mercoledì 25 novembre 2009

UP un film d'animazione che parla d'amore autentico


di Antonio Autieri
sabato 14 novembre 2009

Dopo i passaggi a Cannes e Venezia, e l’uscita in tutto il mondo, è stato finalmente visto e apprezzato anche dal pubblico italiano il nuovo grande film della Pixar di John Lasseter: Up, che circola anche in versione 3D, la nuova tecnologia che sta cambiando il cinema. E che qui aggiunge poco – se non in alcune scene movimentate – a un film i cui pregi risiedono nella storia divertentissima, avventurosa, commovente, indimenticabile. Caratteristiche che tornano spesso nei film Pixar.
Il protagonista di Up è Carl Fredricksen: lo osserviamo all’inizio bambino, che guarda al cinema con candido stupore immagini sgranate in bianco e nero (siamo negli anni 30) sull’eroico esploratore Charles Muntz, di cui diventa un fan; come lo è la piccola Ellie, destinata a diventare sua grande amica. Con un veloce salto nel tempo vediamo i due bambini – così diversi tra loro: lei chiacchierona e buffa, lui silenzioso e goffo – sognare avventure in posti paradisiaci, poi diventare grandi, sposarsi, sperare (invano) di avere figli e quindi invecchiare, in una veloce carrellata muta che – anche grazie alle musiche di Michael Giacchino – risulta di una grazia chapliniana. Sognatori affettuosi e innamorati, il venditore di palloncini Carl e la sua amata moglie Ellie hanno vissuto una vita semplice e felice. Finché lei non lo lascia solo su questa terra. E qui vediamo l’ormai vedovo Carl come è adesso, a 78 anni: solo, inacidito con il mondo, sospettoso verso gli strani uomini che costruiscono palazzi attorno a lui e che vorrebbero comprargli la casetta costruita e curata con amore insieme a Ellie, il cui ricordo è l’unica cosa che lo tiene in vita. E quando con un pretesto cercheranno di portargli quella specie di santuario della memoria del loro tenero amore coniugale, escogiterà una via di fuga incredibile: attaccando miriadi di palloncini alla dimora sradicata notte tempo dal terreno, volerà via in cerca di quelle avventure sognate tutta la vita e mai realizzate. Ma c’è un imprevisto: il piccolo Russell, un boy scout di 8 anni che gli si è infilato in casa e che vuole viaggiare con lui… Controvoglia, il burbero Carl se lo deve portar dietro: insieme si troveranno a vivere in Sud America avventure mirabolanti, drammatici pericoli e sorprese a non finire (con scene che esaltano l’incredibile spettacolarità del film, sempre con la casetta volante appresso…): come la scoperta che certi eroi non sono poi così apprezzabili, e che invece anche la persona più comune può diventare un vero eroe per salvare chi vuol bene.
Abbiamo forse detto anche troppo, ma in realtà c’è molto di più in Up, a cominciare da alcuni “caratteri” comici che seguono la tradizione Disney e Pixar (il divertente cane parlante Doug e l’uccello rarissimo Kevin), da battute irresistibili, da gag calibrate al millimetro. Ma soprattutto, in Up c’è la consueta capacità dello staff Pixar – qui alla regia c’è Pete Docter, che già realizzò Monsters & Co. – di unire divertimento e toccante rappresentazione umana. Dopo aver raccontato giocattoli in crisi di identità o alla ricerca delle proprie origini (i due Toy Story), mostri che scoprono l’accettazione dell’alterità come strada per l’amicizia (Monsters & Co.), padri ansiosi e figli ribelli (Alla ricerca di Nemo), uomini in crisi di mezza età e di famiglie litigiose ma in fondo unite (Gli incredibili), amicizie che cambiano la vita (Cars), talenti che aprono anche il cuore più indurito (Ratatouille), e uomini capaci di riscattarsi dopo secoli di “letargo” esistenziale (Wall-E), anche stavolta riescono ancora a sorprenderci. Raccontando non solo l’ennesima “strana coppia” del cinema formata dal bambino e dal vecchietto (che ricorda tantissimo Spencer Tracy, grande attore di qualche decennio fa, anche nei modi burberi ma in fondo bonari), ma soprattutto mettendo al centro temi come la perdita della persona amata, la solitudine, la necessità di vivere il ricordo come memoria viva e non come ostacolo alla vita.

