martedì 29 ottobre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - La concreta tenerezza di Gesù (TESTO)



LA CONCRETA TENEREZZA DI GESÙ – don Luigi Maria Epicoco

Grazie di cuore per questo invito, grazie per la santa ostinazione con cui è stato preparato questo
incontro e voluta la mia presenza. Io purtroppo ci sarò per un pezzettino di questa giornata,
perché dovrò rientrare subito a Roma, ma sono felice di essere qui a condividere questo
momento di preghiera, riflessione, spiritualità; contento di incontrare voi e di farlo in questo
fazzoletto di terra così di cui ho sentito tante volte parlare, e in cui, oggi, riesco ad essere
fisicamente. Grazie perché penso che non poteva esserci posto migliore di questo per parlare
della tenerezza. Lo capiremo da subito. Vorrei iniziare questa meditazione usando non parole
mie, ma prendendo in prestito le parole di un uomo straordinario morto qualche mese fa, si
chiamava Jean Vanier ed ha dedicato la sua vita a testimoniare la tenerezza di Dio, fondando una
comunità che si chiama ARCA, che ha come scopo quello di farsi vicino soprattutto agli ultimi,
intesi come coloro che hanno gravi handicap e sono lasciati soli e vivono una solitudine e un
disagio che li tocca profondamente, perché sono scartati dalla società. Per loro ha creato questa
“famiglia”, perché quando si fa l’esperienza di questo tipo di sofferenze o ci si incattivisce, e il
dolore tira fuori il peggio di noi, oppure la sofferenza ci rende profondamente più sensibili. Cioè
è la sofferenza che ci apre alla tenerezza e ci insegna cos’è. La tenerezza non è una cosa che si
può spiegare con una conferenza, non è un discorso che si può ascoltare; è un qualcosa che ha a
che fare non tanto con le virtù teologali, con quello che abbiamo ricevuto nel nostro battesimo,
no, è una caratteristica dell’umanità che si apprende ad un certo punto della vita, perché c’è
qualcosa che ce la insegna esperienzialmente. Ma partiamo dalle parole di J. Vanier, un uomo
che è certamente santo per la sua testimonianza. Di solito quando pensiamo ai santi pensiamo a
persone staccate dagli altri o comunque a persone che non sbagliano mai; ma i santi non sono
persone prive di difetti o di carattere, i santi sono persone che, pur sbagliando, tentano di essere
cristiani fino in fondo, cercano di realizzare quella pagina di Vangelo che dice che una luce
accesa non può restare nascosta, deve essere messa in alto affinché illumini tutta la stanza. Nella
nostra vita cristiana, la carità è il tentativo di mettere in alto la luce della fede, affinché illumini
tutta la stanza. La grande tentazione che noi cristiani viviamo è quella di avere la luce della fede,
accesa dal cero pasquale, dalla Luce del Cristo Risorto, ma di usarla solo per noi, o di tenerla
nascosta, al chiuso del nostro cuore. Il Signore, invece, ci ha donato la fede affinché illumini la
stanza, ed è questo il motivo per cui va messa in alto, è questo il motivo per cui una fede che non
diventa carità è una fede che finisce. Un tentativo, dicevamo, e i tentativi non sempre sono
sinonimo di riuscita, ma ci si prova, perché la carità è il tentativo di rendere visibile ciò che il
Signore ci ha messo nel cuore. Scrive J. Vanier: “Nel libro della Genesi leggiamo che sulla terra
c’era così tanta violenza che Dio rimpianse di aver creato gli esseri umani (Gn 6,6). Così ci furono
il diluvio e l’Arca di Noè. La storia della terra è una storia di violenza; la terra è piena di violenza.
Perché tanta violenza? Perché bisogna essere più forti, i più forti per sopravvivere. Allora respingo
Dio ed elimino gli altri, per guadagnarmi la terra. Basta guardare i tifosi di calcio o quando i
canadesi battono gli americani a hockey! Diventano tutti matti: bisogna vincere ad ogni costo,
bisogna essere i più forti! Allora costruiamo frontiere e sistemi di difesa e creiamo tutto un
mondo fatto per proteggerci dalla violenza che noi stessi produciamo. Il che non vuol dire che non
ci siano stati anche dei profeti di pace nella Bibbia. La storia del popolo ebraico è una storia di
grandi profeti che hanno annunciato l’alleanza. Dai tempi dell’alleanza con Noè, Dio ha promesso
di non sterminare più l’umanità e di darle la pace. Gli ebrei attendevano un messia forte. Il popolo
ebraico aveva patito l’oppressione, prima dei persiani, poi dei greci e infine dei romani. La terra
d’Israele era piccola, ma ricca, e vari imperi volevano possederla. Per circa 700-800 anni, il popolo
aveva subìto la dominazione di nemici che lo facevano soffrire. Perciò dal messia Gesù ci si
aspettava la liberazione. Verso la fine della vita di Gesù, ci fu infatti una progressiva delusione
anche tra i discepoli a lui più vicini. Ma Gesù non è venuto solo per liberare Israele, è venuto per
liberare anche me, dalle mie violenze, dal desiderio di essere migliore degli altri calpestandoli.

All’Arca, abbiamo lavorato con uno psichiatra, un uomo eccezionale. Non era credente, ma era
profondamente umano. Un giorno sono andato a trovarlo e gli ho chiesto: «Secondo te, che cos’è
la maturità umana?». E lui mi ha risposto: «È la tenerezza». Perché la tenerezza è l’opposto della
violenza. È un atteggiamento del corpo: degli occhi, delle mani, del tono di voce. Consiste nel
riconoscere che l’altro è bello e nel rivelarglielo. Ma con il nostro corpo, attraverso la nostra
maniera di ascoltarlo, le parole che gli rivolgiamo. Gesù è venuto a insegnarci la tenerezza. È
l’atteggiamento che permette di accogliere l’altro e di vivere in relazione con lui. Ma poi c’è
l’esperienza della paura. Ho paura che l’altro mi schiacci. Per questo il cuore del messaggio di
Gesù è: amate i vostri nemici! «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite
coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male» (Lc 6,27-28). È incredibile.
Gesù è probabilmente la prima persona nella storia dell’umanità che osi chiederci una cosa così
impossibile. Perché lo sappiamo tutti che è impossibile. Se venite a sapere che qualcuno parla
male di voi, dietro alle vostre spalle, provate a dire bene di lui! Non ci riuscirete. Vi si gonfieranno
le ghiandole, proverete ma... niente da fare! Perché la vita protegge la vita. Ci difendiamo. E se ci
arriva una pietra addosso, reagiamo eccome, ci proteggiamo! Se qualcuno cerca di schiacciarmi,
io mi difendo! A meno che... Dio stesso non ci dia un difensore!” Ecco, mi è piaciuto, oggi, iniziare
da queste parole, che dicono che la tenerezza è qualcosa che riguarda il nostro corpo. Cosa
significa? Che quando noi diciamo che Gesù è la tenerezza del Padre, stiamo dicendo che
l’Amore di Dio è un Amore di cui possiamo fare un’esperienza fisica, concreta, e finché l’amore
non diventa qualcosa di fisico e di concreto non serve. Possiamo leggere il Vangelo e accorgerci
di quanta fisicità c’è nel Vangelo. Ad esempio: raramente sono citati i 10 comandamenti, sì, ci
sono, ma la cosa che conta di più è l’incarnazione, cioè l’atto con cui il Verbo di Dio è entrato
nella storia, si è fatto carne, è entrato nel grembo di una donna, è stato partorito, Maria ha
potuto tenerlo in braccio, Giuseppe ha potuto baciarlo, i pastori hanno potuto adorarlo; è Gesù
stretto ha abbracciato, ha stretto mani, ha guardato negli occhi, ha parlato, ha sorriso, ha pianto.
La fisicità di Gesù è la cosa più interessante della sua persona perché, se a Cristo togliamo il suo
corpo ciò che resta è teologia, è morale, è insegnamento, ma la vita di una persona non cambia se
incontra un insegnamento, la vita di una persona cambia quando incontra qualcuno. Dobbiamo
sempre domandarci se il cristianesimo lo abbiamo incontrato in teoria o lo abbiamo incontrato
nella persona di Gesù, se lo abbiamo incontrato nella morale che abbiamo dedotto dai vangeli o
come il Volto concreto di qualcuno che da quel momento in poi ci ha spinto a vivere
diversamente. Il grande esame di coscienza che tutti noi dovremmo avere il coraggio di fare è se
il nostro essere cristiani è mai diventato esperienza o se è rimasto catechismo. Io penso che il
bello, il cuore della nostra spiritualità sia questo: annunciare, attraverso il nostro stare insieme,
attraverso la nostra esperienza ecclesiale, che finché l’amore di Cristo non diventa esperienza,
questo amore non ci cambia la vita. Allora possiamo dire che finché non incontriamo la
tenerezza di Gesù noi non abbiamo una vita cambiata, cioè finché non incontriamo la
concretezza di Gesù noi non abbiamo la vita cambiata. E allora sono andato a cercare nei vangeli
gli episodi che possono essere utili per capire cos’è questa tenerezza, questa concretezza di Gesù,
che si esprime attraverso gli occhi, le lacrime, le mani. Incontrare e vivere la tenerezza di Gesù
significa anzitutto incontrare e vivere la tenerezza dei suoi occhi. Nel Vangelo ci sono soprattutto
due episodi che ci permettono di capire questa cosa. Il primo è quello di quel giovane che va a
cercare Gesù per chiedergli “Maestro che cosa devo fare per avere la vita eterna? Che cosa devo
fare per essere felice?” E Gesù dà una risposta da manuale: “Fa’ il tuo possibile”, mettiti in gioco
con il tuo possibile. Solo se ci mettiamo in gioco col nostro possibile possiamo chiedere a Gesù
qualcosa di più. Se tu non fai il tuo possibile e chiedi che Gesù ti aiuti, stai chiedendo una magia
non la grazia di Dio ecco perché Gesù risponde a questo ragazzo: fai quello che tu puoi fare con
le tue forze. Chissà quante volte Gesù aveva detto questo alla gente, chissà quante volte Gesù
aveva detto questo a tanti altri giovani che gli avevano fatto la medesima domanda; ma questo
ragazzo spiazza Gesù perché Gli dice: Maestro il mio possibile io lo faccio da quando sono

