Ciò accade quando la zizzania non la mettiamo in minoranza dentro di noi prendendo così il sopravvento anche sul "buono" che ci abita. Rischiamo tutti di diventare "figli del maligno" e di vivere la nostra vita portando a compimento il progetto del male e non del Bene. Credere significa avere un'immensa cura di ciò che ci portiamo dentro, per essere sempre pronti a non lasciarci inquinare il nostro vero essere, la nostra vera pace, lo scopo vero per cui siamo nati. Persino il dolore può diventare dentro di noi causa di marciume. Quando non viviamo bene le esperienze tristi della vita, allora esse si trasformano dentro di noi in rancore, rabbia, invidia e così disseminiamo tutto questo fuori di noi. Il brutto di tutto ciò sta nel fatto che solo alla fine Dio metterà mano per tirare delle conseguenze alla nostra vita di "grano" o di "zizzania", e magari allora sarà troppo tardi per virare in un’altra direzione. Ma ciò è anche un'opportunità, è l'opportunità di avere ancora del tempo per iniziare questa santa coltivazione dentro di noi senza aver paura della zizzania che ci abita o ci circonda, ma sforzandoci di metterla quanto più possibile in minoranza.
In quel tempo, Gesù congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo».
Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura è la fine del mondo e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti quelli che commettono iniquità e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, ascolti!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Gesù, che non è mai un ingenuo nei suoi discorsi, spiega ai discepoli che in mezzo alle cose buone è sempre in agguato anche ciò che non è buono. Non bastano le etichette DOC sui campi che frequentiamo a dire che lì non c'è il male, non c'è la zizzania, perché essa è seminata dal "nemico" quando nessuno se ne accorge. Ma la domanda vera è cos'è la zizzania? "La zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l'ha seminata è il diavolo", così dice Gesù. E ciò è interessante perché noi solitamente pensiamo che la zizzania sia la semplice "maldicenza", invece Gesù dice che sono delle persone vere e proprie. Chi sono questi "figli del maligno"? E' facile riconoscerli, anche se a volte non hanno nemmeno loro consapevolezza di essere tali, sono tutti quelli che seminano divisione, cattiveria, egoismo, paura, insicurezza, tristezza ovunque passano. Ma "figli del maligno" non si nasce ma si diventa. Ciò accade quando la zizzania non la mettiamo in minoranza dentro di noi prendendo così il sopravvento anche sul "buono" che ci abita. Rischiamo tutti di diventare "figli del maligno" e di vivere la nostra vita portando a compimento il progetto del male e non del Bene. Credere significa avere un'immensa cura di ciò che ci portiamo dentro, per essere sempre pronti a non lasciarci inquinare il nostro vero essere, la nostra vera pace, lo scopo vero per cui siamo nati. Persino il dolore può diventare dentro di noi causa di marciume. Quando non viviamo bene le esperienze tristi della vita, allora esse si trasformano dentro di noi in rancore, rabbia, invidia e così disseminiamo tutto questo fuori di noi. Il brutto di tutto ciò sta nel fatto che solo alla fine Dio metterà mano per tirare delle conseguenze alla nostra vita di "grano" o di "zizzania", e magari allora sarà troppo tardi per virare in un’altra direzione. Ma ciò è anche un'opportunità, è l'opportunità di avere ancora del tempo per iniziare questa santa coltivazione dentro di noi senza aver paura della zizzania che ci abita o ci circonda, ma sforzandoci di metterla quanto più possibile in minoranza.
lunedì 30 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 13,31-35
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole,
proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. (…) Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”. L’infinitamente piccolo, e l’infinitamente nascosto. È così che possiamo riassumere le due immagini che Gesù usa nel vangelo di oggi per farci comprendere cosa sia il regno di Dio. In realtà ci dice che si può capire davvero cosa sia qualcosa solo se prendiamo sul serio le sue conseguenze. E il regno di Dio ha due effetti: parte come cosa piccola ma crescendo diventa infinitamente affidabile “Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”. Allo stesso tempo è qualcosa che per fermentare la pasta deve essere messo dentro. Una fede vissuta fuori dalla storia, come fuga, come alienazione non serve a “fermentare” la storia. In questo senso Gesù oggi ci ha ricordato che la buona riuscita dell’opera del regno di Dio la si vede da quanto abbiamo fiducia nelle cose piccole che però sanno essere affidabili. La vita non la si cambia con sporadici atti eroici, ma attraverso piccole cose quotidiane che rendono la vita più umana, più vera, più sopportabile. L’amore tra due persone si nutre di piccole cose. Sarebbe banale pensare che basta dire a qualcuno una sola volta “ti amo” per poter credere di amare veramente. L’amore è dire in tutti gli alfabeti possibili (parole, gesti, silenzi, presenza) “ti amo”, sempre, ogni giorno, ogni momento, nelle cose più piccole, quotidiane che non sono mai banali. Il regno di Dio è una faccenda così. Il regno di Dio o cambia la realtà da dentro oppure è un’ideologia. La tentazione ideologica è quella di pensare che basta cambiare la forma per dire che è cambiata anche la sostanza. Delle volte noi difendiamo le forme ma abbiamo completamente smarrito la sostanza. E la sostanza la si cambia con la testimonianza non con le parole.
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo: «Il regno dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami».
Disse loro un’altra parabola: «Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
«Aprirò la mia bocca con parabole,
proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. (…) Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti”. L’infinitamente piccolo, e l’infinitamente nascosto. È così che possiamo riassumere le due immagini che Gesù usa nel vangelo di oggi per farci comprendere cosa sia il regno di Dio. In realtà ci dice che si può capire davvero cosa sia qualcosa solo se prendiamo sul serio le sue conseguenze. E il regno di Dio ha due effetti: parte come cosa piccola ma crescendo diventa infinitamente affidabile “Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami”. Allo stesso tempo è qualcosa che per fermentare la pasta deve essere messo dentro. Una fede vissuta fuori dalla storia, come fuga, come alienazione non serve a “fermentare” la storia. In questo senso Gesù oggi ci ha ricordato che la buona riuscita dell’opera del regno di Dio la si vede da quanto abbiamo fiducia nelle cose piccole che però sanno essere affidabili. La vita non la si cambia con sporadici atti eroici, ma attraverso piccole cose quotidiane che rendono la vita più umana, più vera, più sopportabile. L’amore tra due persone si nutre di piccole cose. Sarebbe banale pensare che basta dire a qualcuno una sola volta “ti amo” per poter credere di amare veramente. L’amore è dire in tutti gli alfabeti possibili (parole, gesti, silenzi, presenza) “ti amo”, sempre, ogni giorno, ogni momento, nelle cose più piccole, quotidiane che non sono mai banali. Il regno di Dio è una faccenda così. Il regno di Dio o cambia la realtà da dentro oppure è un’ideologia. La tentazione ideologica è quella di pensare che basta cambiare la forma per dire che è cambiata anche la sostanza. Delle volte noi difendiamo le forme ma abbiamo completamente smarrito la sostanza. E la sostanza la si cambia con la testimonianza non con le parole.
domenica 29 luglio 2018
sabato 28 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 13,24-30
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”.
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. Penso che Gesù ci racconti questa parabola per farci far pace con l’idea che il bene e il male nella vita sono sempre mescolati. Non è sempre colpa mia o tua, delle volte è opera del “nemico”, ma di certo non c’è un pezzo di questa nostra esistenza che non abbia in sé un potenziale di bene e un potenziale di male. Questa lettura però non serve solo a ricordarci che il male è sempre in agguato anche nelle cose buone, ma serve a darci anche la speranza che c’è sempre del bene nascosto in tutto, anche in ciò che noi consideriamo male. “E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”. La precisazione che Gesù aggiunge ci ricorda che è del tutto inutile pensare di poter giocare a fare i puri. Solitamente chi si mette dalla parte dei “puri” prima o poi fa la triste esperienza di accorgersi che non è migliore degli altri. Questa cosa non deve però farci rassegnare alla zizzania ma riscoprire forse uno sguardo di misericordia. Infatti la misericordia ci fa guardare con realismo a noi stessi, senza giudizio, ma con profonda consapevolezza. E proprio a partire da ciò, riempie tutto di profondo amore. Solo l’amore estirpa il male. Togliere il male con la violenza provoca solo altro male. San Paolo lo esprime con parole chiarissime: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,21). E il bene delle volte deve saper pazientare, deve saper portare anche il peso di ciò che non va senza lasciare che ciò che non va rovini anche il bene.
In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
«Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania.
Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: “Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania?”. Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo!”.
E i servi gli dissero: “Vuoi che andiamo a raccoglierla?”. “No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. Penso che Gesù ci racconti questa parabola per farci far pace con l’idea che il bene e il male nella vita sono sempre mescolati. Non è sempre colpa mia o tua, delle volte è opera del “nemico”, ma di certo non c’è un pezzo di questa nostra esistenza che non abbia in sé un potenziale di bene e un potenziale di male. Questa lettura però non serve solo a ricordarci che il male è sempre in agguato anche nelle cose buone, ma serve a darci anche la speranza che c’è sempre del bene nascosto in tutto, anche in ciò che noi consideriamo male. “E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”. La precisazione che Gesù aggiunge ci ricorda che è del tutto inutile pensare di poter giocare a fare i puri. Solitamente chi si mette dalla parte dei “puri” prima o poi fa la triste esperienza di accorgersi che non è migliore degli altri. Questa cosa non deve però farci rassegnare alla zizzania ma riscoprire forse uno sguardo di misericordia. Infatti la misericordia ci fa guardare con realismo a noi stessi, senza giudizio, ma con profonda consapevolezza. E proprio a partire da ciò, riempie tutto di profondo amore. Solo l’amore estirpa il male. Togliere il male con la violenza provoca solo altro male. San Paolo lo esprime con parole chiarissime: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,21). E il bene delle volte deve saper pazientare, deve saper portare anche il peso di ciò che non va senza lasciare che ciò che non va rovini anche il bene.
venerdì 27 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 13,18-23
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Strada, sassi, rovi e terreno buono sono descrizioni della nostra umanità. Se è vero che nessuno di noi si può dare la fede da solo, è però vero che ciascuno di noi può decidere con quale umanità vuole accogliere questo dono. Perché il vero problema molto spesso non è la mancanza di fede, ma la mancanza di umanità da parte nostra nel riuscire a far tesoro di ciò che Dio ci semina dentro. C’è un’umanità necessaria alla base del nostro essere credenti. San Tommaso avrebbe detto che “la Grazia suppone la natura, non la crea”, e con ciò avrebbe voluto dire che la fede non suppone che siamo già delle persone migliori, quello dipende dalle nostre scelte. La fede è un dono che potrebbe essere sprecato. Ecco perché Gesù non si limita semplicemente a raccontare la parabola del seminatore ma ne fornisce anche una spiegazione. Lo fa perché credo che sia decisivo non fraintendere e capire fino in fondo cosa vuole dirci. Distratti, incostanti, ansiosi, sono solo l’inizio di un lungo elenco di modi di vivere che alla fine soffocano la stessa vita, la rovinano, la feriscono, la condannano a non portare frutto. Nessuno di noi ovviamente si sveglia la mattina e vuole essere ansioso o incostante o superficiale, eppure delle volte lo siamo. La vita spirituale ci deve aiutare ad avere una grande lealtà nei confronti di noi stessi e a saper dire il nome proprio del nostro atteggiamento umano. Solo così possiamo anche trovare un modo di correggerci senza per forza passare attraverso l’umiliazione di un giudizio, ma attraverso il realismo di una diagnosi. Un buon medico non ci umilia spiegandovi che abbiamo la febbre ma ce ne fa consapevoli dandoci anche la cura, la medicina, le cose da fare. La vera domanda non è perché siamo distratti, ma come possiamo curare la nostra distrazione? E così via per ognuna delle possibilità. A volte è la praticità che ci manca forse perché confondiamo lo spirituale con il teorico, mentre non c’è nulla di più concreto dello spirituale. Ed è proprio quando riprendiamo sul serio la vita spirituale che sperimentiamo i frutti nella vita di ogni giorno.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Strada, sassi, rovi e terreno buono sono descrizioni della nostra umanità. Se è vero che nessuno di noi si può dare la fede da solo, è però vero che ciascuno di noi può decidere con quale umanità vuole accogliere questo dono. Perché il vero problema molto spesso non è la mancanza di fede, ma la mancanza di umanità da parte nostra nel riuscire a far tesoro di ciò che Dio ci semina dentro. C’è un’umanità necessaria alla base del nostro essere credenti. San Tommaso avrebbe detto che “la Grazia suppone la natura, non la crea”, e con ciò avrebbe voluto dire che la fede non suppone che siamo già delle persone migliori, quello dipende dalle nostre scelte. La fede è un dono che potrebbe essere sprecato. Ecco perché Gesù non si limita semplicemente a raccontare la parabola del seminatore ma ne fornisce anche una spiegazione. Lo fa perché credo che sia decisivo non fraintendere e capire fino in fondo cosa vuole dirci. Distratti, incostanti, ansiosi, sono solo l’inizio di un lungo elenco di modi di vivere che alla fine soffocano la stessa vita, la rovinano, la feriscono, la condannano a non portare frutto. Nessuno di noi ovviamente si sveglia la mattina e vuole essere ansioso o incostante o superficiale, eppure delle volte lo siamo. La vita spirituale ci deve aiutare ad avere una grande lealtà nei confronti di noi stessi e a saper dire il nome proprio del nostro atteggiamento umano. Solo così possiamo anche trovare un modo di correggerci senza per forza passare attraverso l’umiliazione di un giudizio, ma attraverso il realismo di una diagnosi. Un buon medico non ci umilia spiegandovi che abbiamo la febbre ma ce ne fa consapevoli dandoci anche la cura, la medicina, le cose da fare. La vera domanda non è perché siamo distratti, ma come possiamo curare la nostra distrazione? E così via per ognuna delle possibilità. A volte è la praticità che ci manca forse perché confondiamo lo spirituale con il teorico, mentre non c’è nulla di più concreto dello spirituale. Ed è proprio quando riprendiamo sul serio la vita spirituale che sperimentiamo i frutti nella vita di ogni giorno.
giovedì 26 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 13,10-17
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?».
Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Perché Gesù parla in parabole? È una domanda seria non solo perché la pongono i discepoli nel Vangelo di oggi ma perché forse ciascuno di noi dovrebbe porsi questa domanda per cercare di entrare nella mentalità di Gesù. La parabola è una storia raccontata appositamente per far comprendere una verità. È un ragionamento fatto con la vita stessa. Infatti ci è più facile capire le cose quando le si vede in azione, e non magari quando fluttuano semplicemente nei ragionamenti. I fatti sono più convincenti delle idee. E così Gesù usa i fatti per introdurci nella mentalità della buona novella del Vangelo. Ma Gesù aggiunge una spiegazione non di poco conto: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono”. Non è una contraddizione. Gesù vuole dire che c’è un momento nella nostra vita in cui le cose non le comprendiamo e possiamo solo farne esperienza. A chi vive senza comprendere Gesù può aprire gli occhi. Ma c’è un momento, attraverso il dono della fede, in cui la semplice esperienza viene illuminata anche dalla comprensione, e così da quel momento in poi diventiamo anche infinitamente responsabili: “Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!”. Vivere senza comprendere il senso ci rende davanti a Dio infinitamente bisognosi della Sua misericordia che arriva nella nostra vita non per condannarci ma per guarirci. Vivere comprendendo il senso ci rende invece infinitamente responsabili, perché la fede è la prima forma di misericordia. È la misericordia degli occhi aperti sulla vita. Ma da quel momento in poi dobbiamo anche renderne conto.
In quel tempo, i discepoli si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?».
Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:
“Udrete, sì, ma non comprenderete,
guarderete, sì, ma non vedrete.
Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,
sono diventati duri di orecchi
e hanno chiuso gli occhi,
perché non vedano con gli occhi,
non ascoltino con gli orecchi
e non comprendano con il cuore
e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Perché Gesù parla in parabole? È una domanda seria non solo perché la pongono i discepoli nel Vangelo di oggi ma perché forse ciascuno di noi dovrebbe porsi questa domanda per cercare di entrare nella mentalità di Gesù. La parabola è una storia raccontata appositamente per far comprendere una verità. È un ragionamento fatto con la vita stessa. Infatti ci è più facile capire le cose quando le si vede in azione, e non magari quando fluttuano semplicemente nei ragionamenti. I fatti sono più convincenti delle idee. E così Gesù usa i fatti per introdurci nella mentalità della buona novella del Vangelo. Ma Gesù aggiunge una spiegazione non di poco conto: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono”. Non è una contraddizione. Gesù vuole dire che c’è un momento nella nostra vita in cui le cose non le comprendiamo e possiamo solo farne esperienza. A chi vive senza comprendere Gesù può aprire gli occhi. Ma c’è un momento, attraverso il dono della fede, in cui la semplice esperienza viene illuminata anche dalla comprensione, e così da quel momento in poi diventiamo anche infinitamente responsabili: “Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono!”. Vivere senza comprendere il senso ci rende davanti a Dio infinitamente bisognosi della Sua misericordia che arriva nella nostra vita non per condannarci ma per guarirci. Vivere comprendendo il senso ci rende invece infinitamente responsabili, perché la fede è la prima forma di misericordia. È la misericordia degli occhi aperti sulla vita. Ma da quel momento in poi dobbiamo anche renderne conto.
mercoledì 25 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 20,20-28
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di' che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno»”. Anche se nel proseguo del racconto il gesto di questa donna prenderà tutta l’indignazione degli altri discepoli e poi di schiere di commentatori che nei secoli hanno parlato di questo brano, io voglio dire subito che a me suscita una immediata simpatia. Questa donna ragiona da madre. Se ha sbagliato lo ha fatto per eccesso di amore. Non poteva però immaginarsi né lei né i suoi figli che cosa mai potesse significare domandare qualcosa del genere. Infatti tutte quelle volte che chiediamo al Signore di condividere qualcosa ci dimentichiamo che la strada è quella della croce non quella della gloria. È la strada del fallimento non del successo. È la strada della discesa non della scalata sociale. «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». Ecco allora come dovrà essere il carrierismo tra i cristiani e nella chiesa soprattutto: una immensa corsa all’ultimo posto. Ovviamente solo dire una cosa del genere suscita immediatamente il nostro sorriso perché ci accorgiamo che non è assolutamente così. Ecco allora che per questa triste realtà noi sorridiamo, e per il gesto di questa mamma ci indigniamo. Non vorrei che dietro l’indignazione dei discepoli e forse anche la nostra si nascondesse la paura che questa donna ha avuto un’idea geniale. L’ultimo posto è quello di concepire ogni cosa nella nostra vita come servizio e non come potere. È pensare a cosa poter fare per l’altro e non come usare l’altro. Chi vuol essere il primo ceda il suo primo posto, e sarà davvero primo.
In quel tempo, si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Si avvicinò la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di' che questi miei figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno»”. Anche se nel proseguo del racconto il gesto di questa donna prenderà tutta l’indignazione degli altri discepoli e poi di schiere di commentatori che nei secoli hanno parlato di questo brano, io voglio dire subito che a me suscita una immediata simpatia. Questa donna ragiona da madre. Se ha sbagliato lo ha fatto per eccesso di amore. Non poteva però immaginarsi né lei né i suoi figli che cosa mai potesse significare domandare qualcosa del genere. Infatti tutte quelle volte che chiediamo al Signore di condividere qualcosa ci dimentichiamo che la strada è quella della croce non quella della gloria. È la strada del fallimento non del successo. È la strada della discesa non della scalata sociale. «I capi delle nazioni, voi lo sapete, dominano su di esse e i grandi esercitano su di esse il potere. Non così dovrà essere tra voi; ma colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo, e colui che vorrà essere il primo tra voi, si farà vostro schiavo; appunto come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti». Ecco allora come dovrà essere il carrierismo tra i cristiani e nella chiesa soprattutto: una immensa corsa all’ultimo posto. Ovviamente solo dire una cosa del genere suscita immediatamente il nostro sorriso perché ci accorgiamo che non è assolutamente così. Ecco allora che per questa triste realtà noi sorridiamo, e per il gesto di questa mamma ci indigniamo. Non vorrei che dietro l’indignazione dei discepoli e forse anche la nostra si nascondesse la paura che questa donna ha avuto un’idea geniale. L’ultimo posto è quello di concepire ogni cosa nella nostra vita come servizio e non come potere. È pensare a cosa poter fare per l’altro e non come usare l’altro. Chi vuol essere il primo ceda il suo primo posto, e sarà davvero primo.
martedì 24 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 12,46-50
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, mentre Gesù parlava ancora alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli.
Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti».
Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Prima di andare al cuore del Vangelo vorrei che sostassimo un istante su un dettaglio del Vangelo di oggi: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli”. Mi colpisce la discrezione di Maria e del resto della famiglia. Non pretendono. Non hanno posto in prima fila. Semplicemente “cercano” di parlargli. Che cos’è la preghiera? La preghiera è cercare di pregare. Non è un gioco di parole, ma forse la verità di fondo della preghiera, perché non sempre riusciamo a pregare, non sempre riusciamo a parlargli come vorremmo. Ma a noi è chiesto di cercare di farlo, di provare, di tentare. Ecco allora che interviene Gesù e ci spiega cosa ci dispone di più alla preghiera: “Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»”. Tentare di fare la sua volontà ci mette in relazione profonda con Lui. Accontentarsi solo di informazioni non ci aiuterà mai a pregare veramente. Solo una vita vissuta come continuo tentativo di mettere in pratica ciò che ci ha annunciato, ci dispone anche a incontrarlo veramente, ma questa volta non come folla, ma come “madre, fratello, sorella, amico”. Di Maria possiamo essere certi che è Sua Madre, non solo perché lo ha partorito ma perché tutta la Sua vita è stata un continuo fare la Sua volontà. Non risultano allora inopportune le parole di Gesù nel vangelo di oggi. Sono solo una precisazione. Maria non è mai “fuori”, è sempre lì con Lui al di là di dove si trovi fisicamente perché ogni istante della sua vita è stata fare la volontà di Dio. L’ha appreso anche Lei quel giorno. Si è accorta anche Lei che “essere suoi” vale più di ogni tentativo di parola. La nostra preghiera è una buona preghiera quando ci mette nelle condizioni di “essere suoi”, nonostante certe volte non riusciamo a trovare le parole giuste o i modi giusti di avvicinarLo.
In quel tempo, mentre Gesù parlava ancora alla folla, ecco, sua madre e i suoi fratelli stavano fuori e cercavano di parlargli.
Qualcuno gli disse: «Ecco, tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e cercano di parlarti».
Ed egli, rispondendo a chi gli parlava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Poi, tendendo la mano verso i suoi discepoli, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Prima di andare al cuore del Vangelo vorrei che sostassimo un istante su un dettaglio del Vangelo di oggi: “Mentre egli parlava ancora alla folla, sua madre e i suoi fratelli, stando fuori in disparte, cercavano di parlargli”. Mi colpisce la discrezione di Maria e del resto della famiglia. Non pretendono. Non hanno posto in prima fila. Semplicemente “cercano” di parlargli. Che cos’è la preghiera? La preghiera è cercare di pregare. Non è un gioco di parole, ma forse la verità di fondo della preghiera, perché non sempre riusciamo a pregare, non sempre riusciamo a parlargli come vorremmo. Ma a noi è chiesto di cercare di farlo, di provare, di tentare. Ecco allora che interviene Gesù e ci spiega cosa ci dispone di più alla preghiera: “Ed egli, rispondendo a chi lo informava, disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Poi stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli; perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre»”. Tentare di fare la sua volontà ci mette in relazione profonda con Lui. Accontentarsi solo di informazioni non ci aiuterà mai a pregare veramente. Solo una vita vissuta come continuo tentativo di mettere in pratica ciò che ci ha annunciato, ci dispone anche a incontrarlo veramente, ma questa volta non come folla, ma come “madre, fratello, sorella, amico”. Di Maria possiamo essere certi che è Sua Madre, non solo perché lo ha partorito ma perché tutta la Sua vita è stata un continuo fare la Sua volontà. Non risultano allora inopportune le parole di Gesù nel vangelo di oggi. Sono solo una precisazione. Maria non è mai “fuori”, è sempre lì con Lui al di là di dove si trovi fisicamente perché ogni istante della sua vita è stata fare la volontà di Dio. L’ha appreso anche Lei quel giorno. Si è accorta anche Lei che “essere suoi” vale più di ogni tentativo di parola. La nostra preghiera è una buona preghiera quando ci mette nelle condizioni di “essere suoi”, nonostante certe volte non riusciamo a trovare le parole giuste o i modi giusti di avvicinarLo.
lunedì 23 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Gv 15,1-8
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Comunque vada a finire è sicuro che dobbiamo passare attraverso un taglio. La vita è solitamente incaricata di questo tipo di operazione, infatti non di rado ci riserva esperienze e situazioni che ci tranciano di netto. La vera domanda però non è come evitare questo tipo di tagli ma cosa fare affinché quei tagli non siano per la morte ma per un cambiamento sostanziale. Infatti la potatura serve a tirare fuori da un albero la fecondità dei frutti. Se non tiriamo fuori dei frutti, tiriamo fuori la morte sotto forma di rabbia, rancore, insoddisfazione, infelicità diffusa, mancanza di senso e così via. La fede non è un modo per evitare in maniera scaramantica le esperienze negative della vita, ma è il modo attraverso cui quelle esperienze possono essere decisive per una vita ancora più profonda. Ciò non avviene in automatico, ma avviene a patto che in quelle esperienze di taglio decidiamo di seguire Gesù, di fare alla Sua maniera, di optare per ciò che ci ha insegnato e soprattutto mostrato con la Sua vita. La Sua Parola soprattutto serve a custodire la mentalità della potatura che deve costruirsi dentro ciascuno di noi. In pratica non basta sapere che c’è una fecondità nella parte più fragile della nostra vita, ma bisogna saperne fare esperienza. In questo senso la vita spirituale non è mai informativa ma esperienziale. E forse la cosa più significativa della vita spirituale è l’esperienza del perdono. Delle volte la misericordia di Dio ci riempie così tanto il cuore che siamo capaci anche di perdonare la vita perché non è andata come doveva. È soprattutto l’esperienza del perdono l’esperienza più decisiva di ogni trasformazione interiore. Perdonare e lasciarsi perdonare. Accogliere la Parola di Cristo che ci riconcilia dentro e fuori. Cioè che ricrea un legame con la vita così nuovo che non viviamo più di apparenza (di foglie) ma di fatti (i frutti).