Dopo aver sognato avventure impossibili, Carl non solo si troverà a viverle anche oltre ogni sua immaginazione, ma capirà – grazie all’ultimo regalo di Ellie, in una scena che fa commuovere anche i sassi – che la sua più grande avventura è stato vivere sempre accanto al grande amore della sua vita. Un amore così grande da invitarlo ad andare avanti, a non fermarsi a un pur dolce ricordo e a lanciarsi nelle nuove avventure che l’esistenza gli può ancora proporre. Che sia lanciarsi in imprese spericolate per un ometto quasi ottantenne o confortare un bambino dalla difficile situazione affettiva.


Belgio: in coma da molti anni come Eluana, sentiva tutto!


Tratto da Il Giornale del 24 novembre 2009

Londra - Per ventitré anni ha vissuto imprigionato nel suo corpo incapace di muoversi e di comunicare. I medici gli avevano diagnosticato uno stato di coma vegetativo, ma si erano sbagliati. Rom Houbens, un uomo belga che adesso ha 46 anni, capiva perfettamente tutto quello che accadeva intorno a lui, ma non era in grado di dirlo. Così, dopo che un grave incidente d'auto l'aveva lasciato paralizzato, ha trascorso metà della sua esistenza ascoltando i medici che tentavano di migliorare le sue condizioni, poi rinunciavano a curarlo.

Il suo era ormai stato archiviato come un caso senza speranza quando la sua diagnosi venne rivista. Si tratta di una storia accaduta a Zolder, in Belgio, tre anni fa e che è stata resa pubblica soltanto ora dopo la pubblicazione su una rivista scientifica proprio dal medico che ha cambiato il destino di Houbens.

Raccontata ieri dal quotidiano inglese Daily Telegraph, questa vicenda fa molto riflettere sul diritto all'eutanasia di cui tanto si è discusso anche in Italia soprattutto dopo il caso di Eluana Englaro. E viene da pensare con raccapriccio a che cosa sarebbe accaduto se la famiglia del signor Houbens avesse insistito nel chiedere ai medici di «staccare la spina». Rom sarebbe probabilmente morto quando ancora era del tutto consapevole di ciò che accadeva. Prima dell'incidente occorsogli nel 1983, l'uomo era uno studente universitario appassionato di arti marziali. Dopo essere rimasto paralizzato i medici l'hanno curato costantemente controllando le sue condizioni con il Glasgow Coma Scale, un metodo internazionalmente riconosciuto che giudica lo stato del paziente attraverso le sue risposte visive, verbali e motorie.

A ogni esame la diagnosi inesatta veniva riconfermata e Houbens assisteva in silenzio ai commenti dei medici e alla disperazione dei parenti senza poter fare nulla. Tre anni fa, la svolta. All'università di Liegi un medico decide di riesaminare il caso dall'inizio e finalmente si scopre che il cervello di Houbens ha funzionato quasi normalmente per tutti questi anni. La nuova terapia che gli è stata prescritta adesso gli consente di comunicare con il mondo esterno attraverso un computer. Per Rom è stato come rinascere per una seconda volta. «Non potete immaginare che cosa significhi risvegliarsi e capire di aver perso il controllo del proprio corpo - ha raccontato l'uomo, - tentare di gridare senza che dalla mia bocca uscisse nemmeno un suono. Per anni sono stato testimone della mia sofferenza. Non dimenticherò mai il giorno che hanno scoperto l'errore nella diagnosi. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che sognare una vita migliore».

Il neurologo Steven Laureys, che si è occupato del caso, afferma che spesso il coma vigile viene scambiato per coma vegetativo. «Soltanto in Germania - ha spiegato il medico che dirige il dipartimento di Neurologia all'ateneo di Liegi - ogni anno 100mila persone subiscono gravi traumi cerebrali. Circa 20mila restano in coma per tre settimane o più a lungo. Alcuni muoiono, altri si riprendono. Ma una percentuale che oscilla dalle 3mila fino alle 5mila persone l'anno, rimane intrappolata in uno stato intermedio. Continuano a vivere senza mai ritornare indietro completamente». Houbens adesso si trova in una struttura vicino a Bruxelles e può nuovamente comunicare con i suoi genitori e con tutti i suoi amici.