bambino, da quando sono piccolo. A questo punto c’è un pezzetto del vangelo che capovolge la
scena, quando si dice: Gesù fissatolo lo amò e gli disse “una sola cosa ti manca: va’ vendi tutto
quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi. Guardate io penso che non ci sia descrizione
migliore di questo sguardo che Gesù rivolge a questo ragazzo, di questo suo guardarlo negli
occhi. Voglio portarvi a fare una piccola riflessione: quando parlate alle persone le guardate negli
occhi? Sapete che quando una persona ha difficoltà relazionali ci si accorge di questo
dall'incapacità che ha di fissare occhi negli occhi la persona con cui sta parlando; questa
potrebbe essere una fragilità, una debolezza; a volte invece non guardare negli occhi qualcuno è
il sintomo dell'indifferenza. Gesù guarda negli occhi questo ragazzo, cioè lo prende sul serio. Il
mondo ha bisogno di persone che siano capaci di prendere sul serio gli altri! Noi molto spesso
anche con le persone che vivono in casa con noi, le persone con cui condividiamo la nostra
quotidianità, siamo incapaci di guardarci negli occhi di una tenerezza spicciola che è quella di
prenderle sul serio: l'unica cosa che cambia la vita delle persone è quando si sentono prese sul
serio per ciò che sono, cioè quando tu le guardi negli occhi perché soltanto quando tu guardi
negli occhi qualcuno puoi anche chiedergli qualcosa di serio. E’ quello che fa Gesù con questo
ragazzo prima lo guarda negli occhi e poi gli dice ti manca una cosa, ti manca un motivo per cui
dare la vita, e tu ti accorgi di aver trovato il motivo per cui dare la vita quando hai trovato il
motivo per cui daresti via tutto; è bello pensare che il vangelo ci domanda “cose esigenti”, è
radicale il vangelo. Però, prima di “chiedere” ci dice che Gesù ci guarda negli occhi. Voglio
lasciarlo dopo come il primo tassello, la prima traccia, la prima orma della tenerezza: essere serio
di tenerezza significa guardare negli occhi il fratello che ho accanto, Dobbiamo lasciarci
intercettare dal suo sguardo e intercettarlo a nostra volta e non evitare di guardarlo per paura di
cosa può chiederci. Immaginate che questo piccolo gesto venga a mancare, ad esempio quando
in casa un marito non guarda più negli occhi la moglie o viceversa, quando un figlio non guarda
più degli occhi la madre o una madre non guarda più un figlio,quando un collega al lavoro non
guarda più gli occhi della persona che gli siede accanto, quando in una comunità non si guarda
più negli occhi il fratello che abbiamo accanto. Facciamo cose cristianissime, ma abbiamo
smesso di guardarci negli occhi, cioè abbiamo perso l'alfabeto base, il minimo sindacale che ci
rende cristiani. Allora noi possiamo fare anche atti eroici in nome di Gesù Cristo, ma ci siamo
persi la cosa più semplice, tu puoi preparare il cibo migliore per tuo figlio, ma la cosa che vuole
quando torna a casa è che lo guardi negli occhi e cioè che ti accorgi che esiste, che è una persona.
Ora tenete a mente quanto sia prezioso lo sguardo perché adesso passiamo ad un altro episodio.
Questa volta ci troviamo in un momento drammatico della vita di Gesù perché gli scribi e i
farisei stanno cercando di trovare un pretesto per farlo fuori, per accusarlo di qualcosa. E un
giorno si presenta l'occasione opportuna, perché beccano una donna in flagrante adulterio.
Questa donna ha sbagliato e non c'è niente che dica che non ha sbagliato o che le persone
hanno frainteso, ha sbagliato e viene portata davanti a Gesù col pretesto di domandarGli: Mosè
ci dice di ammazzare questa donna, tu che dici? Sapete qual è la prima reazione di Gesù? Non
guardare la donna, ma fissare lo sguardo a terra e mettersi a giocherellare con la sabbia e a scrive
sulla stessa. Perché fa questo? Perché tutti la guardano e la giudicano guardandola; Gesù è
l'unico che per non umiliarla non la guarda. Ecco allora che ci sono sguardi che dicono l'amore e
sguardi che dicono il giudizio; noi dovremmo imparare gli sguardi che dicono l'amore e dovremo
astenerci dagli sguardi di giudizio, perché per giudicare qualcuno non c'è bisogno di usare
parole, lo si fa già nel modo in cui lo si guarda. Sapete, una saggezza antica ci ha sempre detto
che gli occhi sono lo specchio dell'anima. La prima tenerezza che Gesù usa è la tenerezza del suo
sguardo, Gesù si accorge della sofferenza, si accorge di coloro che hanno bisogno, si accorge di
chi è umiliato, e a seconda delle situazioni fissa nel profondo o si astiene dallo sguardo, la sua è
davvero una tenerezza concreta e palpabile!! Vorrei concludere questa questa prima tappa, che è
la tappa dello sguardo. con questa domanda: ci siamo mai sentiti guardati da Gesù?

Guardate che una persona può dire di essersi sentita guardare da Gesù quando s'è sentita
guardare senza maschere, senza fingere di essere un'altra persona. Noi possiamo dire che
abbiamo incontrato l'amore di Cristo quando davanti a questo amore siamo stati noi stessi senza
vergogna, senza paura, senza l'ansia di sentirci giudicati. Ma attenti, perché molto spesso noi
confondiamo lo sguardo di Gesù con lo sguardo del diavolo, che è lo sguardo dell'accusatore che
c'è nel cuore di ciascuno di noi. Noi abbiamo paura di mostrarci per ciò che siamo perché
abbiamo paura di essere giudicati; uno può dire di avere incontrato la misericordia quando
davanti a Gesù ha smesso di fingere per essere pienamente se stesso. Dico piccolo esempio
quanta difficoltà noi facciamo delle nostre confessioni ad essere spudoratamente sinceri, perché
abbiamo paura di scandalizzare la persona che ci sta ascoltando, abbiamo paura che la persona
che ci sta ascoltando si faccia un'idea sbagliata o distorta di ciascuno di noi, quasi mai ad
esempio, sacramentalmente, abbiamo il coraggio di essere così: puliti, sinceri, di togliere le
nostre maschere. Uno può dire di aver fatto l'esperienza di misericordia se guarda il modo con
cui si confessa ad esempio. A me è capitato una volta, ero un seminarista gli ultimi anni prima
dell'ordinazione, sono entrato in una chiesa, cercavo un padre che mi dicevano essere un uomo
di Dio e io ho detto “Padre penso che sia arrivato il momento di fare una confessione generale”;
beh, una cosa bella prendere tutta la vita e consegnarla al Signore attraverso quel sacerdote!
Bene, questo Padre mi si è seduto di fronte e mi ha detto: “Se avrai il coraggio di parlarmi dei
tuoi peccati anche fuori dalla confessione, allora sarai pronto di ricevere il perdono di Dio nella
confessione”. E sapete perché? Perché se io me stesso lo rivelo nella confessione, ho la
rassicurazione che non lo dirà a nessuno; significa che io ancora non mi fido, io ancora non mi
fido di aprire me stesso all'amore di Dio anche se in una persona degna di fiducia. Ecco: questo
grande lavoro di lasciarci guardare per come siamo, e di lasciarci guardare da Gesù. E più noi ci
lasciamo guardare con questo sguardo, più il nostro sguardo diventa segno di tenerezza, perché
se tu non ti sei sentito guardato così, è difficile guardare gli altri allo stesso modo!| Ecco così la
prima declinazione della tenerezza: la tenerezza degli occhi di Gesù!
Per la seconda tenerezza ci manteniamo sempre nella geografia del volto: è la tenerezza delle
lacrime. Avete mai pensato al fatto che Gesù ha pianto? Lui, il Figlio di Dio, quello che faceva i
miracoli, moltiplicava i pani e i pesci, Colui che sarebbe risorto, Colui che ha fatto dei segni
grandissimi dentro la sua vita, proprio Lui, davanti alla sofferenza di alcune persone, ha pianto.
Anche in questo caso voglio riportarvi due episodi, per farvi comprendere che cos'è la tenerezza
di Gesù attraverso le sue lacrime. Il primo episodio è legato al trauma di perdere un figlio. Gesù
un giorno si sta recando in un villaggio che si chiama Nain e si trova ai piedi del monte Tabor;
mentre si sta recando in questo villaggio, incrocia una processione funebre, c’è una vedova che
sta accompagnando al cimitero il suo unico figlio. Il vangelo dice che Gesù, vedendo quella
donna, pianse, si commosse profondamente e fermò quella processione.
Ora fermiamoci un attimo, non andate subito al miracolo. Il primo vero grande miracolo che
tante volte noi non riusciamo a fare entrare dentro la nostra vita è che Gesù prima di dare una
soluzione alla nostra sofferenza è uno che condivide la nostra sofferenza, Gesù è uno che sa
quello che stiamo soffrendo, perché Lui ha deciso di sentirlo da dentro, di coinvolgersi nella
stessa angoscia, nello stesso vuoto, nello stesso spaesamento. Gesù è entrato nella storia, non
conosce più la mia vita da fuori, la conosce da dentro, allora se voi sapete che nessuno può
capirvi, per fede noi crediamo invece che Gesù può capirci, perché Lui sa la sofferenza che noi
stiamo vivendo, la conosce, non rimane indifferente, non si limita semplicemente a dire “adesso
ti do una soluzione a questa sofferenza”, perché il primo grande dramma che vive una persona
che soffre è che si sente non capita nella propria sofferenza, e che per quanto possa spiegare agli
altri quello che sta provando, si sente sola. Uno fa esperienza della misericordia di Dio quando si
ricorda che in quello che non riesce a dire, in quello che non riesce a condividere con gli altri, in
quello che sta soffrendo nel profondo del cuore, Gesù c’è, Gesù lo vede, Gesù lo ha preso su di sé.
Io non sono solo quando soffro! Guardate che se noi ci ricordassimo di questo troveremo anche