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto”. Comunque vada a finire è sicuro che dobbiamo passare attraverso un taglio. La vita è solitamente incaricata di questo tipo di operazione, infatti non di rado ci riserva esperienze e situazioni che ci tranciano di netto. La vera domanda però non è come evitare questo tipo di tagli ma cosa fare affinché quei tagli non siano per la morte ma per un cambiamento sostanziale. Infatti la potatura serve a tirare fuori da un albero la fecondità dei frutti. Se non tiriamo fuori dei frutti, tiriamo fuori la morte sotto forma di rabbia, rancore, insoddisfazione, infelicità diffusa, mancanza di senso e così via. La fede non è un modo per evitare in maniera scaramantica le esperienze negative della vita, ma è il modo attraverso cui quelle esperienze possono essere decisive per una vita ancora più profonda. Ciò non avviene in automatico, ma avviene a patto che in quelle esperienze di taglio decidiamo di seguire Gesù, di fare alla Sua maniera, di optare per ciò che ci ha insegnato e soprattutto mostrato con la Sua vita. La Sua Parola soprattutto serve a custodire la mentalità della potatura che deve costruirsi dentro ciascuno di noi. In pratica non basta sapere che c’è una fecondità nella parte più fragile della nostra vita, ma bisogna saperne fare esperienza. In questo senso la vita spirituale non è mai informativa ma esperienziale. E forse la cosa più significativa della vita spirituale è l’esperienza del perdono. Delle volte la misericordia di Dio ci riempie così tanto il cuore che siamo capaci anche di perdonare la vita perché non è andata come doveva. È soprattutto l’esperienza del perdono l’esperienza più decisiva di ogni trasformazione interiore. Perdonare e lasciarsi perdonare. Accogliere la Parola di Cristo che ci riconcilia dentro e fuori. Cioè che ricrea un legame con la vita così nuovo che non viviamo più di apparenza (di foglie) ma di fatti (i frutti).
sabato 21 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 12,14-21
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei uscirono e tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti e impose loro di non divulgarlo, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:
«Ecco il mio servo, che io ho scelto;
il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento.
Porrò il mio spirito sopra di lui
e annuncerà alle nazioni la giustizia.
Non contesterà né griderà
né si udrà nelle piazze la sua voce.
Non spezzerà una canna già incrinata,
non spegnerà una fiamma smorta,
finché non abbia fatto trionfare la giustizia;
nel suo nome spereranno le nazioni».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo. Ma Gesù, saputolo, si allontanò di là”. Il vangelo di oggi ci ricorda che più volte Gesù ha rischiato la vita. Ma la sua non è la logica dell’eroe o del kamikaze. Gesù considera la vita qualcosa di prezioso, e finché sarà possibile tenterà di rimanere vivo. Sa bene che non sarà per sempre così e che arriverà il giorno in cui non potrà più trovare vie d’uscita. È così per ciascuno di noi. Dobbiamo vivere ricordandoci che ogni giorno dobbiamo allenarci nelle piccole cose perché quando arriveranno le grandi siamo in grado di non scappare, di non sfuggire loro. E soprattutto dobbiamo ricordarci che ciò che conta molto in questo nostro “allenamento” è lo stile, la modalità. Il vangelo di oggi riporta le parole di Isaia: “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante”. Ciò che ne viene fuori non è la descrizione di un pacifista, o di un arrendevole. Ciò che viene fuori è lo stile di chi non ha bisogno di litigare, gridare, colpire, usare violenza. È lo stile di chi sa valorizzare ciò che è piccolo, ciò che è delicato, ciò che è messo ai margini. La fortezza a cui si allena Gesù è quella della croce in cui con una mitezza straordinaria Egli fa spazio alla debolezza e la eleva a strumento di salvezza. Nessuno è capace di stare sulla croce se non si è allenato nelle piccole cose di ogni giorno. È nelle piccole cose che dobbiamo imparare a fare la differenza. Gesù prima di affrontare la Sua passione cerca di fare tutto il bene che può: “Molti lo seguirono ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo”. Egli fa il bene non per farsi pubblicità ma come necessità di chi sa che l’amore vero è quello fatto nel segreto, quello che non cerca ricompense perché è gratuito. I suoi miracoli non erano forme di volantinaggio del vangelo. Erano la prova che Egli prendeva a cuore il dolore di ciascuno, le storie singole di ognuno, il dettaglio di ogni volto. E noi annunciamo un vangelo così o volantiniamo?
In quel tempo, i farisei uscirono e tennero consiglio contro Gesù per farlo morire. Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti e impose loro di non divulgarlo, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:
«Ecco il mio servo, che io ho scelto;
il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento.
Porrò il mio spirito sopra di lui
e annuncerà alle nazioni la giustizia.
Non contesterà né griderà
né si udrà nelle piazze la sua voce.
Non spezzerà una canna già incrinata,
non spegnerà una fiamma smorta,
finché non abbia fatto trionfare la giustizia;
nel suo nome spereranno le nazioni».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“I farisei però, usciti, tennero consiglio contro di lui per toglierlo di mezzo. Ma Gesù, saputolo, si allontanò di là”. Il vangelo di oggi ci ricorda che più volte Gesù ha rischiato la vita. Ma la sua non è la logica dell’eroe o del kamikaze. Gesù considera la vita qualcosa di prezioso, e finché sarà possibile tenterà di rimanere vivo. Sa bene che non sarà per sempre così e che arriverà il giorno in cui non potrà più trovare vie d’uscita. È così per ciascuno di noi. Dobbiamo vivere ricordandoci che ogni giorno dobbiamo allenarci nelle piccole cose perché quando arriveranno le grandi siamo in grado di non scappare, di non sfuggire loro. E soprattutto dobbiamo ricordarci che ciò che conta molto in questo nostro “allenamento” è lo stile, la modalità. Il vangelo di oggi riporta le parole di Isaia: “Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante”. Ciò che ne viene fuori non è la descrizione di un pacifista, o di un arrendevole. Ciò che viene fuori è lo stile di chi non ha bisogno di litigare, gridare, colpire, usare violenza. È lo stile di chi sa valorizzare ciò che è piccolo, ciò che è delicato, ciò che è messo ai margini. La fortezza a cui si allena Gesù è quella della croce in cui con una mitezza straordinaria Egli fa spazio alla debolezza e la eleva a strumento di salvezza. Nessuno è capace di stare sulla croce se non si è allenato nelle piccole cose di ogni giorno. È nelle piccole cose che dobbiamo imparare a fare la differenza. Gesù prima di affrontare la Sua passione cerca di fare tutto il bene che può: “Molti lo seguirono ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo”. Egli fa il bene non per farsi pubblicità ma come necessità di chi sa che l’amore vero è quello fatto nel segreto, quello che non cerca ricompense perché è gratuito. I suoi miracoli non erano forme di volantinaggio del vangelo. Erano la prova che Egli prendeva a cuore il dolore di ciascuno, le storie singole di ognuno, il dettaglio di ogni volto. E noi annunciamo un vangelo così o volantiniamo?
venerdì 20 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 12,1-8
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle.
Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato».
Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
«Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare in giorno di sabato». Il problema è quasi sempre lo stesso: Gesù è percepito come uno che rompe lo schema. Eppure tutti abbiamo bisogno di uno schema, di una regola, di un metodo, di un percorso preciso. Perché dunque Gesù sembra costantemente destabilizzarci attraverso la messa in discussione delle regole? Forse vuole abolirle? Assolutamente no. Egli è preoccupato di non far coincidere la fede con le regole. La fede è sempre più grande delle regole, come l’amore di una madre per il figlio è più grande della buona abitudine a lavarsi le mani prima di sedere a tavola. Se l’amore di una madre si riducesse solo a ricordare al figlio di lavarsi le mani che amore sarebbe? Come potrebbe quel figlio avere la vita cambiata da un amore così? E non è forse il rischio della religione quando essa diventa solo memoria delle regole? “Ora io vi dico che qui c'è qualcosa più grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa. Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato”. Il problema è sempre lì: la differenza che c’è tra la Misericordia e il sacrificio. Tra l’amore e la performance. Gesù non è venuto ad abolire la legge ma ad abolire la falsa sicurezza che dà uno schema di regole quando si stacca dalla vita, o quando peggio trasforma la vita in una fedeltà alle regole. La vita è sempre più grande, e le regole servono a vivere. Non si vive per seguire delle regole, ma le regole ci aiutano a vivere. Quando non ci aiutano dovremmo domandarci perché. In questo senso saggiamente noi diciamo che nella regola deve esserci spazio anche per l’eccezione, che non abolisce la regola ma la conferma. L’uomo è tale proprio perché in lui è presente la possibilità dell’eccezione. Che cos’è il perdono o la misericordia se non Dio che conferma la giustizia facendo eccezione? E come possiamo chiedere di essere perdonati se poi non siamo capaci di andare oltre la mera giustizia formale?
In quel tempo, Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle.
Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato».
Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”, non avreste condannato persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
«Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare in giorno di sabato». Il problema è quasi sempre lo stesso: Gesù è percepito come uno che rompe lo schema. Eppure tutti abbiamo bisogno di uno schema, di una regola, di un metodo, di un percorso preciso. Perché dunque Gesù sembra costantemente destabilizzarci attraverso la messa in discussione delle regole? Forse vuole abolirle? Assolutamente no. Egli è preoccupato di non far coincidere la fede con le regole. La fede è sempre più grande delle regole, come l’amore di una madre per il figlio è più grande della buona abitudine a lavarsi le mani prima di sedere a tavola. Se l’amore di una madre si riducesse solo a ricordare al figlio di lavarsi le mani che amore sarebbe? Come potrebbe quel figlio avere la vita cambiata da un amore così? E non è forse il rischio della religione quando essa diventa solo memoria delle regole? “Ora io vi dico che qui c'è qualcosa più grande del tempio. Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato individui senza colpa. Perché il Figlio dell'uomo è signore del sabato”. Il problema è sempre lì: la differenza che c’è tra la Misericordia e il sacrificio. Tra l’amore e la performance. Gesù non è venuto ad abolire la legge ma ad abolire la falsa sicurezza che dà uno schema di regole quando si stacca dalla vita, o quando peggio trasforma la vita in una fedeltà alle regole. La vita è sempre più grande, e le regole servono a vivere. Non si vive per seguire delle regole, ma le regole ci aiutano a vivere. Quando non ci aiutano dovremmo domandarci perché. In questo senso saggiamente noi diciamo che nella regola deve esserci spazio anche per l’eccezione, che non abolisce la regola ma la conferma. L’uomo è tale proprio perché in lui è presente la possibilità dell’eccezione. Che cos’è il perdono o la misericordia se non Dio che conferma la giustizia facendo eccezione? E come possiamo chiedere di essere perdonati se poi non siamo capaci di andare oltre la mera giustizia formale?
giovedì 19 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 11,28-30
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse:
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. In un mondo come il nostro in cui tutto si misura da quanto si riesce a produrre, ci è difficile capire la logica del vangelo che da noi non pretende risultati. A Gesù interessiamo noi non quello che produciamo. In questo senso la vita spirituale è lasciarsi abbracciare da questo amore che non pretende da noi nulla, paradossalmente nemmeno conversioni forzate. L’amore di Dio non è strategico. Egli non ci ama per poi chiederci di essere più buoni. Egli ci ama e basta. Ci ama gratuitamente. La decisione di vivere meglio la nostra vita poggia sulla nostra libertà e non su un ricatto affettivo travestito da teologia. “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime”. Allo stesso tempo nella vita spirituale noi non ci lasciamo solo abbracciare, ma troviamo anche un modo per poter accogliere la vita nel migliore dei modi. Gesù dice “imparate da me”. Ma imparare cosa? La mitezza e l’umiltà del cuore. Queste due caratteristiche dovrebbero essere le due cose a cui dovremo più anelare nella nostra vita. La mitezza perché essa è una ferma dolcezza. Noi siamo capaci o di violenza o di buonismo, quasi mai riusciamo a tenere insieme queste due cose. Così o reagiamo con violenza, con rabbia, con rancore, oppure con un buonismo da quattro soldi. L’umiltà invece è una capacità di concretezza estrema e di fiducia totale in un Altro. Da questo si comprende come la fonte della mitezza e dell’umiltà di Cristo risiede nella Sua relazione con il Padre. Solo quando si accetta di essere amati da Qualcuno si trova la forza di resistere al male senza farsi imbruttire e di conservare un sano realismo perché ci si fida completamente di Qualcuno. Gesù ci ha mostrato come la cosa più decisiva in una vita non è nell’autosufficienza, ma nella relazione. Per questo pregava, perché solo nella Sua relazione con il Padre trovava la forza per fare tutto. E allora qual è il motivo per cui noi non preghiamo veramente?
In quel tempo, Gesù disse:
«Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro.
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. In un mondo come il nostro in cui tutto si misura da quanto si riesce a produrre, ci è difficile capire la logica del vangelo che da noi non pretende risultati. A Gesù interessiamo noi non quello che produciamo. In questo senso la vita spirituale è lasciarsi abbracciare da questo amore che non pretende da noi nulla, paradossalmente nemmeno conversioni forzate. L’amore di Dio non è strategico. Egli non ci ama per poi chiederci di essere più buoni. Egli ci ama e basta. Ci ama gratuitamente. La decisione di vivere meglio la nostra vita poggia sulla nostra libertà e non su un ricatto affettivo travestito da teologia. “Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime”. Allo stesso tempo nella vita spirituale noi non ci lasciamo solo abbracciare, ma troviamo anche un modo per poter accogliere la vita nel migliore dei modi. Gesù dice “imparate da me”. Ma imparare cosa? La mitezza e l’umiltà del cuore. Queste due caratteristiche dovrebbero essere le due cose a cui dovremo più anelare nella nostra vita. La mitezza perché essa è una ferma dolcezza. Noi siamo capaci o di violenza o di buonismo, quasi mai riusciamo a tenere insieme queste due cose. Così o reagiamo con violenza, con rabbia, con rancore, oppure con un buonismo da quattro soldi. L’umiltà invece è una capacità di concretezza estrema e di fiducia totale in un Altro. Da questo si comprende come la fonte della mitezza e dell’umiltà di Cristo risiede nella Sua relazione con il Padre. Solo quando si accetta di essere amati da Qualcuno si trova la forza di resistere al male senza farsi imbruttire e di conservare un sano realismo perché ci si fida completamente di Qualcuno. Gesù ci ha mostrato come la cosa più decisiva in una vita non è nell’autosufficienza, ma nella relazione. Per questo pregava, perché solo nella Sua relazione con il Padre trovava la forza per fare tutto. E allora qual è il motivo per cui noi non preghiamo veramente?
mercoledì 18 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 11,25-27
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.
Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te”. Il nostro Dio non è un Dio imparziale, ma un Dio giusto. Ed essere giusti significa essere di parte, soprattutto dalla parte dei più deboli. Ma i deboli nella mentalità nel vangelo non sono semplicemente quelli che non ce la fanno, ma quelli che accettano che non ci si può arrampicare con le proprie forze sino al cielo. Sono quelli che non si vogliono salvare da soli, ma che accettano di essere salvati. I sapienti, i dotti, gli intelligenti, i grandi di questo mondo vivono nel delirio di potersi salvare da soli. Pensano che potranno salvarli i loro ragionamenti, le loro strategie, le loro performance. Ma è proprio questo che li tiene fuori dalla comprensione di Dio. Tutte le volte che pensiamo di avere noi sotto controllo la vita, è lì che smettiamo di capire qualcosa di Dio. Al contrario tutte quelle volte che ci sembra di aver perso il controllo e di essere in balia, è allora che se abbiamo fiducia in Lui ci accorgiamo di una trama nascosta nelle cose che prima non riuscivamo a vedere. Una trama che ci dice quanto possa essere profondo il senso di ciò che stiamo vivendo al di là di quanto possa sembrare doloroso e contradditorio. “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. La fede è un dono non uno sforzo. La logica del dono è tutta poggiata sulla capacità di saper accogliere e non sulla mentalità di chi deve conquistare, meritare, comprare, pretendere. I piccoli sperano tutto da chi amano. I sapienti pensano che la maturità vera sia cercare di non aver bisogno di nessuno. Non si può dare la fede a chi pensa di non aver bisogno di nessuno. Al contrario si può dare tutto a chi pensa di avere bisogno di tutto, specie di essere amato per poter funzionare veramente come uomo.
In quel tempo, Gesù disse:
«Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza.
Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te”. Il nostro Dio non è un Dio imparziale, ma un Dio giusto. Ed essere giusti significa essere di parte, soprattutto dalla parte dei più deboli. Ma i deboli nella mentalità nel vangelo non sono semplicemente quelli che non ce la fanno, ma quelli che accettano che non ci si può arrampicare con le proprie forze sino al cielo. Sono quelli che non si vogliono salvare da soli, ma che accettano di essere salvati. I sapienti, i dotti, gli intelligenti, i grandi di questo mondo vivono nel delirio di potersi salvare da soli. Pensano che potranno salvarli i loro ragionamenti, le loro strategie, le loro performance. Ma è proprio questo che li tiene fuori dalla comprensione di Dio. Tutte le volte che pensiamo di avere noi sotto controllo la vita, è lì che smettiamo di capire qualcosa di Dio. Al contrario tutte quelle volte che ci sembra di aver perso il controllo e di essere in balia, è allora che se abbiamo fiducia in Lui ci accorgiamo di una trama nascosta nelle cose che prima non riuscivamo a vedere. Una trama che ci dice quanto possa essere profondo il senso di ciò che stiamo vivendo al di là di quanto possa sembrare doloroso e contradditorio. “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”. La fede è un dono non uno sforzo. La logica del dono è tutta poggiata sulla capacità di saper accogliere e non sulla mentalità di chi deve conquistare, meritare, comprare, pretendere. I piccoli sperano tutto da chi amano. I sapienti pensano che la maturità vera sia cercare di non aver bisogno di nessuno. Non si può dare la fede a chi pensa di non aver bisogno di nessuno. Al contrario si può dare tutto a chi pensa di avere bisogno di tutto, specie di essere amato per poter funzionare veramente come uomo.
martedì 17 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 11,20-24
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite:
«Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi.
E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se a Sòdoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, la terra di Sòdoma sarà trattata meno duramente di te!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite”. È quasi sempre così: alle persone o alle situazioni a cui dedichi più tempo, più attenzione, più cura, i risultati scarseggiano. Invece imprevedibilmente i fiori germogliano dalle rocce più impensabili. Ma il vangelo non vuole semplicemente metterci statisticamente davanti a una verità che più o meno abbiamo sperimentato tutti nella vita, ma vuole dirci che non è senza conseguenza. Forse Dio ha perso molto tempo con noi e questo ci ha convinti che potevamo continuare come prima tanto la prerogativa di Dio è quella di riprovare con noi all’infinito, di aggiustare le cose, di comprenderci, di perdonarci. Un simile ragionamento non è un atto di fede nel suo amore, ma uno dei peccati più gravi che possiamo compiere. La teologia lo chiama “presunzione di salvezza”. Che tradotto significa che intendiamo Dio come uno che ci salverà comunque anche se noi continuiamo a fare il nostro comodo per tutta la vita. “E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo?
Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!”. Non è per metterci paura, ma la memoria che prima o poi ci sarà presentato il conto forse dovrebbe svegliarci nell’avere non una fede superstiziosa, o ancora peggio romantica. Ma una fede che ci dice che è la grazia di Dio a salvarci, a patto però che noi siamo disposti a fare tutto il nostro possibile. E in che cosa consiste il nostro possibile? Nella conversione. Cioè nella fatica di cambiare mentalità, pensare diversamente, guardare le cose diversamente e quindi scegliere diversamente. E diversamente come? Diversamente alla maniera del vangelo. La vera nostra domanda non è se oggi abbiamo sbagliato o meno, ma se oggi abbiamo deciso di cambiare mentalità o continuiamo ad oltranza con la mentalità di prima.
In quel tempo, Gesù si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte dei suoi prodigi, perché non si erano convertite:
«Guai a te, Corazìn! Guai a te, Betsàida! Perché, se a Tiro e a Sidòne fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a voi, già da tempo esse, vestite di sacco e cosparse di cenere, si sarebbero convertite. Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, Tiro e Sidòne saranno trattate meno duramente di voi.
E tu, Cafàrnao, sarai forse innalzata fino al cielo? Fino agli inferi precipiterai! Perché, se a Sòdoma fossero avvenuti i prodigi che ci sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene, io vi dico: nel giorno del giudizio, la terra di Sòdoma sarà trattata meno duramente di te!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Allora si mise a rimproverare le città nelle quali aveva compiuto il maggior numero di miracoli, perché non si erano convertite”. È quasi sempre così: alle persone o alle situazioni a cui dedichi più tempo, più attenzione, più cura, i risultati scarseggiano. Invece imprevedibilmente i fiori germogliano dalle rocce più impensabili. Ma il vangelo non vuole semplicemente metterci statisticamente davanti a una verità che più o meno abbiamo sperimentato tutti nella vita, ma vuole dirci che non è senza conseguenza. Forse Dio ha perso molto tempo con noi e questo ci ha convinti che potevamo continuare come prima tanto la prerogativa di Dio è quella di riprovare con noi all’infinito, di aggiustare le cose, di comprenderci, di perdonarci. Un simile ragionamento non è un atto di fede nel suo amore, ma uno dei peccati più gravi che possiamo compiere. La teologia lo chiama “presunzione di salvezza”. Che tradotto significa che intendiamo Dio come uno che ci salverà comunque anche se noi continuiamo a fare il nostro comodo per tutta la vita. “E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino al cielo?
Fino agli inferi precipiterai! Perché, se in Sòdoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe! Ebbene io vi dico: Nel giorno del giudizio avrà una sorte meno dura della tua!”. Non è per metterci paura, ma la memoria che prima o poi ci sarà presentato il conto forse dovrebbe svegliarci nell’avere non una fede superstiziosa, o ancora peggio romantica. Ma una fede che ci dice che è la grazia di Dio a salvarci, a patto però che noi siamo disposti a fare tutto il nostro possibile. E in che cosa consiste il nostro possibile? Nella conversione. Cioè nella fatica di cambiare mentalità, pensare diversamente, guardare le cose diversamente e quindi scegliere diversamente. E diversamente come? Diversamente alla maniera del vangelo. La vera nostra domanda non è se oggi abbiamo sbagliato o meno, ma se oggi abbiamo deciso di cambiare mentalità o continuiamo ad oltranza con la mentalità di prima.
lunedì 16 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 10,34-11,1
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”. Per quanto cerchiamo ogni volta di approfondire il significato di queste parole di Gesù, ogni volta è un pugno nello stomaco sentire che Lui non è venuto per portare la pace, ma la spada. Ma la pace che è venuta a toglierci è quella della morte o di tutte le situazioni di morte che ci lasciano si nella quiete, ma nella quiete di chi non vive e non di chi ha trovato la vera vita. Tutte le volte che rimaniamo impantanati sui nostri divani, nei nostri letti, nascosti nelle nostre tane, è lì che Gesù viene a stanarci, a buttarci giù dal letto, a scaraventarci lontano dai divani dove ci siamo accomodati esistenzialmente. La pace vera che ci dà Cristo è al fondo di una profonda inquietudine che dice fondamentalmente che abbiamo vissuto. E se è a causa di qualche relazione (padre, madre, figlio) che abbiamo trovato la scusa di non affrontare mai veramente la vita, allora quella relazione non è sana, è solo travestita di bene ma è solo una maniera tutta nostra di non vivere la vita, di non diventare noi stessi, di avere una scusa, o peggio un capro espiatorio. Una mamma, un padre, una donna che si ama, o un uomo, un figlio non possono diventare la nostra scusa, dobbiamo difenderli da questa tentazione. Solo quando Cristo ha il primo posto allora ogni relazione trova la sua giusta dimensione, diversamente sotto le sembianze di bene si sta consumando solo un bubbone di infelicità che quando sarà scoppiato ormai potrebbe essere tardi. “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”. Appunto perché vivere non è sistemarsi ma prendere sul serio ciò che c’è senza paura, senza paralisi, senza fughe. Ma nessuno di noi è capace di vivere così se non attraverso una contropartita di amore. Solo l’amore ci rende capaci di vivere così. Dio ci ama e ci chiede, non ci chiede per poi amarci.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; e nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.
Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli, partì di là per insegnare e predicare nelle loro città.
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada”. Per quanto cerchiamo ogni volta di approfondire il significato di queste parole di Gesù, ogni volta è un pugno nello stomaco sentire che Lui non è venuto per portare la pace, ma la spada. Ma la pace che è venuta a toglierci è quella della morte o di tutte le situazioni di morte che ci lasciano si nella quiete, ma nella quiete di chi non vive e non di chi ha trovato la vera vita. Tutte le volte che rimaniamo impantanati sui nostri divani, nei nostri letti, nascosti nelle nostre tane, è lì che Gesù viene a stanarci, a buttarci giù dal letto, a scaraventarci lontano dai divani dove ci siamo accomodati esistenzialmente. La pace vera che ci dà Cristo è al fondo di una profonda inquietudine che dice fondamentalmente che abbiamo vissuto. E se è a causa di qualche relazione (padre, madre, figlio) che abbiamo trovato la scusa di non affrontare mai veramente la vita, allora quella relazione non è sana, è solo travestita di bene ma è solo una maniera tutta nostra di non vivere la vita, di non diventare noi stessi, di avere una scusa, o peggio un capro espiatorio. Una mamma, un padre, una donna che si ama, o un uomo, un figlio non possono diventare la nostra scusa, dobbiamo difenderli da questa tentazione. Solo quando Cristo ha il primo posto allora ogni relazione trova la sua giusta dimensione, diversamente sotto le sembianze di bene si sta consumando solo un bubbone di infelicità che quando sarà scoppiato ormai potrebbe essere tardi. “Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”. Appunto perché vivere non è sistemarsi ma prendere sul serio ciò che c’è senza paura, senza paralisi, senza fughe. Ma nessuno di noi è capace di vivere così se non attraverso una contropartita di amore. Solo l’amore ci rende capaci di vivere così. Dio ci ama e ci chiede, non ci chiede per poi amarci.
sabato 14 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 10,24-33
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!
Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone”. Che fine faremo? La fine di Cristo. E questa non è una brutta notizia ma un gossip straordinario che può aiutarci a guardare la nostra vita da un altro punto di vista. Fare la fine di Cristo non significa semplicemente andare a finire in croce, ma ricordarsi che la fine di Cristo non è la Croce ma la Resurrezione. Passare tutta la vita cercando di scappare dalla croce, significa passare tutta la vita cercando di scappare da ciò che in questo momento è davanti a me. La croce non è solo chiodi nelle mani. La croce è tutta la realtà che si affaccia nella mia vita e che mi costringe a stare inchiodato nel qui ed ora senza poter andare via. Le nostre strategie di fuga sono molteplici ma sono tutte messe in atto perché a volte ci è insopportabile prendere sul serio il qui ed ora. Siamo come dei bambini che non vogliono stare a scuola e guardano fuori dalla finestra immaginando a quanto possa essere bello correre felici dietro a una farfalla. Cosa c’è di male in questo? Nulla apparentemente. Ma si diventa uomini non quando si smette di fantasticare, ma quando si comprende che i sogni per realizzarsi hanno bisogno di concretezza, di contatto con la realtà, di presa di responsabilità che l’alfabeto che imparo oggi a scuola mi renderà capace non soltanto di correre dietro a una farfalla ma di fare della mia vita un capolavoro. Accettare la croce significa svegliarsi al fatto che molte cose che ci sono non ci piacciono e non le vorremmo ma se le accetteremo e le vivremo così come ci ha insegnato Cristo allora esse non saranno il nostro destino ma solo la nostra Pasqua, cioè il nostro “passaggio”. Una paura diventa il nostro destino quando non la affrontiamo. Affrontarla significa farla diventare un passaggio, e non un fine. Tutto quello da cui scappiamo ci insegue sempre. Tutto quello che affrontiamo passa. In questo senso dobbiamo augurarci di fare la fine di Cristo, cioè di fare Pasqua, passaggio.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo come il suo signore. Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia!
Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto. Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze.
E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo.
Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!
Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Un discepolo non è da più del maestro, né un servo da più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone”. Che fine faremo? La fine di Cristo. E questa non è una brutta notizia ma un gossip straordinario che può aiutarci a guardare la nostra vita da un altro punto di vista. Fare la fine di Cristo non significa semplicemente andare a finire in croce, ma ricordarsi che la fine di Cristo non è la Croce ma la Resurrezione. Passare tutta la vita cercando di scappare dalla croce, significa passare tutta la vita cercando di scappare da ciò che in questo momento è davanti a me. La croce non è solo chiodi nelle mani. La croce è tutta la realtà che si affaccia nella mia vita e che mi costringe a stare inchiodato nel qui ed ora senza poter andare via. Le nostre strategie di fuga sono molteplici ma sono tutte messe in atto perché a volte ci è insopportabile prendere sul serio il qui ed ora. Siamo come dei bambini che non vogliono stare a scuola e guardano fuori dalla finestra immaginando a quanto possa essere bello correre felici dietro a una farfalla. Cosa c’è di male in questo? Nulla apparentemente. Ma si diventa uomini non quando si smette di fantasticare, ma quando si comprende che i sogni per realizzarsi hanno bisogno di concretezza, di contatto con la realtà, di presa di responsabilità che l’alfabeto che imparo oggi a scuola mi renderà capace non soltanto di correre dietro a una farfalla ma di fare della mia vita un capolavoro. Accettare la croce significa svegliarsi al fatto che molte cose che ci sono non ci piacciono e non le vorremmo ma se le accetteremo e le vivremo così come ci ha insegnato Cristo allora esse non saranno il nostro destino ma solo la nostra Pasqua, cioè il nostro “passaggio”. Una paura diventa il nostro destino quando non la affrontiamo. Affrontarla significa farla diventare un passaggio, e non un fine. Tutto quello da cui scappiamo ci insegue sempre. Tutto quello che affrontiamo passa. In questo senso dobbiamo augurarci di fare la fine di Cristo, cioè di fare Pasqua, passaggio.
venerdì 13 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 10,16-23
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.
Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.
Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato.
Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. Dovremmo ripeterci questi versetti fino al punto da ripulirli di tutta la melassa poetica che immediatamente gli mettiamo addosso, e lasciare che sprigionino tutta la vera vertigine e paura che è giusto avere quando si ha consapevolezza che si è come un agnello di fronte a un branco di lupi famelici. Ma sarebbe troppo comodo pensare che noi siamo i buoni e gli altri (chi?) sono i cattivi, i lupi. Il primo lupo che ci minaccia è il nostro io. Non ci sono nemici fuori e basta. Abbiamo tanti nemici dentro. E per vincere questi nemici fuori e dentro non bisogna diventare come loro. Non bisogna travestirsi da lupi per vincere i lupi. Gesù che non è uno sprovveduto ci dà una ricetta che non dobbiamo mai dimenticare: “siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. Vorrei partire dalla semplicità, che non dobbiamo confondere con l’ingenuità. I semplici sono quelli che non complicano le cose ma che sanno andare alla parte più essenziale delle cose. Chi ha un cuore semplice va al cuore delle cose, non perde tempo a contorcere la realtà. Chiama le cose per nome. Non si scompone troppo. Non si traveste da sapientone ma sa che la vera intelligenza è saper intuire ciò che conta. I semplici non discutono, affrontano. I prudenti sono quelli che credono nel bene, e proprio per questo sanno che esiste il male. E proprio perché vogliono difendere il bene dal male cercano sempre di capire che strategia è meglio avere affinché il male non prevalga, non prenda il sopravvento. Chi non è prudente reagisce. La prudenza sa aspettare. Chi non è prudente fa le cose di pancia. Chi è prudente diffida sempre della prima cosa che gli passa per la testa. Chi non è prudente confonde il cuore con l’emotività e pensa che siccome “sente” così allora è giusto così. Il prudente sa bene che deve difendersi da se stesso innanzitutto e poi decidere. Insomma agnelli si, ma non sprovveduti.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Ecco: io vi mando come pecore in mezzo a lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe.
Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. Ma, quando vi consegneranno, non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.
Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato.
Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Ecco: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. Dovremmo ripeterci questi versetti fino al punto da ripulirli di tutta la melassa poetica che immediatamente gli mettiamo addosso, e lasciare che sprigionino tutta la vera vertigine e paura che è giusto avere quando si ha consapevolezza che si è come un agnello di fronte a un branco di lupi famelici. Ma sarebbe troppo comodo pensare che noi siamo i buoni e gli altri (chi?) sono i cattivi, i lupi. Il primo lupo che ci minaccia è il nostro io. Non ci sono nemici fuori e basta. Abbiamo tanti nemici dentro. E per vincere questi nemici fuori e dentro non bisogna diventare come loro. Non bisogna travestirsi da lupi per vincere i lupi. Gesù che non è uno sprovveduto ci dà una ricetta che non dobbiamo mai dimenticare: “siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe”. Vorrei partire dalla semplicità, che non dobbiamo confondere con l’ingenuità. I semplici sono quelli che non complicano le cose ma che sanno andare alla parte più essenziale delle cose. Chi ha un cuore semplice va al cuore delle cose, non perde tempo a contorcere la realtà. Chiama le cose per nome. Non si scompone troppo. Non si traveste da sapientone ma sa che la vera intelligenza è saper intuire ciò che conta. I semplici non discutono, affrontano. I prudenti sono quelli che credono nel bene, e proprio per questo sanno che esiste il male. E proprio perché vogliono difendere il bene dal male cercano sempre di capire che strategia è meglio avere affinché il male non prevalga, non prenda il sopravvento. Chi non è prudente reagisce. La prudenza sa aspettare. Chi non è prudente fa le cose di pancia. Chi è prudente diffida sempre della prima cosa che gli passa per la testa. Chi non è prudente confonde il cuore con l’emotività e pensa che siccome “sente” così allora è giusto così. Il prudente sa bene che deve difendersi da se stesso innanzitutto e poi decidere. Insomma agnelli si, ma non sprovveduti.
giovedì 12 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 10,7-15
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni.
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento.
In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti.
Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Nelle “istruzioni per l’uso” dei discepoli che Gesù dà oggi nel vangelo di oggi, il punto di partenza è forse quello più decisivo: “E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino”. Il vero discepolo è innanzitutto un predicatore della vicinanza, della prossimità, del “regno a portata di mano”. Questo è importante perché dovrebbe diventare strutturalmente la caratteristica di ogni atteggiamento cristiano. Il cristiano per definizione crea e predica vicinanza. Il male, attraverso il giudizio e l’accusa crea distanza. La misericordia accorcia le distanze, dice la verità ma allo stesso tempo, colma la distanza con l’amore. E cosa significa concretamente? Come si fa a colmare una distanza con l’amore? Attraverso “l’esserci”. La predicazione della prossimità del regno di Dio la si può fare non con le parole ma con l’esserci nella vita delle persone. “Gioire con chi gioisce, e soffrire con chi soffre”. In questo senso un cristiano è autorizzato a dire la verità solo se poi è disposto a mettersi in prima persona nelle cose che dice. Posso dire parole di verità a un carcerato se poi sono disposto a stare con loro, a condividere con loro ciò che soffrono, a stare nella loro condizione di marginalità. Posso dire qualcosa di verità alla politica solo se poi sono disposto a mettermi in gioco, a entrare nei meccanismi che denuncio e a fare la differenza. Posso dire parole di verità a chi vive una condizione affettiva diversa solo se sono disposto a entrare davvero in amicizia e vicinanza alla loro situazione, ad ascoltare e sentirmi addosso una fatica, una domanda o un’aspettativa. Sarebbe troppo diabolico predicare una verità senza carità. Il demonio fa solitamente così per creare distanze e giustificarle. La verità nella carità non consiste nel trovare il tono di voce più adatto per dire qualcosa di duro, ma nell’accettare di farsi vicini, amici, compagni di viaggio, testimoni appunto. Si può dire la verità proporzionalmente al tempo umano dedicato a chi ci si rivolge.