Guai a discutere di Maometto. Ma Gheddafi può insultare Gesù.


A cura di Renato Farina – Il Giornale 17/11/09

Arrivato a Roma, che resta in fondo la capitale della cristianità, Gheddafi non ha staccato il crocifisso dal muro. A quello ci pensa l'Europa. Lui ha preteso di identificare chi vi è stato inchiodato. Dicendo: «Non è Gesù, non è mai stato Gesù».

«Era un sosia, uno che gli assomigliava», ha predicato con solennità. Per citare l'agenzia Ansa si sarebbe espresso così: «Voi credete che Gesù è stato crocifisso ma non lo è stato, lo ha preso Dio in cielo. Hanno crocefisso uno che assomigliava a lui». Ma non solo: «Gli ebrei hanno cercato di ammazzare Gesù perché lui voleva rimettere sulla via giusta la religione di Mosè».
Insomma: Gesù è un profeta dell'Islam, e sarebbe una specie di vigliacco che scappa in braccio a Dio per non farsi mettere a morte dagli ebrei, lasciando che sia un altro a soffrire per lui. La nostra idea, forse la nostra speranza, è che ieri a dire queste bestialità beduine non sia stato il vero Colonnello ma un suo sosia. Una pratica molto nota tra i capi musulmani. Saddam Hussein ne aveva una dozzina, è stato scritto un bellissimo libro sul tema da Martin Amis. Probabile ne abbia anche Gheddafi, ma la prossima volta li scelga più intelligenti, e anche più rispettosi delle persone e del luogo dove va a pontificare.

La storia, per le persone cui fosse sfuggita, è questa: il capo del popolo libico, a Roma per il vertice della Fao, ha fatto rastrellare duecento ragazze alte e belle, vestite in modo castigato. Ha donato a ciascuna una banconota, poi ha cercato di convertirle. Da noi, nei Paesi occidentali, non è vietato: c'è libertà religiosa e anche di proselitismo. Ma da noi c'è anche il diritto di critica. E per il momento abbiamo anche il diritto alla difesa della Bibbia e in essa del Vangelo.
Stiamo un attimo sul punto. Quella della crocefissione di un Sosia, non è una trovata del leader libico, è una affermazione che sta scritta nel Corano. Il quale fa di Gesù un Profeta, ma nega l'essenziale su di lui, lo mangia e lo digerisce per il comodo di Maometto, che voleva sostituire la Rivelazione cristiana con la sua. Legittimo, da noi c'è libertà di religione. Ma il fatto che il rappresentate di un popolo convochi, con 50 euro di mancia al netto delle tasse, cento ragazze italiane per indottrinarle, senza diritto di replica, è qualcosa che se fosse stato fatto - a parti rovesciate - in Arabia o in Libia, il predicatore non sarebbe vivo. Se ad esempio, alla Mecca (che corrisponde più o meno a Roma per l'Islam) Berlusconi andasse a sostenere che Maometto sposando una bambina di nove anni ha violato l'infanzia, sarebbe stato decapitato come minimo, più probabilmente lapidato.

Noi ci ricordiamo bene quando, con il pretesto della maglietta con la vignetta su Maometto indossata dal ministro Calderoli, per poco non si dichiarò guerra all'Italia e fu assaltato il nostro consolato a Bengasi. E quella maglietta era assai delicata rispetto alla negazione ostentata, nella Roma di Pietro, della verità storica sulla passione e sul Calvario. Una specie di insensato negazionismo. Finché resta nei confini delle moschee ed è esposto da semplici imam, offende la nostra comunità e la nostra tradizione, ma ci sta, amaramente ci sta: è il prezzo della tolleranza e della libertà. Ma un capo di Stato non può abusare della sua intangibilità di ospite nonché di detentore del gas e del petrolio. Esistono dei doveri di civiltà, anche fra i beduini in visita, e conviene che qualcuno li ricordi al leader Gheddafi.