la forza di soffrire, perché certe volte non c'è via d'uscita alla sofferenza, certe volte bisogna
semplicemente attraversare la sofferenza, e Gesù attraverso le sue lacrime ci dice che la tenerezza
non è innanzitutto risolvere la sofferenza, ma condividere la sofferenza. Ora portiamo questa
tenerezza di Gesù nei confronti di questa donna nella nostra vita di ogni giorno. Pensate a tutte
le persone a cui vogliamo bene e che sono malate, pensate che noi possiamo avere sempre la
parola giusta per una persona che soffre, pensate che noi abbiamo la soluzione ai problemi che ci
circondano, ma il Signore non ci ha chiesto di far questo, ci ha detto ridi con chi ride e piangi
con chi piange; noi allora siamo capaci di tenerezza quando siamo capaci di condivisione,
quando siamo capaci di non scappare davanti alla sofferenza delle persone, di stare con loro, di
sentire con loro, di non abbandonarli, di non amplificare la loro sofferenza lasciandole da sole.
La tenerezza è l'esorcismo della solitudine, perché la tenerezza scaccia via la solitudine di chi
soffre perché la riempie di compagnia. Tu piangi, io piango le tue stesse lacrime; tu sei nella gioia
io gioisco della stessa gioia. E invece molto spesso sapete cosa succede? Che quando una persona
soffre tutti scappano e che quando una persona è nella gioia scatta l'invidia degli altri; in
entrambi i casi c'è solitudine. (applausi) Allora a una persona gli è capitata una cosa bella e ha
paura di condividerla, a una persona gli è capitata una cosa brutta e tutti si sono nascosti. Noi
diamo seguito a questa tenerezza dell'amore di Dio quando non disertiamo la vita degli altri,
quando non lasciamo soli gli altri. Poi questo episodio si conclude in questo modo: Gesù ferma
la processione, tocca quella bara e chiama di nuovo questo figlio alla vita, lo prende per mano e
lo restituisce alla madre.Ora, quanto dura il tempo che va dalla condivisione del dolore alla
restituzione della persona che è perduta? Quanto dura, tre minuti, dieci minuti, dieci anni, 20,
30, 40, 50, forse tutto il resto della nostra vita? Non è importante, la nostra fede è sapere che
mentre soffriamo Gesù è con noi, con la promessa che alla fine di questo viaggio ci restituirà ciò
che ci è stato tolto. Questa è la fede nella desolazione: non è vedere subito, ma sapere che se
anche subito io sto soffrendo alla fine di questo viaggio l'episodio si conclude con la restituzione
di quel figlio, la restituzione di ciò che ci è stato tolto. Il secondo episodio è il famosissimo
episodio della risurrezione di Lazzaro. Anche qui la scena è strana, perché gli dicono che l'amico
sta soffrendo ma Gesù non ci va, anzi si incammina verso casa sua solo quando l’amico ormai è
morto e quando le sorelle vanno da Lui a fare rimostranze, dicendoGli “se Tu fossi stato qui
queste cose non sarebbero successe”. Vedete fratelli miei, quante volte le nostre preghiere sono
uguali a questa? Signore, se Tu avessi messo una mano non ci troveremmo in questa situazione!
Guardate che il vangelo ci racconta queste preghiere perché nessuno di noi si vergogna a fare le
stesse preghiere, a fare le stesse rimostranze al Signore! Quando Gesù arriva davanti al sepolcro
di Lazzaro, il Vangelo di Giovanni dice che scoppiò in pianto e tutti dicevano “vedi quanto lo
amava”. E’ una cosa che mi ha sempre molto colpito un istante dopo Gesù risusciterà Lazzaro,
perché piange? Avete mai voluto bene a una persona fino al punto di soffrire nel vedere quella
persona infelice? Tu vuoi bene a qualcuno, a un figlio ad esempio, che va per una strada
sbagliata e tu hai tentato tutti i modi a fare qualcosa per lui, ma poi non ci sei riuscito, e per
quanto tu dica a te stesso “mettiti l'anima in pace” c'è una parte di te che non si rassegna, che
soffre, perché tu vorresti vedere felice quella persona! Gesù ha provato su di sé l’impotenza
davanti a un finale che non si può cambiare, Gesù ha provato che cosa vive una persona quando
ama qualcuno e non può fare più niente. Solo allora interviene e lo risuscita. Queste due cose
sono sempre unite in Gesù. Sapete che cosa certe volte non ci fa vivere bene il nostro
cristianesimo? noi cristiani non accettiamo il fallimento, noi cristiani non accettiamo
l'esperienza della impossibilità: ma se ho pregato, ma sé ho fatto il bene, perché quella persona
non è guarita dal cancro? Ma se mi sono impegnato, ma se abbiamo pregato tutti, perché siamo
arrivati fino al punto che adesso non si può cambiare più niente? Quante volte ci siamo trovati in
questa situazione, quasi a voler dire che il nostro cristianesimo non funziona, perché se
funzionasse avrebbe dei risultati. Ma che cos'è essere cristiani se non accettare anche le cose che
non si possono cambiare? Essere cristiani significa abitare anche l'impotenza e l'impossibilità! Vi

faccio un esempio per farvi capire che in maniera la tenerezza di Gesù ci aiuta a vivere
l'impotenza e l'impossibilità. Ancora una volta un papà, si chiama Giairo, la figlia sta morendo.
Implora Gesù di andare a casa sua. Gesù va a casa di quest'uomo e mentre sta andando a casa i
servi gli vanno incontro e dicono a Giairo “lascia perdere questo maestro, perché tua figlia ormai
è morta”. In quel momento, dice il vangelo, Gesù guarda negli occhi Giairo e gli dice “tu continua
soltanto ad avere fede”. Allora vedete fratelli miei noi siamo cristiani non perché non abbiamo
l'esperienza dell'impossibilità, siamo cristiani quando tentiamo di continuare ad avere fede
anche quando non possiamo fare più niente, quando siamo disposti a credere nonostante tutto
ci dica che ormai non c'è più niente da fare; essere cristiani è sperare contro ogni speranza, è
tirare fuori la nostra fede proprio nel momento in cui tutto dice che non vale più la pena credere.
La tenerezza di Dio è condividere l'impotenza e dare fiducia e fede proprio nel momento in cui
sembra che tutto è perduto. “Sembra” che tutto è perduto ma ricordatevi che le mani di Dio
sono sempre più grandi delle nostre mani! Ecco quindi che arriviamo al terzo e ultimo elemento
che ci racconta la tenerezza di Dio: le mani! Gesù ha usato tantissimo le mani nella sua vita! E’
andato contro a quella che era tradizione ebraica, perché le impurità si prendevano proprio
attraverso il tocco, ad esempio non si poteva toccare un malato, non si poteva toccare un morto,
non si poteva toccare il sangue, non si poteva toccare alcuni cibi perché erano impuri, e quindi
un pio religioso doveva tenere le mani in tasca, non doveva toccare le cose. Ma voi sapete che
toccare significa stabilire una relazione; ebbene, Gesù dice che noi dobbiamo imparare a stabilire
una relazione con le cose, anche quando, paradossalmente, quelle cose non convengono; e
diversi episodi ci raccontano la concreta carità che passa attraverso le mani di Gesù. Papa
Francesco ci dice che un buon cristiano è un cristiano che sa usare bene la testa, il cuore e le
mani, perché non basta usare solo la testa se poi non si usa il cuore, e non basta usare solo il
cuore se poi non si usano le mani e viceversa. Bene, diversi episodi hanno a che fare proprio con
le mani di Gesù. Un giorno un ragazzo malato di epilessia non riesce ad essere guarito dai
discepoli di Gesù, il padre si rivolge a Gesù chiedendo la grazia di vedere il figlio guarito e Gesù
lo libera da questo demonio che gli dà come sintomo l'epilessia; dice il vangelo che questo
ragazzo a un certo punto sembrava come morto, allora Gesù presolo per mano lo rimise in piedi.
Lo tocca Gesù, perché lo fa? Perché soltanto una relazione può salvarti! Questa è la grande
rivoluzione di Gesù! Il male che cosa fa? Fa ammalare le nostre relazioni, il male rompe le nostre
relazioni; Gesù è uno che cerca di costruire relazioni e proprio lì, dove tutto dice che non ne vale
la pena, Lui costruisce una relazione per salvarti da quella solitudine che tu soffri; Gesù
costruisce una relazione per salvarti da quella sofferenza; tu sei in una situazione difficile della
vita, Gesù costruisce una relazione per tirarti fuori da quel pantano. Che cos'è l'inferno fratelli
miei? E’ rompere le relazioni, per questo il termine diavolo, nella sua etimologia più profonda,
significa colui che divide, colui che rompe. Gesù invece, nella sua natura più profonda, è colui
che unisce colui che crea di nuovo comunione. Un altro episodio che mostra la tenerezza di Gesù
in maniera altissima e sublime è l'episodio del cieco che viene portato da Gesù. Quando Gesù
incontra questo cieco, dice il vangelo che lo prese per mano e lo condusse fuori dal villaggio.
Forse in mezzo a noi c'è qualche fratello non vede. Bene, quante volte a questi nostri fratelli
diamo il braccio o la mano per aiutarli a camminare ora immaginate; immaginate per un attimo
che in un momento della nostra vita siamo noi a non vedere, perché viene a mancare la luce e
vorremmo qualcuno che la accenda. Ora, Gesù non è quello che accende la luce è quello che ti
accompagna nel tuo buio perché tu possa fare un'esperienza di intimità con Lui. La guarigione
non è tanto tornare a vedere, la guarigione è non rimanere fermi nel buio. Questa è la
guarigione, per questo dice il vangelo che Gesù presolo per mano lo condusse fuori dal villaggio.
E perché lo conduce in disparte? Perché sta costruendo con lui una relazione di intimità! Allora
immaginate che i momenti della nostra vita in cui noi non vediamo più, sono quelli che possono
farci vivere la disperazione oppure possono farci entrare in una profondissima intimità con il
Signore. Sono proprio questi i momenti in cui il Signore ci dà la mano e ci conduce a una