In quel tempo, disse Gesù ai suoi apostoli:
«Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni.
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento.
In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti.
Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Nelle “istruzioni per l’uso” dei discepoli che Gesù dà oggi nel vangelo di oggi, il punto di partenza è forse quello più decisivo: “E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino”. Il vero discepolo è innanzitutto un predicatore della vicinanza, della prossimità, del “regno a portata di mano”. Questo è importante perché dovrebbe diventare strutturalmente la caratteristica di ogni atteggiamento cristiano. Il cristiano per definizione crea e predica vicinanza. Il male, attraverso il giudizio e l’accusa crea distanza. La misericordia accorcia le distanze, dice la verità ma allo stesso tempo, colma la distanza con l’amore. E cosa significa concretamente? Come si fa a colmare una distanza con l’amore? Attraverso “l’esserci”. La predicazione della prossimità del regno di Dio la si può fare non con le parole ma con l’esserci nella vita delle persone. “Gioire con chi gioisce, e soffrire con chi soffre”. In questo senso un cristiano è autorizzato a dire la verità solo se poi è disposto a mettersi in prima persona nelle cose che dice. Posso dire parole di verità a un carcerato se poi sono disposto a stare con loro, a condividere con loro ciò che soffrono, a stare nella loro condizione di marginalità. Posso dire qualcosa di verità alla politica solo se poi sono disposto a mettermi in gioco, a entrare nei meccanismi che denuncio e a fare la differenza. Posso dire parole di verità a chi vive una condizione affettiva diversa solo se sono disposto a entrare davvero in amicizia e vicinanza alla loro situazione, ad ascoltare e sentirmi addosso una fatica, una domanda o un’aspettativa. Sarebbe troppo diabolico predicare una verità senza carità. Il demonio fa solitamente così per creare distanze e giustificarle. La verità nella carità non consiste nel trovare il tono di voce più adatto per dire qualcosa di duro, ma nell’accettare di farsi vicini, amici, compagni di viaggio, testimoni appunto. Si può dire la verità proporzionalmente al tempo umano dedicato a chi ci si rivolge.
mercoledì 11 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 19,27-29
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro, disse a Gesù: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?». Può sembrare così meschina questa richiesta di Pietro nel racconto di oggi. Eppure dietro queste parole così apparentemente opportuniste, commerciali, umanissime, si nasconde qualcosa di più decisivo. È come se Pietro volesse dire: per che cosa dovrebbe davvero valere la pena tutto ciò che ci chiedi? Qual è la vera contropartita? Ricordarsi il motivo di qualcosa ci salva dalla tentazione di fare le cose solo per abitudine, o peggio ancora per sentirci migliori solo per il fatto che facciamo quel qualcosa. Il vero motivo ci aiuta a tenere i piedi per terra e a recuperare tutto ciò che abbiamo perso per strada. Gesù risponde così: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”. Che cosa vuole significare con “avrà lasciato”? Non certamente l’aver buttato via, maltrattato o dimenticato. Ma chi vuole davvero seguire Cristo deve smettere di pensare che la felicità che il nostro cuore aspira può venirci dal possesso di una delle cose in elenco. Sarò felice se avrò una casa. Sarò felice se avrò un fratello o una sorella. Sarò felice se riavrò un padre o una madre. Sarò felice se avrò un figlio e così via. Tutte queste cose sono buonissimi e benedette dal Signore ma la felicità di una persona non può dipendere dal verbo avere, ma dal verbo essere. Seguire Cristo significa capire che la felicità non viene dall’avere ma dall’essere. Il Signore ci chiede di essere suoi, di essere noi stessi, di essere diversi dalla mentalità del mondo e così via. La sequela di cui parla a Pietro non è solo riservata a un monaco, a un frate, a un consacrato e così via. È la sequela di ogni battezzato. È la sequela a cui è chiamata una madre che ha dei figli. A un uomo che ha una casa. A una persona che ha un amico o un fratello. Gesù chiede a tutti di “lasciare”, cioè di ricordarsi che non quello che si “ha” ma ciò che si “è” conta.
In quel tempo, Pietro, disse a Gesù: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
«Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne otterremo?». Può sembrare così meschina questa richiesta di Pietro nel racconto di oggi. Eppure dietro queste parole così apparentemente opportuniste, commerciali, umanissime, si nasconde qualcosa di più decisivo. È come se Pietro volesse dire: per che cosa dovrebbe davvero valere la pena tutto ciò che ci chiedi? Qual è la vera contropartita? Ricordarsi il motivo di qualcosa ci salva dalla tentazione di fare le cose solo per abitudine, o peggio ancora per sentirci migliori solo per il fatto che facciamo quel qualcosa. Il vero motivo ci aiuta a tenere i piedi per terra e a recuperare tutto ciò che abbiamo perso per strada. Gesù risponde così: “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”. Che cosa vuole significare con “avrà lasciato”? Non certamente l’aver buttato via, maltrattato o dimenticato. Ma chi vuole davvero seguire Cristo deve smettere di pensare che la felicità che il nostro cuore aspira può venirci dal possesso di una delle cose in elenco. Sarò felice se avrò una casa. Sarò felice se avrò un fratello o una sorella. Sarò felice se riavrò un padre o una madre. Sarò felice se avrò un figlio e così via. Tutte queste cose sono buonissimi e benedette dal Signore ma la felicità di una persona non può dipendere dal verbo avere, ma dal verbo essere. Seguire Cristo significa capire che la felicità non viene dall’avere ma dall’essere. Il Signore ci chiede di essere suoi, di essere noi stessi, di essere diversi dalla mentalità del mondo e così via. La sequela di cui parla a Pietro non è solo riservata a un monaco, a un frate, a un consacrato e così via. È la sequela di ogni battezzato. È la sequela a cui è chiamata una madre che ha dei figli. A un uomo che ha una casa. A una persona che ha un amico o un fratello. Gesù chiede a tutti di “lasciare”, cioè di ricordarsi che non quello che si “ha” ma ciò che si “è” conta.
martedì 10 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 9,32-38
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, presentarono a Gesù un muto indemoniato. E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni».
Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare”. Tra i sintomi più diffusi dell’opera del male dentro la nostra vita, c’è il “mutismo”. Ovviamente il mutismo a cui mi riferisco non è una questione meramente fisica, ma è l’incapacità ad aprirsi, a raccontare, a condividere. La cosa peggiore che possa capitarci nella vita non è sbagliare, o soffrire, o trovare difficoltà, ma è non riuscire a comunicare quello che si vive, quello che si pensa, quello che si prova, quello che si è fatto, quello che ci è capitato. In quella solitudine, che il male tenta di giustificare attraverso una sensazione di vergogna, o di indegnità, o di pregiudizio di incomprensione, si consuma la vera anticamera dell’inferno. Questo è il motivo per cui ogni vera guarigione interiore, o liberazione, o cambiamento, nasce sempre dalla guarigione della parola, della comunicazione. Per mettere in scacco matto il diavolo bisogna “parlare”, dire tutto, sapersi consegnare, accendere una luce nel buio, spalancare le porte della nostra personale cantina. Bisogna vincere le resistenze personali, bisogna avere il coraggio di dire, e solo così ci accorgeremo che solo per il fatto di averlo detto, la gran maggioranza del nostro problema è già risolto. Sarà questo forse il problema della nostra società, in cui siamo eternamente connessi ma siamo ormai capaci di comunicare veramente tra di noi. Il bisogno più grande della gente è quello di essere ascoltata. Nel mondo attuale ci sono categorie di mestieri fondati proprio su questo bisogno. La gente è disposta anche a pagare pure di essere ascoltata. “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!»”. Mi piace pensare che Gesù ci chieda di partecipare alla compassione che prova per tutta questa gente chiedendoci di fare un solo miracolo: ascoltare.
In quel tempo, presentarono a Gesù un muto indemoniato. E dopo che il demonio fu scacciato, quel muto cominciò a parlare. E le folle, prese da stupore, dicevano: «Non si è mai vista una cosa simile in Israele!». Ma i farisei dicevano: «Egli scaccia i demòni per opera del principe dei demòni».
Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe!».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Usciti costoro, gli presentarono un muto indemoniato. Scacciato il demonio, quel muto cominciò a parlare”. Tra i sintomi più diffusi dell’opera del male dentro la nostra vita, c’è il “mutismo”. Ovviamente il mutismo a cui mi riferisco non è una questione meramente fisica, ma è l’incapacità ad aprirsi, a raccontare, a condividere. La cosa peggiore che possa capitarci nella vita non è sbagliare, o soffrire, o trovare difficoltà, ma è non riuscire a comunicare quello che si vive, quello che si pensa, quello che si prova, quello che si è fatto, quello che ci è capitato. In quella solitudine, che il male tenta di giustificare attraverso una sensazione di vergogna, o di indegnità, o di pregiudizio di incomprensione, si consuma la vera anticamera dell’inferno. Questo è il motivo per cui ogni vera guarigione interiore, o liberazione, o cambiamento, nasce sempre dalla guarigione della parola, della comunicazione. Per mettere in scacco matto il diavolo bisogna “parlare”, dire tutto, sapersi consegnare, accendere una luce nel buio, spalancare le porte della nostra personale cantina. Bisogna vincere le resistenze personali, bisogna avere il coraggio di dire, e solo così ci accorgeremo che solo per il fatto di averlo detto, la gran maggioranza del nostro problema è già risolto. Sarà questo forse il problema della nostra società, in cui siamo eternamente connessi ma siamo ormai capaci di comunicare veramente tra di noi. Il bisogno più grande della gente è quello di essere ascoltata. Nel mondo attuale ci sono categorie di mestieri fondati proprio su questo bisogno. La gente è disposta anche a pagare pure di essere ascoltata. “Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!»”. Mi piace pensare che Gesù ci chieda di partecipare alla compassione che prova per tutta questa gente chiedendoci di fare un solo miracolo: ascoltare.
lunedì 9 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 9,18-26
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, [mentre Gesù parlava,] giunse uno dei capi, gli si prostrò dinanzi e disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano su di lei ed ella vivrà». Gesù si alzò e lo seguì con i suoi discepoli.
Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu salvata.
Arrivato poi nella casa del capo e veduti i flautisti e la folla in agitazione, Gesù disse: «Andate via! La fanciulla infatti non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma dopo che la folla fu cacciata via, egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò. E questa notizia si diffuse in tutta quella regione.
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Il dolore quando si affaccia dentro la nostra vita, cancella in un attimo tutte le chiacchiere, le cose futili, le divisioni banali che tante volte ci hanno anche visti infervorati. Davanti alla sofferenza di un figlio, ad esempio, non conta più per che squadra tifi, a chi voti, o che preferenze hai. Il dolore di un figlio ti costringe a domandarti cosa puoi fare per lui, che senso ha tutto questo, e come si può andare avanti. Credo che questo sia lo stato d’animo del papà che incontra Gesù nel vangelo di oggi: “giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli”. La disperazione, il dolore, spingono quest’uomo a smettere di essere “politicamente corretto”, e lo spingono a rivolgersi a Gesù per ciò che è e non per ciò che rappresenta per gli scribi, i farisei, i sacerdoti, i romani e così via. Il dolore spinge quest’uomo a trattare Gesù come Figlio di Dio senza altre polemiche. Non dovremmo mai dimenticare questa lezione, perché Gesù può diventare argomento di discussione, di divisione, di polemica, di appartenenza, di nicchia, di diatriba, ma la cosa che conta di più è ricordarsi che è il Figlio di Dio. E proprio perché è il Figlio di Dio gli si può consegnare qualcosa di così irreversibile come la morte. La resurrezione della figlia di quest’uomo è solo segno di qualcosa che Gesù compirà in prima persona, cioè la Resurrezione definitiva, la vittoria definitiva della morte. Un cristiano non dove mai avere paura di questa grande verità. Il motivo vero per cui siamo cristiani è perché crediamo alla Resurrezione di Cristo. Non si è cristiani perché si parteggia per qualche insegnamento di bontà presente nel vangelo. Si è cristiani a partire dalla Resurrezione di Cristo. Perché se la morte non è vinta che cosa vale la pena? La vita vale la pena solo se non va a finire nel nulla, ma va a finire nelle braccia di Qualcuno.