Il Crocifisso scomodo


di Antonio Socci

da Libero 4 novembre 2009

Gesù è stato giudicato – duemila anni fa – dalle varie magistrature del suo tempo. E sappiamo cosa decise la “giustizia” di allora.
Oggi la Corte europea di Strasburgo ha emesso una sentenza secondo cui lasciare esposta nelle scuole la raffigurazione di quell’Innocente massacrato dalla “giustizia umana” viola la libertà religiosa.
E’ stato notato che semmai il crocifisso ricorda a tutti che cosa è la giustizia umana e cosa è il potere ed è quindi un grande simbolo di laicità (sì, proprio laicità) e di libertà (viene da chiedersi se gli antichi giudici di Gesù sarebbero contenti o scontenti che una sentenza di oggi cancelli l’immagine di quel loro “errore giudiziario” o meglio di quella loro orrenda ingiustizia).
Ma discutiamo pacatamente le ragioni della sentenza di oggi: il crocifisso nelle aule, dicono i giudici, costituisce “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni” e una violazione alla “libertà di religione degli alunni”.
Per quanto riguarda la prima ragione obietto che quel diritto dei genitori è piuttosto leso da legislazioni stataliste che non riconoscono la libertà di educazione e che magari usano la scuola pubblica per indottrinamenti ideologici.

La seconda ragione è ancor più assurda. Il crocifisso sul muro non impone niente a nessuno, ma è il simbolo della nostra storia. Una sentenza simile va bocciata anzitutto per mancanza di senso storico, cioè di consapevolezza culturale, questione dirimente visto che si parla di scuole. Pare ignara di cosa sia la storia e la cultura del nostro popolo.
Per coerenza i giudici dovrebbero far cancellare anche le feste scolastiche di Natale (due settimane) e di Pasqua (una settimana), perché violerebbero la libertà religiosa.
Stando a questa sentenza, l’esistenza stessa della nostra tradizione bimillenaria e la fede del nostro popolo (che al 90 per cento sceglie volontariamente l’ora di religione cattolica) sono di per sé un “attentato” alla libertà altrui.

I giudici di Strasburgo dovrebbero esigere la cancellazione dai programmi scolastici di gran parte della storia dell’arte e dell’architettura, di fondamenti della letteratura come Dante (su cui peraltro si basa la lingua italiana: cancellata anche questa?) o Manzoni, di gran parte del programma di storia, di interi repertori di musica classica e di tanta parte del programma di filosofia.
Infatti tutta la nostra cultura è così intrisa di cristianesimo che doverla studiare a scuola dovrebbe essere considerato – stando a quei giudici – un attentato alla libertà religiosa. In lingua ebraica le lettere della parola “italia” significano “isola della rugiada divina”: vogliamo cancellare anche il nome della nostra patria per non offendere gli atei? E l’Inno nazionale che richiama a Dio?

Perfino lo stradario delle nostre città (Piazza del Duomo, via San Giacomo, piazza San Francesco) va stravolto? Addirittura l’aspetto (che tanto amiamo) delle vigne e delle colline umbre e toscane – come spiegava Franco Rodano – è dovuto alla storia cristiana e ad un certo senso cattolico del lavoro della terra: vogliamo cancellare anche quelle?

Ma non solo. Come suggerisce Alfredo Mantovano, “se un crocifisso in un’aula di scuola è causa di turbamento e di discriminazione, ancora di più il Duomo che ‘incombe’ su Milano o la Santa Casa di Loreto, che tutti vedono dall’autostrada Bologna-Taranto: la Corte europea dei diritti dell’uomo disporrà l’abbattimento di entrambi?”
Signori giudici, si deve disporre un vasto piano di demolizioni, di cui peraltro dovrebbero far parte pure gli ospedali e le università (a cominciare da quella di Oxford) perlopiù nati proprio dal seno della Chiesa?