relazione di intimità e lì opera il miracolo che tutti noi conosciamo, cioè fa del fango con la
propria saliva lo mette sugli occhi quest'uomo toccandoli e gli ridona la vista. La scena non è
proprio romantica, eppure ditemi che cos'è l'intimità se non questo. Gesù vuole dire che se noi
non entriamo con Lui in un'intimità così, non riceveremo mai quella guarigione interiore che
stiamo cercando; se vivessimo così i sacramenti, se capissimo che l'eucaristia, la confessione,
altro non sono che quella saliva di Gesù che ci tocca e ci guarisce, e che prendere il suo corpo il
suo sangue è entrare in una disarmante e totale intimità con Lui, questo dovrebbe cambiarci la
vita! La stessa cosa Gesù la fa col sordo-muto: gli tocca la bocca, la lingua e le orecchie. E poi
Gesù tocca i bambini. Sapete, anche i bambini non erano visti di buon occhio nella società
contemporanea a Gesù, eppure Lui dice “lasciate che i bambini vengano a me”, tocca i bambini,
benedice i bambini. Altre volte, poi, è Gesù che si lascia toccare. Pensate all’emorroissa, che
tocca Gesù e guarisce, pensate alla prostituta che tocca i piedi di Gesù e Simone il fariseo rimane
scandalizzato perché Gesù si lascia toccare da una così; ma anche i discepoli toccano Gesù:
Giuda lo bacia, è l'ultimo ad avere un rapporto profondo, intimo, concreto con Gesù a poche ore
dalla sua morte; e Gesù si lascia baciare da Giuda. E poi le folle che gli fanno ressa intorno che lo
stringono, che lo abbracciano e lo toccano: ecco io credo che qui ci sia tutta la vita cristiana, che
diventa tenerezza quando noi ci lasciamo toccare da Gesù e lo tocchiamo a nostra volta! Ora, se
dovessimo dire come si realizza questo nella nostra vita, se cioè volessimo comprendere qual è il
luogo dove possiamo toccare Gesù ed esserne toccati, la risposta è: nella preghiera! Noi
preghiamo veramente solo quando ci lasciamo toccare da Lui, l'autentica preghiera non è dire
delle cose, l'autentica preghiera non è adempiere un precetto, l'autentica preghiera non è la
religiosità con cui tante volte noi pensiamo che stiamo pregando; noi preghiamo veramente
quando permettiamo a Gesù di toccarci. Quindi la messa ci cambia la vita solo se la intendiamo
come il momento in cui Gesù tocca i nostri cuori e le nostre vite. Andare a messa perché è un
precetto non ti salva la vita, te la salva andare a messa perché Gesù, in quell’Eucaristia, possa
toccarti. Pensare di dire 100.000 rosari perché in questo modo la madonna ci ascolta non serve a
nulla, se però il rosario è il modo attraverso cui ci lasciamo toccare da Dio attraverso Maria,
allora quel rosario ci cambia la vita; se l'adorazione è lasciarci guardare da Lui, allora
quell’adorazione ci cambia la vita. La cosa che dovremmo chiederci è se noi concepiamo o no la
preghiera come il modo concreto attraverso cui il Signore tocca la nostra vita, perché se noi non
ci lasciamo toccare la vita nella preghiera tutto quello che stiamo facendo è una recita, non è
l'incontro con Qualcuno che ci salva la vita. Sarebbe bello tornare a casa dopo questa giornata e
ripensare le nostre pratiche religiose in quest'ottica, perché dovremmo andare all'adorazione per
lasciarci toccare da Lui che ci guarda, perché dovremmo leggere il vangelo per lasciarci toccare
dalla Sua Parola, perché dovremmo andare a messa per lasciarci toccare dal suo corpo e dal suo
sangue, perché dovremmo pregare il rosario per lasciarci toccare da Sua Madre, che colei che ha
prestato a Gesù la carne e il sangue. E così qualunque cosa che a che fare con la preghiera è
rivoluzionaria se è l'esperienza della tenerezza di Gesù, cioè l'esperienza di lasciarci toccare da
Lui. E al contrario, invece, qual è il modo di toccare noi Lui? Se la preghiera è il modo attraverso
cui Lui tocca a noi, è la carità la maniera attraverso cui noi tocchiamo Lui. Se noi non capiamo
che la carità non serve a star meglio, che la carità non serve a tenere a posto la coscienza, che la
carità non è una moda, non abbiamo capito nulla. Il vostro vescovo ha detto che la carità è il
cuore stesso del messaggio cristiano: noi abbiamo un Dio che è Padre, che però si è fatto anche
Figlio e si è consegnato nelle nostre mani. Il Gesù che ci tocca nell’Eucaristia per guarirci è lo
stesso Gesù che vuole essere soccorso, amato, abbracciato, custodito, confortato, riconosciuto
nel fratello che ho accanto. La carità è il modo attraverso cui la nostra vita spirituale diventa
reciprocità. Noi abbiamo bisogno di imparare la reciprocità nell'amore! Se la preghiera è il modo
attraverso cui noi permettiamo a Gesù di amarci, la carità è il modo attraverso cui noi amiamo
Lui; separare queste due cose significa fare ammalare il cristianesimo, se noi separiamo la
preghiera dalla carità, la nostra preghiera è narcisismo, la nostra preghiera non porta da nessuna

parte, la nostra preghiera è semplicemente una questione privata; se separiamo la carità dalla
preghiera, dobbiamo stare attenti, perché magari stiamo strumentalizzando la sofferenza degli
altri per stare bene noi e anche questo non aiuta! Preghiera e carità sono il modo attraverso cui la
tenerezza della misericordia di Dio entra nella nostra vita. Bene, vorrei lasciarvi esattamente con
questa con questa suggestione. Sono partito dall'inizio attraverso le parole di J. Vanier dicendo
che la tenerezza è dare corpo all’amore, e vi ho anche detto che forse la spiritualità della divina
misericordia è tale proprio perché cerca di salvare la concretezza dell'amore di Cristo. Se noi
pensiamo che il culto alla divina misericordia si riduce semplicemente a un orario, a una
preghiera, ad a una formula, questo significa essere caduti in quella grande trappola che il
diavolo ci tende per tenerci lontani dall’essenziale. Quella preghiera, quel rito, quell'orario,
quella memoria, sono tali solo e soltanto se ci spingono ad amare di più; se non ci stanno
spingendo ad amare di più, significa che noi non stiamo pregando. La grande prova del nove
della nostra preghiera è la carità, è la carità l'unica maniera attraverso cui noi possiamo
professare la nostra fede.
Signore Gesù, come posso fare a dirti grazie, come posso fare ad abbracciarti,come posso fare a
baciarti, a confortarti, come posso fare a lenire la tua solitudine? Attraverso il fratello o la sorella;
tutte le volte che ti inginocchierai davanti alle piaghe chi è ferito, di chi soffre, di chi è solo, tutto
quello che avrai fatto a uno di questi fratelli lo avrai fatto a me.
Allora voglio lasciarvi così, con questo ampio sguardo su preghiera e carità: sono questo il modo
attraverso cui la tenerezza di Dio ci salva e salva il mondo, perché non avrebbe senso lasciarsi
salvare se poi anche noi non salviamo gli altri. Per concludere questa mia riflessione vorrei
invitarvi a imparare questo, è un invito che faccio innanzitutto a me, che ho molta difficoltà,
perché posso essere bravo a scrivere un libro, ma ho difficoltà a usare il mio corpo nell'amore:
ricordatevi che ciò che cambia la vita delle persone è capire che soltanto quando le cose si
toccano possono davvero essere rivoluzionarie; dovremmo tornare al corpo del cristianesimo
innamorandoci del Corpo di Cristo, che è nell'eucaristia, nel povero e nel sofferente. Grazie

venerdì 18 ottobre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - Credere oltre (o nelle) ferite? (AUDIO + VIDEO)

Don Luigi Maria Epicoco - Fede che nasce dal disincanto

Don Luigi Maria Epicoco - Note e silenzi

Don Luigi Maria Epicoco - Il Sangue di Cristo fondamento della vita cris...

Don Luigi Maria Epicoco - A partire dai desideri (testo)