In quel tempo, [mentre Gesù parlava,] giunse uno dei capi, gli si prostrò dinanzi e disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano su di lei ed ella vivrà». Gesù si alzò e lo seguì con i suoi discepoli.
Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu salvata.
Arrivato poi nella casa del capo e veduti i flautisti e la folla in agitazione, Gesù disse: «Andate via! La fanciulla infatti non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma dopo che la folla fu cacciata via, egli entrò, le prese la mano e la fanciulla si alzò. E questa notizia si diffuse in tutta quella regione.
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Il dolore quando si affaccia dentro la nostra vita, cancella in un attimo tutte le chiacchiere, le cose futili, le divisioni banali che tante volte ci hanno anche visti infervorati. Davanti alla sofferenza di un figlio, ad esempio, non conta più per che squadra tifi, a chi voti, o che preferenze hai. Il dolore di un figlio ti costringe a domandarti cosa puoi fare per lui, che senso ha tutto questo, e come si può andare avanti. Credo che questo sia lo stato d’animo del papà che incontra Gesù nel vangelo di oggi: “giunse uno dei capi che gli si prostrò innanzi e gli disse: «Mia figlia è morta proprio ora; ma vieni, imponi la tua mano sopra di lei ed essa vivrà». Alzatosi, Gesù lo seguiva con i suoi discepoli”. La disperazione, il dolore, spingono quest’uomo a smettere di essere “politicamente corretto”, e lo spingono a rivolgersi a Gesù per ciò che è e non per ciò che rappresenta per gli scribi, i farisei, i sacerdoti, i romani e così via. Il dolore spinge quest’uomo a trattare Gesù come Figlio di Dio senza altre polemiche. Non dovremmo mai dimenticare questa lezione, perché Gesù può diventare argomento di discussione, di divisione, di polemica, di appartenenza, di nicchia, di diatriba, ma la cosa che conta di più è ricordarsi che è il Figlio di Dio. E proprio perché è il Figlio di Dio gli si può consegnare qualcosa di così irreversibile come la morte. La resurrezione della figlia di quest’uomo è solo segno di qualcosa che Gesù compirà in prima persona, cioè la Resurrezione definitiva, la vittoria definitiva della morte. Un cristiano non dove mai avere paura di questa grande verità. Il motivo vero per cui siamo cristiani è perché crediamo alla Resurrezione di Cristo. Non si è cristiani perché si parteggia per qualche insegnamento di bontà presente nel vangelo. Si è cristiani a partire dalla Resurrezione di Cristo. Perché se la morte non è vinta che cosa vale la pena? La vita vale la pena solo se non va a finire nel nulla, ma va a finire nelle braccia di Qualcuno.
domenica 8 luglio 2018
sabato 7 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 9,14-17
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
«Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?». Domandano giustamente i discepoli di Giovanni il battista a Gesù. Giustamente loro sono stati educati da un uomo come Giovanni che ha vissuto tutta la sua vita allenandosi per l’incontro con il Messia, con Cristo. Ma l’allenamento non può diventare un’idolatria. Anche alcune pratiche religiose possono diventare idolatria per noi. Ciò accade quando ricaviamo soddisfazione dal farle dimenticandocene il motivo per cui le pratichiamo. Si cade in una forma di narcisismo spirituale quando si perde di vista “lo Sposo”. Accade allora che avere una vita spirituale o una costanza della pratica religiosa ci faccia sentire migliori degli altri. Migliori al punto da domandare agli altri di essere come noi per essere i migliori. Ma nella logica di Cristo i migliori non sono quelli che hanno prestazioni eroiche ma quelli che non perdono di vista Lui nonostante l’incostanza, l’incoerenza, le cadute. La vita spirituale non serve a sentirsi meglio o a sentirsi migliori, ma serve a non perdere di vista Cristo. Ragionare da narcisisti (il vestito vecchio o l’otre vecchio) e mettere sopra la novità del vangelo (il pezzo di stoffa nuova o il vino nuovo) non porta una miglioria alla nostra vita ma una tragedia: “Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore. Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si mette vino nuovo in otri nuovi”. Per accogliere la novità di Cristo non bisogna più ragionare con l’ottica religiosa di prima. Non conta la performance ma non perdere di vista Lui. E ogni azione spirituale o pratica religiosa o serve a non perdere di vista Lui oppure non serve. Le cose non vanno più fatte semplicemente perché bisogna farle, ma solo perché hanno a che fare con Lui. Se non hanno più a che fare con Lui bisogna avere il coraggio di fermarsi, e qualche volta anche di cambiare, senza paura.
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
«Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?». Domandano giustamente i discepoli di Giovanni il battista a Gesù. Giustamente loro sono stati educati da un uomo come Giovanni che ha vissuto tutta la sua vita allenandosi per l’incontro con il Messia, con Cristo. Ma l’allenamento non può diventare un’idolatria. Anche alcune pratiche religiose possono diventare idolatria per noi. Ciò accade quando ricaviamo soddisfazione dal farle dimenticandocene il motivo per cui le pratichiamo. Si cade in una forma di narcisismo spirituale quando si perde di vista “lo Sposo”. Accade allora che avere una vita spirituale o una costanza della pratica religiosa ci faccia sentire migliori degli altri. Migliori al punto da domandare agli altri di essere come noi per essere i migliori. Ma nella logica di Cristo i migliori non sono quelli che hanno prestazioni eroiche ma quelli che non perdono di vista Lui nonostante l’incostanza, l’incoerenza, le cadute. La vita spirituale non serve a sentirsi meglio o a sentirsi migliori, ma serve a non perdere di vista Cristo. Ragionare da narcisisti (il vestito vecchio o l’otre vecchio) e mettere sopra la novità del vangelo (il pezzo di stoffa nuova o il vino nuovo) non porta una miglioria alla nostra vita ma una tragedia: “Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo squarcia il vestito e si fa uno strappo peggiore. Né si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van perduti. Ma si mette vino nuovo in otri nuovi”. Per accogliere la novità di Cristo non bisogna più ragionare con l’ottica religiosa di prima. Non conta la performance ma non perdere di vista Lui. E ogni azione spirituale o pratica religiosa o serve a non perdere di vista Lui oppure non serve. Le cose non vanno più fatte semplicemente perché bisogna farle, ma solo perché hanno a che fare con Lui. Se non hanno più a che fare con Lui bisogna avere il coraggio di fermarsi, e qualche volta anche di cambiare, senza paura.
venerdì 6 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 9,9-13
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì”. Il Matteo del vangelo di oggi è lo stesso Matteo che scrive questo vangelo. Da lui ci saremmo aspettati qualche confidenza in più sull’accaduto. Che cosa gli è successo in quell’istante? Cosa è scattato nel suo cuore? Perché questo “subito”? dobbiamo rassegnarci a un interminabile silenzio, e a tenere queste poche righe come un memoriale per ciascuno di noi. Gesù sceglie le persone non perché lo meritano ma perché le ama in maniera preventiva. La cosa più decisiva nel cristianesimo non è accumulare meriti ma lasciarsi amare da Lui. la seconda cosa è la velocità con cui Matteo risponde a quella chiamata che credo sia indice di un’umiltà immensa, perché gli umili sono concretissimi e pratici. La superbia invece è sempre accompagnata da innumerevoli discorsi, riflessioni e tentennamenti. La vita spirituale è una scienza pratica che solo gli umili capiscono. E a volte l’umiltà ci viene dall’umiliazione che abbiamo subìto a causa delle nostre scelte sbagliate o a causa di ciò che abbiamo subìto dalla vita stessa. Di sicuro senza umiltà non si va da nessuna parte. Ad esempio non si comprende che Dio non ha bisogno dei nostri sacrifici ma di persone che si comportano come Lui: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio”. Oggi forse dovremmo lasciarci trafiggere da questa richiesta di Gesù: “Misericordia io voglio non sacrificio”. Non basta comportarsi bene per dire di essere dalla parte giusta. Noi dobbiamo imparare a comportarci come Cristo e non solo a comportarci secondo delle regole buone. Ci accorgeremo così che Cristo non è contro le regole ma più sovrabbondante. Trova sempre il modo di amare senza lasciarsi scoraggiare dalla miseria che incontra. Non è forse questa la definizione di misericordia? La miseria degli altri, o la nostra non devono scoraggiarci dall’amare. Dio non ha bisogno di chi denuncia la miseria, ma di chi ama nonostante la miseria.
In quel tempo, Gesù passando, vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì.
Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.
Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».
Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati.
Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
“Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì”. Il Matteo del vangelo di oggi è lo stesso Matteo che scrive questo vangelo. Da lui ci saremmo aspettati qualche confidenza in più sull’accaduto. Che cosa gli è successo in quell’istante? Cosa è scattato nel suo cuore? Perché questo “subito”? dobbiamo rassegnarci a un interminabile silenzio, e a tenere queste poche righe come un memoriale per ciascuno di noi. Gesù sceglie le persone non perché lo meritano ma perché le ama in maniera preventiva. La cosa più decisiva nel cristianesimo non è accumulare meriti ma lasciarsi amare da Lui. la seconda cosa è la velocità con cui Matteo risponde a quella chiamata che credo sia indice di un’umiltà immensa, perché gli umili sono concretissimi e pratici. La superbia invece è sempre accompagnata da innumerevoli discorsi, riflessioni e tentennamenti. La vita spirituale è una scienza pratica che solo gli umili capiscono. E a volte l’umiltà ci viene dall’umiliazione che abbiamo subìto a causa delle nostre scelte sbagliate o a causa di ciò che abbiamo subìto dalla vita stessa. Di sicuro senza umiltà non si va da nessuna parte. Ad esempio non si comprende che Dio non ha bisogno dei nostri sacrifici ma di persone che si comportano come Lui: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio”. Oggi forse dovremmo lasciarci trafiggere da questa richiesta di Gesù: “Misericordia io voglio non sacrificio”. Non basta comportarsi bene per dire di essere dalla parte giusta. Noi dobbiamo imparare a comportarci come Cristo e non solo a comportarci secondo delle regole buone. Ci accorgeremo così che Cristo non è contro le regole ma più sovrabbondante. Trova sempre il modo di amare senza lasciarsi scoraggiare dalla miseria che incontra. Non è forse questa la definizione di misericordia? La miseria degli altri, o la nostra non devono scoraggiarci dall’amare. Dio non ha bisogno di chi denuncia la miseria, ma di chi ama nonostante la miseria.
giovedì 5 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 9,1-8
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, salito su una barca, Gesù passò all’altra riva e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portavano un paralitico disteso su un letto. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati».
Allora alcuni scribi dissero fra sé: «Costui bestemmia». Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati e cammina”? Ma, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati: Àlzati – disse allora al paralitico –, prendi il tuo letto e va’ a casa tua». Ed egli si alzò e andò a casa sua.
Le folle, vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
La famosa scena del Vangelo di oggi ci racconta della guarigione di un paralitico portato da Gesù non appena giunto nella sua città. L’affermazione che Gesù fa dovrebbe far rabbrividire tutti quelli che pensano che il peccato sia solo il retrogusto di un’educazione moralistica che è legata soprattutto al passato: “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati»”. Il mondo di oggi non ama parlare di peccato. È questo anche il motivo per cui ci si confessa poco o ci si confessa male. Il sacramento della confessione rimane sempre un sacramento “fastidioso” perché ci costringe a mettere alcol sulla ferita. E se l’effetto è quello di disinfettare in vista di una guarigione, dobbiamo però anche dire che l’alcol su una ferita brucia. Noi non vorremmo mai sentire il dolore di una ferita, preferiamo trovare il modo di coprirla, dimenticarla, nasconderla, ma quasi mai troviamo il coraggio di esporla perché sia disinfettata e guarita. Il bello (o il brutto) è che ci riusciamo anche, ma gli effetti del peccato solitamente diventano infelicità per il peccatore, paralisi della sua volontà, incapacità a sentire il gusto della vita, rabbia, rancore, in pratica una vita ferma, una vita morta, una vita non più viva. La felicità di una persona non dipende dal fatto se cammina sulle sue gambe o se è su una sedia a rotelle. La felicità di una persona dipende da quanto quella vita è libera da tutto ciò che potrebbe ucciderla, fermarla, oscurarla. Il peccato ne è la causa principale, perché il peccato è un male che non solo fa il male ma ci fa male. In questo senso Gesù non è innanzitutto un taumaturgo ma Colui che può rimettere i peccati. Infatti lo scandalo viene esattamente da queste sue parole: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora al paralitico, prendi il tuo letto e va' a casa tua”. Dovremmo chiedere di essere perdonati prima ancora che guariti. Il perdono è una forma di guarigione più alta.