Infine (spazzata via la Magna Charta, san Tommaso e la grande Scuola di Salamanca) si dovrebbero demolire pure la democrazia e gli stessi diritti dell’uomo (a cominciare dalla Corte di Strasburgo) letteralmente partoriti e legittimati (con il diritto internazionale) dal pensiero teologico cattolico e dalla storia cristiana?
La stessa Costituzione italiana – fondata sulle nozioni di “persona umana” e di “corpi intermedi” (le comunità che stanno fra individui e Stato) – è intrisa di pensiero cattolico. Cancelliamo anche quella come un attentato alla libertà di chi non è cattolico?
E l’Europa? L’esistenza stessa dell’Europa si deve alla storia cristiana, se non altro perché senza il Papa e i re cristiani prima sui Pirenei, poi a Lepanto e a Vienna, l’Europa sarebbe stata spazzata via diventando un califfato islamico.
Direte che esagero a legare al crocifisso tutto questo. Ma c’è una controprova storica. Infatti sono stati i due mostri del Novecento – nazismo e comunismo – a tentare anzitutto di spazzare via i crocifissi dalle aule scolastiche e dalla storia europea.
Odiavano l’innocente Figlio di Dio massacrato sulla croce, furono sanguinari persecutori della Chiesa e del popolo ebraico (i due popoli di Gesù) che martirizzarono in ogni modo e furono nemici assoluti (e devastatori) della democrazia e dei diritti dell’uomo (oltreché della cultura cristiana dell’Europa e della civiltà).

Il nazismo appena salito al potere scatenò la cosiddetta “guerra dei crocefissi” con la quale tentò di far togliere dalle mura delle scuole germaniche l’immagine di Gesù crocifisso.
Non sopportavano quell’ebreo, il figlio di Maria, e volevano soppiantare la croce del Figlio di Dio, con quella uncinata, il simbolo esoterico dei loro dèi del sangue e della forza. Lo stesso fece il comunismo che tentò di sradicare Cristo dalla storia stessa.

Se le moderne istituzioni democratiche europee si fondano sulla sconfitta dei totalitarismi del Novecento, non spetterebbe anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo considerare che la tragedia del Novecento è stata provocata da ideologie che odiavano il crocifisso (e tentarono di sradicarlo) e che i loro milioni di vittime si ritrovano significate proprio dal Crocifisso?
Non a caso è stata una scrittrice ebrea, Natalia Ginzburg, a prendere le difese del crocifisso quando – negli anni Ottanta – vi fu un altro tentativo di cancellarlo dalle aule: “Non togliete quel crocifisso” fu il titolo del suo articolo.

Scriveva:
“il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? (…) Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano”.
La Ginzburg proseguiva:
“Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo… prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini… A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola”.
Con tutto il rispetto auspichiamo che pure i giudici lo apprendano. “Il crocifisso fa parte della storia del mondo”, scrive la Ginzburg.

Infine il crocifisso è il più grande esorcismo contro il Male. Infatti non è il crocifisso ad aver bisogno di stare sui nostri muri, ma il contrario. Come dice un verso di una canzone di Gianna Nannini: “Questi muri appesi ai crocifissi…”. Letteralmente crolla tutto senza di lui, tutti noi siamo in pericolo.
Per questo potranno cancellarlo dai muri e alla fine – come accade in Arabia Saudita – potranno proibirci anche di portarne il simbolo al collo, ma nessuno può impedirci di portarlo nel cuore. E questa è la scelta intima di ognuno. La più importante.


giovedì 5 novembre 2009

Via il crocifisso? E allora abolite il calendario, la Domenica, gli ospedali, le università...



Un divertente articolo di Andrea Tornielli ci aiuta a far luce sull'abissale ignoranza della Corte di Strasburgo.

tratto da Il Giornale.it
di Andrea Tornielli

Caro Direttore,
la sentenza della Corte di Strasburgo mi ha finalmente aperto gli occhi. L’Italia deve svegliarsi dal suo medioevale torpore e imparare dalle avanguardie europee. Diciamola tutta: è l’ora di finirla con quest’Italietta cattolica, con questo Paese di campanili, con il frusciar di tonache pretesche e d’ingerenze cardinalizie a ogni piè sospinto.

Finalmente c’è un giudice a Berlino che riconosce l’inaudita violenza alla quale sono stati sottoposti fin dalla fondazione dello Stato unitario generazioni di studenti, costretti a incrociare con lo sguardo svogliato, quei due pezzi di legno inchiodati al muro. È ora di liberarsi da questi fardelli del passato, la cristianità è tramontata, la Repubblica è laica, i cristiani tengano i crocifissi in casa o in chiesa, non pretendano di imporli a scuola e negli uffici in pubblici né tantomeno nelle aule di giustizia dove vengono giudicati i poveri cristi.