La maggior parte del benessere della nostra vita non viene da quello che indossiamo ma da ciò che ci portiamo dentro e, mettere le mani al dentro, significa molto spesso cambiare il fuori, la percezione della vita stessa che noi abbiamo. Quindi, il discernimento diventa qualcosa di assolutamente necessario perché ci aiuta a prendere in mano davvero la bussola della nostra vita e, vorrei dire, senza essere eretico, non serve innanzitutto a capire la volontà di Dio come se essa fosse la risposta che stiamo cercando alla nostra domanda, ma serve a fare una cosa che il salmo indica così “Alla tua luce, Signore, vediamo la luce”. Quando ci avviciniamo alla luce inevitabilmente diventa visibile anche il nostro volto: scoprire questa luce dentro di noi, fare esperienza di questa luce che è seppellita nel buio dentro ciascuno di noi, significa rivelare davvero chi siamo, perché noi non possiamo aggiungere una virgola alla gloria di Dio ma è quest’ultima che aggiunge tutto alla nostra esistenza.
Accedendo questa luce dentro di noi ci siamo accorti che, fondamentalmente, sarebbe possibile parlare di tante cose ma ho scelto due parole chiavi, dividendo la roba che si trova dentro questa cantina in due grandi gruppi: il gruppo delle emozioni ed il gruppo dei sentimenti. Le emozioni come reazioni immediate all’impatto con la realtà ed i sentimenti, invece, come qualcosa di più strutturato, sono l’interpretazione che noi diamo di quello che proviamo, della vita: sono i sentimenti che strutturano la nostra esistenza. Quando tu vivi in maniera emotiva, cioè vivi di pancia, vai cercando stimoli che ti facciano sentire vivo, che – appunto – ti emozionino; i sentimenti, invece, sono un po’ la ramificazione del nostro vissuto e, cercare i sentimenti, significa cercare il pensiero di fondo che guida un po’ la nostra esistenza, nel senso che a noi interessa il pensiero che c’è dietro il sentire. Questo possiamo farlo comportandoci come quelle persone che, andando al mercato, si avvicinano alla bancarella della frutta e la toccano con le proprie mani, per cercare di capire che frutto sia perché, a volte, non basta osservare  e riflettere ma bisogna sviluppare una capacità di tocco interiore. In questa proposta di divisione tra emozioni e sentimenti, il punto di partenza è rappresentato dai desideri che sono il primo alfabeto che Dio usa per parlarci; anche i desideri possono dividersi in due gruppi importanti: il desiderio nella sua sostanza ed il desiderio nel suo immaginario.
Ciascuno di noi, quando desidera qualcosa, si crea anche un immagine di ciò che desidera però, quando poi arriva la realtà, deve rinunciare al suo immaginario proprio perché sta arrivando la realtà: se tu rimani aggrappato all’immaginario, cioè se non ti lasci deludere, se non lasci che crolli il tuo immaginario, i tuoi desideri non possono mai veramente realizzarsi. Credo di aver già scritto da qualche parte che Dio, molto spesso, per ascoltare le nostre preghiere, deve deluderci perché deve deludere il nostro immaginario: questo è l’unico modo, esattamente come un genitore ascolta un figlio e riesce a capire che cosa sta domandando. Facciamo un esempio pratico per cercare di capire che legame si può trovare: tempo fa ero a Roma, da amici di infanzia che adesso sono sposati ed hanno un figlio piccolo, eravamo un gruppetto e, ad un certo punto, mentre noi cenavamo e si scherzava, passando il tempo insieme, il bambino ha cominciato a giocare in modo sempre più rumoroso, poi ha cominciato a tirare le macchinine, poi a distruggere i binari del trenino, poi gettare la sedia. Il bambino stava giocando ma, dietro a questo, c’era un messaggio cioè nessuno sta pensando a me. Allora, se un genitore si fermasse semplicemente a dire di non fare rumore, starebbe soltanto corrispondendo al simbolico; un buon genitore è uno che fa come ha fatto la mamma del piccolo che si è girata, l’ha guardato ed ha detto “Hai ragione, nessuno ti sta pensando, vieni qua, mi metto a giocare io con te”.
 Il significato è che bisogna cogliere sempre quello che c’è alla base di ciò che esprimiamo: noi abbiamo un immaginario simbolico ma, chi ci ama, sa leggere dietro quell’immaginario. Ecco, i desideri sono fatti di un immaginario ma c’è una sostanza di fondo che possiamo conoscere noi ma che, certamente, il Signore la guarda e la prende sul serio.  Noi, spesso, per paura di rimanere delusi,  smettiamo di desiderare e pensiamo che essere adulti significhi rassegnarsi; invece, il punto di partenza vero di una vita interiore, di una vita spirituale, di un discernimento sono i desideri perché essi ci dicono molte cose di noi. Quindi, dobbiamo essere disposti ad attraversare i nostri desideri, a prenderli sul serio e a saperli decifrare perchè, ad un certo punto, dopo che siamo arrivati alla radice di tutto, a guardare in faccia i sentimenti (cioè le cose che strutturano la nostra vita), incontriamo il pensiero che c’è dietro. Questo pensiero è suggerito da almeno tre fonti: può essere un pensiero che viene da Dio; un pensiero che viene dal male; un pensiero che viene dalla nostra storia, da quello che abbiamo vissuto.
Allora, ci sono pensieri che sono buoni, pensieri cattivi e pensieri che, in realtà, sono ferite: noi dobbiamo avere la capacità di capire di quale pensiero si tratta e, soltanto dopo che abbiamo capito di che natura è quel desiderio, possiamo anche prendere una decisione. Se è da Dio prendere la decisione di assecondare quel pensiero, se è dal male di agire contra cioè di contrastarlo, di reagire, se è una ferita di prenderla sul serio e di lasciare che questa ferita possa essere guarita. Il discernimento è cercare di capire chiaramente che cos’è che sta strutturando la nostra vita, se è qualcosa che viene da Dio, qualcosa che viene dal male o dalle ferite della nostra storia.
Come si fa? Per fare sintesi, sarà necessario schematizzare e l’idea dello schema è una indicazione che cerco di dare perché poi c’è una messa in gioco che ciascuno di noi deve provare a fare dentro la propria vita. Ricordo una volta che è venuto da me un ragazzo dicendo di volere imparare a pregare e mi chiese come si facesse; io ho risposto che, per imparare a pregare, bisogna pregare. Questo ragazzo mi ha detto “Sì, questo lo sapevo, io sono venuto appositamente…”: guardate che io, che di mestiere faccio il filosofo, dò sempre un peso alle parole, cioè non ci rendiamo conto che ci sono cose che non si capiscono prima concettualmente e poi le si fa, ma le si comprende mentre le si sta facendo. 
Allora il discernimento lo capisci mentre tenti di farlo, la preghiera la comprendi mentre provi a pregare, la macchina riesci a guidarla mentre tenti di portarla, uno può spiegarti qual è la frizione, l’acceleratore, il freno, le luci, le frecce ma, tutte queste informazioni, non ti danno niente rispetto alla guida perché la guida è tentare di guidare. Infatti, la prima cosa che succede, solitamente, è che spegni la macchina perché sbagli, o acceleri troppo, o perché fai una retromarcia che non dovevi fare ed è in questo tentativo che uno impara a fare qualcosa. Se voi volete imparare a fare discernimento, allora dovete tentare a fare questo; ma c’è una regola generale? C’è qualcosa che può aiutarci, che ci fa capire da quale parte la cosa giusta o sbagliata o la ferita? Sì, tutto questo ce lo ha insegnato uno straordinario conoscitore dell’animo umano, della vita spirituale, un uomo che aveva fatto dell’osservazione delle dinamiche che ci portiamo dentro il caposaldo della sua spiritualità: S. Ignazio di Loyola.
S. Ignazio può aiutarci con la sua proposta che poi sono diventati i famosi esercizi spirituali. Avete mai pensato perché si chiamano così? Uno si sveglia la mattina e dice di dover fare un quarto d’ora di footing perché fa bene, di dover fare una buona colazione, di dover fare del movimento fisico cioè si dà un ordine affinchè questa cosa crei il beneficio per il fisico. Allo stesso modo, dice Ignazio, una persona dovrebbe avere un metodo nella sua vita spirituale: così come ti prendi un quarto d’ora per fare footing, così dovresti prendere un quarto d’ora per la tua vita spirituale. Come si fa? Ecco, gli esercizi spirituali. Uno degli scopi degli esercizi spirituali è prendere delle decisioni importanti a partire proprio da un discernimento che uno ha fatto dentro se stesso.
Se il bene agisce come bene, il male agisce come male e la ferita agisce come sofferenza tutto sarebbe molto semplificato; invece, abbiamo che il bene agisce come bene, il male si traveste da bene e la ferita spesso è inespressa cioè non la sentiamo subito come dolore ma come disagio. Quindi, uno deve cercare di capire se, questo bene che si sta toccando in questo momento, è un bene vero o taroccato. Gesù ci viene incontro: se un albero è buono o cattivo non si riconosce dalle foglie ma dai frutti; e cosa sono i frutti? I frutti non sono i risultati ma sono la qualità di qualcosa. I frutti buoni Ignazio li chiama la consolazione, i frutti cattivi Ignazio li chiama la desolazione.
Che cos’è la consolazione? E’ il fatto che tu avverti dentro di te che un bene è un bene perché avverti gioia, pace, benevolenza, mitezza, dominio, tutti i frutti che ci racconta S. Paolo. La desolazione, invece, ti fa sentire tristezza, angoscia, senso di colpa, giudizio, buio, tenebra. Qui dovrebbe sembrarci abbastanza facile: se io sento pace, gioia, appagamento questo è un frutto di consolazione e, quindi, alla base c’è un bene; se io sento tristezza, rancore, odio, divisione, questa cosa viene dal male. Ma è sempre così? No. Ciascuno di noi si trova davanti ad una vita che è complessa, non lineare, per cui succede ad esempio che tu stai passando un momento della tua vita dove apparentemente hai tutto, salute, famiglia, lavoro ma sei profondamente egoista, sei completamente allontanato da Dio, sei concentrato su te stesso: nella vita tu riesci e, quindi, hai molte soddisfazioni, sei molto sazio, però dentro di te si fa spazio un’angoscia, una tristezza. Quella angoscia, quella tristezza è lo Spirito che sta spingendo dentro di noi; a volte, il Signore, per farci svegliare da quello che stiamo vivendo, ci manda esattamente una desolazione cioè un modo che ci dice…guarda che tu sei sazio ma non felice…guarda che tu hai tutto ma ti manca tutto…guarda che tu hai tutto sotto controllo ma sei insoddisfatto. Quell’ angoscia che ti sale dentro non è negativa ma è quella che ti salva la vita, è l’angoscia che ti fa svegliare e ti fa chiedere per che cosa stai vivendo. Gesù, per raccontarci quanto possa essere drammatica una storia del genere, ci racconta di un uomo che lavorando – non rubando – e concentrandosi tantissimo su se stesso, accumula grano al punto che ne ha così tanto che demolisce i granai e ne costruisce di più grandi; raccoglie tutto questo grano, senza preoccuparsi di niente e di nessuno, se non di accumulare. Ad un certo punto, quando tutto è pronto ed i granai sono zeppi, quest’uomo dice “Anima mia, adesso godi perchè potrai usufruire di grandi beni” ma Gesù dice “Stolto, questa notte stessa ti verrà chiesta la vita e tutto quello che hai raccolto di chi sarà?”.
E’ uno svegliarsi in maniera traumatica  però è un’educazione che, a volte, a noi manca: per che cosa stiamo vivendo? Stiamo vivendo per accumulare? Ma tu pensi che quella roba lì, alla fine, ti renderà felice? Che ti porterai dietro quelle cose? Che cos’è che rimane davvero? Che cos’è che conta dentro la nostra vita? Allora una persona che ha tutto, può sentire che gli manca la cosa più importante; quest’angoscia che si fa spazio dentro di lui è l’angoscia che gli salva la vita: la vita spirituale per lui è la tristezza che gli rovina la sazietà perché, grazie a quella desolazione, lui può svegliarsi. Allora il pensiero che lo rende triste è il pensiero che gli sta salvando la vita, è Dio che gli sta mandando quella desolazione.