In quel tempo, salito su una barca, Gesù passò all’altra riva e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portavano un paralitico disteso su un letto. Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati».
Allora alcuni scribi dissero fra sé: «Costui bestemmia». Ma Gesù, conoscendo i loro pensieri, disse: «Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati e cammina”? Ma, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati: Àlzati – disse allora al paralitico –, prendi il tuo letto e va’ a casa tua». Ed egli si alzò e andò a casa sua.
Le folle, vedendo questo, furono prese da timore e resero gloria a Dio che aveva dato un tale potere agli uomini.
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
La famosa scena del Vangelo di oggi ci racconta della guarigione di un paralitico portato da Gesù non appena giunto nella sua città. L’affermazione che Gesù fa dovrebbe far rabbrividire tutti quelli che pensano che il peccato sia solo il retrogusto di un’educazione moralistica che è legata soprattutto al passato: “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: «Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati»”. Il mondo di oggi non ama parlare di peccato. È questo anche il motivo per cui ci si confessa poco o ci si confessa male. Il sacramento della confessione rimane sempre un sacramento “fastidioso” perché ci costringe a mettere alcol sulla ferita. E se l’effetto è quello di disinfettare in vista di una guarigione, dobbiamo però anche dire che l’alcol su una ferita brucia. Noi non vorremmo mai sentire il dolore di una ferita, preferiamo trovare il modo di coprirla, dimenticarla, nasconderla, ma quasi mai troviamo il coraggio di esporla perché sia disinfettata e guarita. Il bello (o il brutto) è che ci riusciamo anche, ma gli effetti del peccato solitamente diventano infelicità per il peccatore, paralisi della sua volontà, incapacità a sentire il gusto della vita, rabbia, rancore, in pratica una vita ferma, una vita morta, una vita non più viva. La felicità di una persona non dipende dal fatto se cammina sulle sue gambe o se è su una sedia a rotelle. La felicità di una persona dipende da quanto quella vita è libera da tutto ciò che potrebbe ucciderla, fermarla, oscurarla. Il peccato ne è la causa principale, perché il peccato è un male che non solo fa il male ma ci fa male. In questo senso Gesù non è innanzitutto un taumaturgo ma Colui che può rimettere i peccati. Infatti lo scandalo viene esattamente da queste sue parole: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora al paralitico, prendi il tuo letto e va' a casa tua”. Dovremmo chiedere di essere perdonati prima ancora che guariti. Il perdono è una forma di guarigione più alta.
mercoledì 4 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 8,28-34
Dal Vangelo secondo Matteo
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Oggi il vangelo ci racconta di un esorcismo. Dovremmo stare sempre molto attenti quando leggiamo questi racconti a non renderli troppo simbolici. Non sono solo storie che significano altro. Certi episodi non sono parabole, ma fatti di cronaca registrati alla maniera del Vangelo, cioè non in maniera giornalistica ma teologica. Essi rimangono comunque “fatti”. Gesù si è incontrato e scontrato realmente con il male. Il male esiste. Non è solo un modo di raccontare la parte della vita che non funziona. Il grande papa Paolo VI, sempre misurato, attento e preciso nelle parole così si esprime: “Il male e il peccato sono occasione ed effetto d’un intervento in noi e nel nostro mondo d’un agente oscuro e nemico, il Demonio. Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa”. Credo che il Vangelo prima di ricordarci cosa Gesù può contro il male, voglia ricordarci innanzitutto che il male esiste! La prima vittoria del male è farci credere che tutti i nostri problemi sono solo paturnie di uomini o tra uomini, questioni solo di pensieri, errori o ferite. Il male esiste e lavora h24 contro di noi. Prima lo accettiamo e prima permettiamo a Cristo di combatterlo in noi e per noi. Nel racconto di oggi esso si manifesta come una violenza che sbarra la strada: “erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada”. Molte volte nella vita ci sembra che la strada sia sbarrata oltre le nostre forze. Dobbiamo allora ricordarci che Cristo può liberare ogni strada e può trasformare la fatica di un ostacolo (anche se è il demonio a metterlo) in un modo di santificarci, di farlo concorrere al nostro bene. Il male può sbarrarci la strada ma non può fermare il nostro cammino. L’Amore di Dio che ci arriva attraverso Cristo ci aiuta a trasformare ogni tentazione in occasione, ogni ostacolo in opportunità, ogni chiusura in trampolino di lancio. Cristo non solo ci libera dal male, ma ci libera anche nonostante il male.
In quel tempo, giunto Gesù all’altra riva, nel paese dei Gadarèni, due indemoniati, uscendo dai sepolcri, gli andarono incontro; erano tanto furiosi che nessuno poteva passare per quella strada. Ed ecco, si misero a gridare: «Che vuoi da noi, Figlio di Dio? Sei venuto qui a tormentarci prima del tempo?».
A qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo; e i demòni lo scongiuravano dicendo: «Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci». Egli disse loro: «Andate!». Ed essi uscirono, ed entrarono nei porci: ed ecco, tutta la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare e morirono nelle acque.
I mandriani allora fuggirono e, entrati in città, raccontarono ogni cosa e anche il fatto degli indemoniati. Tutta la città allora uscì incontro a Gesù: quando lo videro, lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.
Parola del SignoreA qualche distanza da loro c’era una numerosa mandria di porci al pascolo; e i demòni lo scongiuravano dicendo: «Se ci scacci, mandaci nella mandria dei porci». Egli disse loro: «Andate!». Ed essi uscirono, ed entrarono nei porci: ed ecco, tutta la mandria si precipitò giù dalla rupe nel mare e morirono nelle acque.
I mandriani allora fuggirono e, entrati in città, raccontarono ogni cosa e anche il fatto degli indemoniati. Tutta la città allora uscì incontro a Gesù: quando lo videro, lo pregarono di allontanarsi dal loro territorio.
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Oggi il vangelo ci racconta di un esorcismo. Dovremmo stare sempre molto attenti quando leggiamo questi racconti a non renderli troppo simbolici. Non sono solo storie che significano altro. Certi episodi non sono parabole, ma fatti di cronaca registrati alla maniera del Vangelo, cioè non in maniera giornalistica ma teologica. Essi rimangono comunque “fatti”. Gesù si è incontrato e scontrato realmente con il male. Il male esiste. Non è solo un modo di raccontare la parte della vita che non funziona. Il grande papa Paolo VI, sempre misurato, attento e preciso nelle parole così si esprime: “Il male e il peccato sono occasione ed effetto d’un intervento in noi e nel nostro mondo d’un agente oscuro e nemico, il Demonio. Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa”. Credo che il Vangelo prima di ricordarci cosa Gesù può contro il male, voglia ricordarci innanzitutto che il male esiste! La prima vittoria del male è farci credere che tutti i nostri problemi sono solo paturnie di uomini o tra uomini, questioni solo di pensieri, errori o ferite. Il male esiste e lavora h24 contro di noi. Prima lo accettiamo e prima permettiamo a Cristo di combatterlo in noi e per noi. Nel racconto di oggi esso si manifesta come una violenza che sbarra la strada: “erano tanto furiosi che nessuno poteva più passare per quella strada”. Molte volte nella vita ci sembra che la strada sia sbarrata oltre le nostre forze. Dobbiamo allora ricordarci che Cristo può liberare ogni strada e può trasformare la fatica di un ostacolo (anche se è il demonio a metterlo) in un modo di santificarci, di farlo concorrere al nostro bene. Il male può sbarrarci la strada ma non può fermare il nostro cammino. L’Amore di Dio che ci arriva attraverso Cristo ci aiuta a trasformare ogni tentazione in occasione, ogni ostacolo in opportunità, ogni chiusura in trampolino di lancio. Cristo non solo ci libera dal male, ma ci libera anche nonostante il male.
martedì 3 luglio 2018
lunedì 2 luglio 2018
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Mt 8,18-22
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva.
Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Inevitabilmente quando incontriamo il Signore nella nostra vita, cerchiamo di mettere delle condizioni. Dio deve servirci a qualcosa, diversamente non sapremo cosa farcene. Ad esempio deve servire a darmi tutte le sicurezze che non ho, a curare tutte le mie precarietà, a sanare ogni mia paura. Questa credo sia l’intenzione di fondo dello scriba che per primo si avvicina a Gesù nel Vangelo di oggi: “«Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo»”. Che tradotto significa: “Se mi cerchi perché stai cercando sicurezze, sappi che io sono innanzitutto colui che toglie le sicurezze e costringe al viaggio”. Gesù non serve a rassicurarci, ma a darci un motivo per cui affrontare tutta la precarietà della vita. Il Dio che tiriamo fuori nel momento del bisogno scompare immediatamente dopo aver risolto il nostro bisogno, ma il Dio di Gesù Cristo, il Dio reale non ci lascia mai non solo nella cattiva sorte, ma anche nella buona. La Sua non è una luce che ci immaginiamo per affrontare il buio, ma è una luce che è con noi anche in pieno giorno. Non è un modo per evitare la vita, ma esattamente un modo per affrontarla. Nessuno può essere Suo discepolo se cerca solo un “punto d’appoggio”. Si può essere Suoi discepoli solo se si accetta che Egli sia compagno di viaggio e non fuga. Allo stesso tempo non si può seguirlo pensando che ci sarà un giorno in cui potremmo farlo e sarebbe bello farlo, ma che questo giorno non è mai oggi ma sempre domani. Ogni giorno domani. Ogni giorno con un “valido” motivo per cui ci diciamo che Lo prenderemo sul serio ma non appena avremmo finito di “seppellire una faccenda” in sospeso: “«Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti»”. Se ti sei accorto che oggi il Signore ti sta dicendo una cosa vera, allora non rimandare, fai ciò che è giusto oggi. Attendere in questo caso non è pazienza ma fallimento.
In quel tempo, vedendo la folla attorno a sé, Gesù ordinò di passare all’altra riva.
Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti».
Parola del Signore
Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco
Inevitabilmente quando incontriamo il Signore nella nostra vita, cerchiamo di mettere delle condizioni. Dio deve servirci a qualcosa, diversamente non sapremo cosa farcene. Ad esempio deve servire a darmi tutte le sicurezze che non ho, a curare tutte le mie precarietà, a sanare ogni mia paura. Questa credo sia l’intenzione di fondo dello scriba che per primo si avvicina a Gesù nel Vangelo di oggi: “«Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo»”. Che tradotto significa: “Se mi cerchi perché stai cercando sicurezze, sappi che io sono innanzitutto colui che toglie le sicurezze e costringe al viaggio”. Gesù non serve a rassicurarci, ma a darci un motivo per cui affrontare tutta la precarietà della vita. Il Dio che tiriamo fuori nel momento del bisogno scompare immediatamente dopo aver risolto il nostro bisogno, ma il Dio di Gesù Cristo, il Dio reale non ci lascia mai non solo nella cattiva sorte, ma anche nella buona. La Sua non è una luce che ci immaginiamo per affrontare il buio, ma è una luce che è con noi anche in pieno giorno. Non è un modo per evitare la vita, ma esattamente un modo per affrontarla. Nessuno può essere Suo discepolo se cerca solo un “punto d’appoggio”. Si può essere Suoi discepoli solo se si accetta che Egli sia compagno di viaggio e non fuga. Allo stesso tempo non si può seguirlo pensando che ci sarà un giorno in cui potremmo farlo e sarebbe bello farlo, ma che questo giorno non è mai oggi ma sempre domani. Ogni giorno domani. Ogni giorno con un “valido” motivo per cui ci diciamo che Lo prenderemo sul serio ma non appena avremmo finito di “seppellire una faccenda” in sospeso: “«Signore, permettimi di andar prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi e lascia i morti seppellire i loro morti»”. Se ti sei accorto che oggi il Signore ti sta dicendo una cosa vera, allora non rimandare, fai ciò che è giusto oggi. Attendere in questo caso non è pazienza ma fallimento.
domenica 1 luglio 2018
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