La battaglia per la libertà dal giogo della religione è però appena cominciata. Questo è soltanto un primo, timido ma necessario passo. Te ne suggerisco qualche altro. Non basterà abolire, come tu stesso hai ricordato, il simbolo della Croce Rossa su fondo bianco, ormai tradizionale emblema delle istituzioni ospedaliere. Bisognerà porre la questione ormai irrinunciabile, del computo del tempo. Ti pare corretto che io, laico, sia costretto per un’assurda convenzione d’antan a calcolare gli anni dalla data nascita di un ebreo marginale e irrilevante, venuto al mondo in un villaggio agli estremi confini dell’Impero romano? Ti pare giusto che io debba riferirmi a quella nascita ogni qual volta spedisco un’email, scrivo una lettera, pianifico una vacanza o leggo un giornale? Sopruso insopportabile: son costretto a riferirmi a Gesù ogni santo giorno e più volte al giorno. L’Europa dovrebbe studiare un calendario veramente laico e condiviso, che faccia piazza pulita di queste convenzioni religiose di parte. Si potrebbe ricominciare a contare gli anni dalla fondazione di Roma (ma i laziali saranno d’accordo?) o meglio inventare una data di partenza ex novo.

E poi, vogliamo parlare della domenica? Si continua a chiamarla così, vale a dire dies Domini, giorno del Signore, e sono costretti a festeggiarla tutti, anche i non credenti, quando è risaputo che in questo giorno si ricorda la resurrezione del suddetto ebreo marginale nato in Giudea un paio di millenni fa. Perché favorire quei cattolici (sempre meno), che usano di quel giorno per le loro pratiche religiose di precetto? Noi laici dovremmo ribellarci, e chiedere all’Europa di istituire il fine settimana il martedì (non il mercoledì, sennò favoriamo quelli che vanno all’udienza del Papa), equidistante sia dalla domenica cristiana sia dal venerdì islamico e dal sabato ebraico. Non parliamo poi di feste quali il Natale o la Pasqua, così smaccatamente cristiane. Basta con l’ipocrisia di trasformarle in feste dei buoni sentimenti o della primavera: si aboliscano. E i cristiani che vogliono andare a messa si prendano un giorno di ferie.

Ancora. Vogliamo finirla con le scuole pubbliche e le vie intitolate ai santi? Perché mai una scuola statale dovrebbe chiamarsi «Francesco d’Assisi»? La famiglia benestante potrebbe risentirsi, non ritenendo quello di San Francesco un modello in linea con la new economy, come pure potrebbe non essere d’accordo la famiglia del cacciatore, che agli uccellini e ai lupi preferisce sparare piuttosto che parlare. E i troppi affreschi esposti in luogo pubblico, così irritanti per il loro contenuto ostentatamente religioso? E i campanili che svettano fastidiosamente, impossibili da non notarsi, anche quando si percorre l’autostrada? Non si potrebbero oscurare con appositi pannelli? Chi pensa ai miei diritti di laico quando passeggiando per i sentieri di montagna m’imbatto in quelle edicole con l’effigie della Madonna (la madre dell’ebreo marginale di cui sopra)? E perché in cima alle montagne ci si deve andare per forza a piantare una croce?

Infine, bisognerà pur affrontare anche il problema di certi simboli matematici. Il segno del «più», lo sanno tutti, è una croce bell’e buona. Anche il segno del «per» lo è, infatti quella è la forma della croce di Sant’Andrea. Troviamo un’alternativa, per non offendere i laici che impegnati in un calcolo algebrico, potrebbero perdere la loro concentrazione soffermandosi su quel segno. Un segno che li potrebbe distrarre, ricordando le crociate, le battaglie contro gli arabi musulmani ai quali dobbiamo, tra l’altro, proprio i numeri che utilizziamo ogni giorno. Forse in nome della laicità, e per non sembrare di prendercela solo con i cristiani, sarebbe meglio abolire pure i sincretisici numeri indo-arabici e tornare ai vecchi numeri romani. Mi fermo qui, perché ho già scritto troppo, per l’esattezza LXXIX righe.