Esattamente il contrario: tu puoi vivere una situazione profondamente difficile, per esempio affrontare la malattia di una persona a cui vuoi bene, vivere in situazioni in cui non hai nessuna certezza e le cose continuano ad andare solo male. Mi viene in mente un incontro a cui ho partecipato a Roma, in un teatro pieno di gente, in cui si ricordava un bambino di nome Filippo morto di cancro, i cui genitori hanno dato una testimonianza bellissima di come ha vissuto la malattia insieme a loro, e la cosa che colpisce è che tutto andava  a rotoli, le analisi erano sballate, non si trovava una cura, non si riusciva a salvare la vita, dovevano sentirsi inermi davanti ad un figlio per il quale non potevano più fare nulla, schiacciati dall’impotenza. Ci sono tanti motivi per cui essere tristi, desolati, disperati; eppure c’è una cosa stranissima perché, proprio in quel momento in cui tutto è difficile, trovi dentro te una forza che non sai da dove viene, una pace che non sai da dove viene…ti scendono le lacrime perché non vuoi che tuo figlio muoia ma, allo stesso tempo, c’è dentro di te una serenità nel vivere quella cosa drammatica. Che cos’è lo Spirito se non quella pace che si fa spazio dentro di noi in un momento in cui tutto dice esattamente il contrario.
Quindi, non sempre il bene va con la consolazione ed il male con la desolazione, certe volte le cose si incrociano; noi dobbiamo andare sempre alla radice per capire di che bene o di che male, di che consolazione o di che desolazione.
Ora, per capire la qualità della consolazione o della desolazione, ciascuno di noi deve essere molto leale con se stesso. Nessuno può fare discernimento se, innanzitutto, non è sincero se stesso. Ricordo una volta in cui il mio confessore mi raccontò che andò un sacerdote  molto bravo che passava un momento di profonda crisi; quando uno vive questi momenti entra in desolazione. Allora c’è anche una modalità particolare che si chiama la notte oscura, è la notte dei Santi: pensate a Madre Teresa che viene chiamata a fare questo ministero e  poi il Signore per 50 anni la lascia da sola, non le fa sentire la Sua presenza, è come se l’avesse completamente abbandonata. Questo è un livello altissimo di misticismo in cui c’è una purificazione di fondo del cuore delle persone, anzi passare attraverso la notte oscura è il livello più alto della vita interiore. Quindi, questo sacerdote dice al confessore di stare male, di essere triste e di credere di stare nella notte oscura; il confessore l’ha guardato come per dire…ti riconosci come mistico da solo!...E gli chiede…ma da quanto tempo non ti confessi?...Era tipo ottobre e risponde il sacerdote…Da maggio…Nessuna notte oscura allora, dice il confessore, magari prova a confessarti!
Questo episodio lo racconto per dire che capita di dire che magari sia il Signore a metterci una tristezza perché vuole dire qualcosa, ma non è il Signore! Sei tu che non apri le finestre per far cambiare l’aria pulita cioè noi, soprattutto nel discernimento, siamo tentati dal fatalismo; per esempio, mentre stavo scrivendo è caduta la penna….Hai visto come è caduta la penna? Allora il Signore mi vuole dire che proprio perché è caduta la penna lì, in quel modo, allora mi sta invitando…ecc… Questo fatalismo è pericolosissimo per noi perché è come l’oroscopo: gli facciamo dire alla realtà quello che vogliamo però diciamo che è l’oroscopo. Tu, oggi, leggi l’oroscopo che ti dice che sarà una giornata orribile ma incontrerai l’amore della tua vita e sarai molto felice…Sì in qualche modo ci azzecca perché dice un po’ tutto e il contrario di tutto, quindi, alla fine, per forza qualcosa la indovina! Quando ci portiamo questa cosa nella vita spirituale diventa brutto perché facciamo dire a Dio cose che Dio non ha mai detto! Dio parla poco ma bene e te ne accorgi che è Lui perché aumenta la tua libertà, la tua vita aumenta, viene centuplicata. Quando ci caliamo dentro noi stessi, dobbiamo renderci conto di questa cosa, di non ammalarci di fatalismo, di renderci conto, invece, che c’è una desolazione che dipende da noi e c’è una consolazione che può dipendere anche da noi; confondere la consolazione con delle “magre consolazioni” che ci creiamo umanamente e che crollano subito.
Quando uno riesce a diventare più affine a quello che si porta dentro, riesce a rendersi conto se quella tristezza è una tristezza che gli sta facendo fare un esame di coscienza o una tristezza che, invece, ti vuole rovinare le cose belle; se è una tristezza che viene dalla nostra storia o in quella tristezza, invece, è Dio che ci sta parlando. Te ne accorgi perché, quando è Dio, Dio non umilia mai, magari soffri, ma è una sofferenza che aumenta il desiderio di vivere; quando, invece, aumenta il desiderio di morte (e ci sono tanti modi per desiderare la morte, chiudersi) quella non è una tristezza che viene da Dio, non è una tristezza che ci dice il bene. Quindi c’è una tristezza che ci aiuta a fare un esame di coscienza, magari ti fa male ma tu ti accorgi che, grazie ad essa, tu torni a desiderare la vita, a dire di non voler essere più quella persona ma un’altra persona, più grande, libero. Quando, invece, provi una tristezza che ti inchioda in qualcosa e ti fa crescere un desiderio di morte non viene da Dio e devi agire contro, perché anche se pensi che ti sta dicendo una cosa vera è il demonio a farlo: il demonio ci dice sempre cose vere, non dice bugie (che sono storie inventate) ma menzogne cioè ci fornisce una chiave di lettura sbagliata delle cose. La tristezza ti sta dicendo che tu non vali niente e tu pensi sia vero perché la tua vita dice questo: questa, però, è la verità dell’accusatore non dello Spirito.  Pensiamo alla tristezza che prende il figlio minore nella parabola del figliol prodigo quando dice “Quanti salariati in casa di mio padre hanno da mangiare ed io sto invidiando i maiali”: è un discernimento che lui fa sulla realtà; poi c’è il discernimento sbagliato nella notte della passione: da un lato il discernimento positivo di Pietro il quale capisce di aver sbagliato dopo aver incontrato lo sguardo di Gesù, dall’altro lato Giuda che rimane ostaggio di quella tristezza e si toglie la vita. La medesima tristezza in uno lo fa convertire, nell’altro lo porta al suicidio. 
Noi sappiamo fare questa differenza ad esempio? Sappiamo, nella nostra preghiera, sperimentare che cos’è che allarga o che restringe la vita? Dobbiamo capire che il male ci dice sempre la verità ma come menzogna cioè fornendoci la chiave di lettura sbagliata ma sappiate anche questo: solo Dio può agire sulla nostra anima, il male no! L’unica maniera che ha il male per agire nella nostra vita è il pensiero cioè suscita, dentro di noi, delle chiavi di lettura sbagliate; quindi, vi prego di vigilare tantissimo su ciò che pensate, non inginocchiatevi davanti al primo pensiero che vi passa per la testa perché, a volte, non sono pensieri buoni, di vita eterna ma di morte.
Ci avviamo alla conclusione adesso con una domanda: a cosa serve il discernimento? A fornire una risposta? Ecco, il famoso fatalismo è pensare che, da qualche parte ci sia un libro dove è contenuto tutto il copione della nostra vita: tu ti sposerai, avrai tre figli, ti farai prete…tutto scritto in un libro. Guardate che non è vero niente, la nostra vita non è scritta da nessuna parte.
Discernere non significa trovare una risposta ma costruire una risposta: esso serve a suscitare dentro di noi la risposta ma non c’è una risposta preconfezionata da qualche parte! Che cosa chiede il Signore a ciascuno di noi? Di tornare a casa da Lui ma, come tornarci, lo decidiamo noi insieme con Lui. Io, ad esempio, ho pensato ad un certo punto che un modo buono, visto come sono fatto,  di amarLo e di amare bene nella vita potesse essere il sacerdozio e l’ho scelto: ho scelto io, non era scritto da nessuna parte. Avrei potuto sposarmi ed avere dei figli e non sarebbe cambiato niente perché io sono chiamato a farmi santo non prete, sono chiamato a farmi santo non a mettere per forza al mondo dei figli. Lo so che è poco rassicurante perché, magari, è meglio pensare sia tutto scritto ma non è così!
Quello che abbiamo deciso, ad un certo punto, lo abbiamo deciso davanti a Lui: ecco abbiamo costruito questa risposta con Lui, davanti a Lui. Avete presente quando un bambino sta imparando a scrivere? E’ ovvio che se tu vuoi risolvere subito il problema dei compiti, dici al bambino di darti il libro e scrivi tu al posto suo. Questa, però non è una buona cosa perché è ovvio che io so fare 2+2 e ci metto un attimo e mio figlio ci impiega mezz’ora. Dio fa così con noi, perde tempo con noi nel discernimento affinchè noi diamo la risposta, non che ci mettiamo a scoprire ma a costruire. E, mentre costruiamo, scopriamo davvero. Che cos’è la volontà di Dio? E’ rispondere: questa è la volontà di Dio.
Che cosa mi stai domandando Signore? Di scoprire come si fa a rispondere davvero a quello che tu mi metti davanti, è tutto così unico ed irripetibile, così consegnato alla nostra libertà ed alla grazia di Dio. E’ più rassicurante pensare che noi non siamo liberi, che c’è qualcuno che ha deciso già al posto nostro o, peggio ancora, sentite la menzogna del demonio che ci dice che noi siamo soli con la nostra libertà e che, proprio perché soli, siamo paralizzati, non riusciamo mai a fare niente perché ci sentiamo soli.  Allora, se io riesco a decidere ed a fare qualcosa nella mia vita è perché so di non essere solo, è perché so di essere davanti a Qualcuno che mi ama  e so che il discernimento è sentire che Lui c’è, è sentire la Sua presenza e, davanti a questa Sua presenza, costruire una risposta : questo è il discernimento. E uno lo fa singolarmente, lo fa come famiglia… pensando agli amici di cui vi parlavo prima, cosa significa continuare a vivere dopo aver perso un figlio? Capite che si naviga a vista, il passo successivo da fare è una scelta e non sta scritto da nessuna parte, è una cosa che costruisci giorno per giorno facendo i conti con ciò che ti manca, con quello che soffri, ma anche un Dio che ti ama, un Dio che è lì e ti dice “Fidati, affidati”.
In questo incontro tra la Sua grazia e la nostra libertà vengono fuori le decisioni.
A che cosa serve fare discernimento? A decidere.
A che cosa serve pregare? A decidere. Uno che prega ma esce dalla preghiera senza una decisione, non ha pregato. Perché a questo serve la vista cristiana: a decidere qualcosa.
Possa il Signore donare a ciascuno di noi la grazia di un discernimento, la grazia di saper accendere la luce in questa zona così buia che ci portiamo dentro, dove troveremo tutti gli ingredienti necessari a tirar fuori dei capolavori. Vi faccio adesso un esempio che, secondo me, rende molto l’idea, io la chiamo la teologia di Mcgiver: non so se ricordate questo personaggio che da un chewingum, con una penna ed un orologio, tirava fuori una bomba. Noi siamo chiamati a fare la stessa cosa cioè dobbiamo fare capolavori con quello che c’è. A volte la nostra vita non ha tutto quello che dovrebbe esserci, non abbiamo cose belle e pronte ma cose molto contraddittorie tra loro; allora il discernimento è quella genialità attraverso cui sappiamo accostare cose contraddittorie e tirar fuori soluzioni intese come decisioni che contano. La nostra cantina può essere un caos o può essere, invece, una grande opportunità, ci sono cose nascoste che vanno scoperte, accostamenti nascosti che vanno scoperti, relazioni nascoste che vanno tirate fuori.
Vi accorgerete che, accendere la luce dentro di noi, non è così male: certe volte troviamo anche una via d’uscita.


mercoledì 9 ottobre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - Guarda avanti (testo)




Dal Vangelo di Luca (9, 57-62)“ Mentre andavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, concedimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio». Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio».
Questo stralcio del Vangelo di Luca è un passo decisivo perché parla della sequela, cioè dei modi attraverso cui noi possiamo seguire Gesù. L’evangelista Luca racconta tre modalità, tre situazioni diverse tra loro ma accomunate dal fatto che chi ci sta dietro, cioè i discepoli, sentono l’esigenza di seguire Gesù. Permettetemi di aprire una parentesi: il primo passo della fede è un far crescere dentro di noi il desiderio di capire, di conoscere, il desiderio di incontrare Gesù che - tradotto teologicamente -  è il desiderio di seguirlo. Nasce come curiosità, magari cominciamo a pensarci sempre di più ed a dire che, forse, non abbiamo usato la nostra fede fino in fondo o che, forse, quello che abbiamo pensato del Vangelo, non era proprio quello giusto…così comincia a crescere dentro di noi una voglia, un desiderio profondo di seguire Gesù: è una sorta di sete che cresce insieme con noi ed è importantissima. Questo passo del Vangelo di Luca inizia dopo che è nata questa sete dentro ciascuno di noi. E nasce per tanti motivi: per l’incontro con una persona, perché uno è folgorato da qualcosa, per una situazione di sofferenza, per una situazione di gioia ecc… Io, da sacerdote, ho avuto l’esperienza di veder nascere questo desiderio di incontrare Gesù, nelle salse più diverse.
A volte, però, tutto rimane un grande aborto cioè rimane un grande desiderio e basta. Dopo un po’ questo desiderio comincia a scemare perché, se tu non ci costruisci qualcosa sopra questo desiderio, esso finisce. Come dico spesso, l’innamoramento non per forza poi diventa amore, uno può essere innamorato e poi, ad un certo punto, finisce tutto; non è scontato che se io sono innamorato, quella cosa poi diventi amore. Allora, questa sorta di volano che ci dà la fede all’inizio – questo desiderio di conoscerLo – crea quello che si chiama  il discepolato. I discepoli chi sono? Quelli che imparano, quelli che vanno dietro ad un maestro ed il Vangelo di Luca, con questi pochi versetti, ci spiega le motivazioni più disparate attraverso cui una persona sceglie o meno o è scelta per andare dietro a Gesù.
Un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E’ bellissimo, è una dichiarazione assoluta di discepolato; io, davanti ad una cosa del genere, gli avrei detto “Grazie!”. Invece, Gesù è durissimo «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo»: fratelli miei, il problema è sempre lo stesso! Se tu segui Gesù perché vuoi avere una certezza, hai sbagliato: Gesù non è una certezza così come ce la immaginiamo noi, non è un rifugio, non è una soluzione, né qualcosa che ti mette al riparo della vita. Dici…Ho Gesù, sto tranquillo, posso pure evitare di vivere….Molti di noi è così che pensano Gesù, come la soluzione a tutti i loro problemi, come qualcosa che non ci costringe più a vivere perché la vita ci fa soffrire, ci fa stancare, abbiamo Gesù e, quindi, possiamo evitare di far questo. Ci convinciamo che Gesù sia questa certezza e che non abbiamo bisogno più di nessun cammino perché c’è Gesù e ci sembra pure devoto questo pensiero! Ma non è così….Gesù dice che il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo, ce l’hanno le volpi, ce l’hanno gli uccelli del cielo ma il  Figlio dell’Uomo ti costringe a camminare. Voglio farvi capire quanto sia importante questa cosa: immaginate che uno abbia il desiderio di arrivare da qualche parte e non sa camminare; allora, ha bisogno di qualcuno che lo prenda in braccio e lo porti a quella destinazione. Costui può dire “se trovo qualcuno che mi prende in braccio e mi porta lì, ho risolto il problema”: ma Gesù non è questo.
Gesù non è un paio di braccia che ci prendono, ci stringono e ci portano da qualche parte: Gesù è la precarietà di due gambe che devono imparare a camminare. E’ una certezza in cammino Gesù, non una certezza che ferma il cammino. Esattamente come se tu puoi arrivare da un posto all’altro in braccio a qualcuno o da un posto all’altro perché qualcuno ti insegna a camminare.
Immaginate i bambini che devono imparare a camminare, a stare in piedi sulle loro gambe: all’inizio faticano, cadono, fanno piroette ma poi, pian piano, imparano. Questa è la certezza di Gesù: ti fa stare in piedi sulle tue gambe, passando attraverso la precarietà di questa educazione, al cammino. Quindi, se tu pensi che Gesù sia la soluzione alla tua vita perché ti evita la vita, quello non è Gesù. Uno dice a Gesù…Adesso vengo da Te ed hai risolto il problema del mio dolore…no! Gesù, io vengo da Te ed hai risolto il problema della mia famiglia…no! Gesù, io vengo da Te ed hai risolto il problema che vivo dentro la mia esistenza per quella ferita…no! Tu vai da Gesù e, da quel momento in poi, inizia un cammino che ti porta da qualche parte, non qualcosa che ti evita quel cammino. Io diffido sempre da chi dice…Gesù mi ha liberato da un momento all’altro da questa cosa…Non è educativo questo e Gesù stesso non lo fa con i discepoli. Se leggete il Vangelo, vi accorgerete che il cammino che fa fare ai discepoli è esattamente un cammino, non gli dice tutto subito; quando incontra Pietro, Giacomo e Giovanni non li fa sedere e gli dice di essere il Figlio di Dio, che a Gerusalemme sarà crocifisso e che poi risorgerà il terzo giorno, in modo che si preparino per quello che accadrà tre anni dopo. Gesù non fa così, ma li prepara e gli dice qualcosa quando pensa che loro siano pronti. E’ troppo facile camminare quando c’è un papà che ti mantiene le mani, poi quel papà o quella mamma ti lasciano ma tu non vorresti per paura di cadere: però è necessario che lo facciano, altrimenti tu non impari a stare in piedi sulle tue gambe.
La fede esige da noi che impariamo a stare in piedi sulle nostre gambe, cioè esige che ciascuno di noi impari davvero ad essere libero. Non ci sono sconti nella fede; non è che siccome uno ha la fede, ha qualcosa di scontato anzi è il contrario: la fede rende tutto più esigente! Se al mondo non importa nulla che tu sei seduto in un angolo e passi l’esistenza lì, per la fede questa cosa è inconcepibile, è inconcepibile che uno stia chiuso in un nido o in una tana. Il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo quindi, se mi vuoi seguire, smetti di cercare rifugi nella fede.  E’ una conversione profondissima perché tutti noi abbiamo bisogno di rifugio, tutti noi abbiamo bisogno di pace, tutti noi abbiamo bisogno, ad un certo punto, di fermarci e vorremmo un guscio, un posto dove nasconderci. Una volta, andai a cena da una famiglia e mi rimase impressa la scena di uno dei figli piccoli perché i genitori mi raccontarono che, quando era stressato, si andava a mettere in un angolo tra il suo letto e l’armadio: lì si sentiva al sicuro, aveva bisogno di sentire qualcosa intorno a sé che lo proteggesse e, quell’angolo, era quel rifugio. Ecco, se tu pensi che la fede sia questo cioè un posto, nella stanza della tua vita, dove puoi andarti a rifugiare, non è così! Gesù è uno che viene in quell’angolo, ti prende e dice “Coraggio! Vieni fuori da qui! Torna in sala da pranzo…torna di nuovo a camminare, a vivere!”. Ecco perché Gesù risponde in modo esigente!
Seconda cosa… A un altro disse: «Seguimi». Questa è la cosa più bella della sequela: non tu che scegli di seguire Gesù ma Lui che chiede a te di seguirlo. Gesù cerca te e tu lo eviti, usando la vita. «Signore, concedimi di andare prima a seppellire mio padre»: chi di voi, con un po’ di cuore, non avrebbe concesso di andare a seppellire il padre? E’ un atto di carità, il Vecchio Testamento lo definisce un’opera di misericordia. Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va e annuncia il regno di Dio». Nella nostra vita ci sono cadaveri, zone d’ombra, parti della nostra storia che sono morte e, molto spesso, noi siamo ostaggio di queste parti morte della nostra vita. Ci sono cadaveri che non ci permettono di andare avanti: ferite, storie che abbiamo vissuto, dolori che ci hanno schiacciato, incomprensioni, tradimenti ecc…La nostra storia è piena di cadaveri che esigono che noi andiamo via da lì, che esigono di essere seppelliti. Soltanto che tu non riesci mai a seppellire davvero quei cadaveri! Cominci a fare la fossa, li metti un po’ dentro e poi rispuntano fuori, rigalleggiano dentro la tua vita. E tu dici…Signore, appena avrò risolto questo problema, comincerò a prenderti sul serio…Appena avrò chiuso questa mia ferita, allora comincerò a credere bene…Appena avrò superato il fatto che io mi sono sentito in quella maniera e, quindi, non riuscito ad andare avanti, ti seguirò…Dice Gesù “Smettetela di rimanere ostaggi dei cadaveri della vostra storia! Basta! Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”: cioè non vi fissate con delle cose che ormai sono accadute, non lasciate che quelle cose scelgano per voi, non rimanete ostaggi del passato. Significa questo: smettila di guardare indietro, se vuoi essere discepolo devi imparare ad andare avanti. Tu va ed annuncia il regno di Dio, guarda avanti, non guardare le tue ferite! Guarda avanti, non guardare quella cosa brutta che è successa! Lo sappiamo che è successo, lo sappiamo che c’è un morto ma che vogliamo fare? Vogliamo che quel morto diventi tutta la vita? Non è mancanza di carità da parte di Gesù, perché non sta dicendo di non avere carità nei confronti del padre, ma è come se Gesù stesse dicendo che bisogna accettare il fatto che quella cosa lì è morta e che bisogna liberarsi da questo. Il cadavere del padre  è il cadavere di una cosa che ha a che fare con la nostra storia, un pezzo importante della nostra vita da cui veniamo, da cui siamo stati messi al mondo, partoriti ed è questo il significato del cadavere del padre. Non si ha discepolato se tu rimani ostaggio del passato:….eh ma a me è successa questa cosa e non posso andare avanti…eh ma ormai io ho questa cosa quindi…. Tutte queste cose le ascolto nelle confessioni e le vedo anche con me: quante volte, nel leggere la Parola di Dio, dico al Signore di farmi superare un problema che magari mi porto dietro da quando ero bambino, così dopo potrò prendere sul serio qualcosa. E’ come se Gesù mi guardasse dicendomi “Ma basta con questa storia di quando eri bambino! Non sei più bambino, basta!”. Gesù dice questo non perché non vuole che io risolva quella storia ma perché non vuole che io ne rimanga ostaggio. Nessuno sta dicendo, quindi, che non dobbiamo prendere sul serio quello che ci è accaduto ma che, a volte, lo prendiamo talmente tanto sul serio che ne diventiamo ostaggi. Sì, consideriamo le nostre ferite, diamo un nome ai nostri cadaveri ma non passiamo la vita al cimitero: non possiamo rimanere ostaggi del passato.
Terza cosa. Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Io chiamo questa la disponibilità condizionata: si ti seguo ma fammi semplicemente congedare da quelli di casa. Potrebbe sembrare che non ci sia differenza tra questa situazione e quella precedente, invece, in realtà ce n’è molta: la prima sequela ci chiedeva di liberarci dall’idea di Gesù come una sicurezza che non ci fa camminare (Gesù è una sicurezza in cammino); la seconda ci chiedeva di liberarci dal nostro passato, smetterla di essere ostaggi del nostro passato ed andare avanti; la terza sequela è liberarci da rapporti che non ci fanno andare avanti.  E’ inutile negare che ci sono dei rapporti familiari – e per familiari non significa che si abbia lo stesso cognome – che sono molto dentro la nostra vita, che ci tengono in ostaggio e non ci aiutano ad andare avanti nella nostra vita. Il senso della risposta data in questo caso è quello di andare prima a congedarsi da casa per evitare che quelle persone ci rimangano male: noi siamo il capolavoro dei compromessi e, quindi, diciamo al Signore di volerlo seguire ma anche di voler tenere contenta una persona. Ecco il perchè della risposta di Gesù «Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio»: finchè si utilizzeranno gli accrocchi dei compromessi, non sarai libero. Devi trovare il coraggio di liberarti da alcuni rapporti che non ti fanno andare avanti perché, così come te li vivi, non sono rapporti liberanti, non sono rapporti di libertà che ti fanno diventare te stesso, non sono rapporti che ti aiutano a seguire Gesù.
Adesso vediamo un panorama della Parola meditata: mai farsi aspettative su Gesù pensando che ci eviti la vita, mai rimandare questo incontro con Gesù perché siamo ostaggi del passato, mai trovare compromessi in questo incontro con Gesù perché siamo ostaggio di alcuni rapporti. La libertà di camminare liberi da queste tre categorie: questa è la sequela vera, quella profonda, quella che ti fa accettare il fatto che il cammino  è sempre incerto, che puoi cadere, che i cadaveri ci stanno ma non devono decidere al posto tuo, che quella donna, quell’uomo, quell’amico o quella madre, quel padre o quel figlio esistono dentro la tua esistenza ma tu devi avere il coraggio di domandarti se questo rapporto ti sta facendo andare avanti o rimanere fermo. Ed è davvero amore rimanere lì fermo? E’ davvero una prova d’amore cercare sempre un compromesso in certi rapporti?
Quando il Signore ci domanda qualcosa, ricordate che ci dà anche gli strumenti per poter fare questo qualcosa: questo è un invito a non usare il fai da te. Torno a casa, rompo un piatto in testa al marito e gli dico che da oggi in poi non conta più niente per me e che mi devo liberare da lui: questo è il fai da te! Non dobbiamo fare questo ma, proprio per quello che abbiamo capito, dobbiamo cominciare un cammino  perché è sbagliato pensare che esista un mettersi in cammino che rinuncia alle certezze e questo Gesù lo sa tanto che, in certe giornate, le cose ce le fa capire ed in altre le cose sono un po’ più oscure. Anche noi abbiamo bisogno della carota, non andiamo avanti solo a bastone. E’ una utopia pensare di liberarsi del passato perché noi non possiamo mai essere completamente liberi dalla nostra storia, dobbiamo soltanto decidere che non abbia la parte preminente della nostra vita: se tu ti porti addosso la ferita di sentirti abbandonato, non è che ti svegli una mattina e, siccome vuoi seguire Gesù, di questa cosa non ne tieni più conto. Devi sempre domandarti però, anche se c’è quel cadavere, quanto sta decidendo al posto tuo. E’ utopico pensare di potersi liberare di tutti i rapporti che non fanno crescere; io stesso so che a mia madre posso dire delle cose fino ad un certo punto e che, da un certo punto in poi, non ci capiamo più. Non dico che lei non mi ama ma che se dovessi stare a tutto quello che, magari, mi dice mia madre, io non crescerei: allora, devo avere il coraggio di dire basta cioè non significa buttare via mia madre ma capire fino a che punto posso tenerla in considerazione e quando devo invece dire “Mamma stai là”. Certe famiglie vengono distrutte per l’ingerenza di altre persone che reclamano diritti di dover parlare sulla tua vita; voi sapere che va di moda o criticare il Santo Padre perché si chiama Benedetto XVI o acclamare il Santo Padre perché si chiama Francesco. In entrambi i casi non va bene, perché nessuno di noi può arrogarsi il diritto di dire come fare il Papa, uno può pure vivere in maniera tutta sua un pontificato ma tocca a lui scegliere come fare quella cosa, non devo dirglielo io! Invece, ogni tanto, ci sono questi maestrini che sanno come devi fare il prete, come devi fare la moglie, come devi fare il figlio o il marito e tutto viene mascherato dall’amore…Amici miei, se tu ti fidi che tuo figlio ha un cuore ed un cervello ed ha deciso di farsi schiacciare da quella donna è un problema suo, non tuo, non puoi costantemente ingerire nella vita di una persona anche se le vuoi bene. Niente ti autorizza ad esautorare la libertà di una persona in nome dell’amore. Se queste cose le subiamo, di solito, le facciamo anche; quindi, dobbiamo domandarci quanto siamo noi così, quanto siamo causa dell’ostaggio degli altri, quanto noi siamo cadavere nella vita dell’altro, quante volte noi ci poniamo come certezza per la vita dell’altro: amare però è aiutare l’altro ad usare la propri libertà, non usarla al posto dell’altro.
Gesù è uno che fa questo e ti dice che, se vuoi seguirlo, devi accettare questo: precarietà, libertà dal passato, libertà da rapporti che non ti fanno andare avanti. Questa è la sequela, questo è il cristianesimo: se una di queste tre cose non funziona o sei fermo o sei convinto di stare a camminare ma, in realtà, non è così.
…Da dieci anni offro al Signore questa mia ferita…Aspetta, stai offrendo al Signore questa tua ferita e poi?  Non hai fatto altro a parte fare offerta per dieci anni? Ma c’è un mondo oltre quella ferita ma ci siamo fissati che là è il problema e ci lamentiamo sempre…. Avanti, la vita va avanti e noi dobbiamo andare avanti con la vita e con Gesù che va avanti. Il Vangelo inizia con questa frase “Mentre andavano per la strada”: stavano camminando, Gesù è un treno in corsa e se lo perdi quel treno, arrivederci! Non sempre passano questi treni ma, quando passano, bisogna avere il coraggio di prenderlo altrimenti ci prende questo treno in pieno nel senso che viviamo la fede così male che, invece di tirare fuori il bene da quell’incontro, lo vivi come qualcosa che ti sta annullando, schiacciando.
Credo che queste tre tappe siano fondamentali per ciascuno di noi; allora, cosa possiamo fare? Domandarci in maniera leale che cos’è che andiamo cercando con la fede, che cos’è che ci tiene in ostaggio del passato, che cos’è che in alcuni rapporti non ci fa davvero andare avanti. Se prendiamo sul serio queste cose, amici miei, serenamente perché non possiamo risolvere tutto insieme ma ne verremo fuori, magari ci vorrà del tempo, il Signore ci dà tutto il tempo di cui abbiamo bisogno e, se non ci basta questa vita, ci dà pure un pezzo dell’altra. L’esistenza del purgatorio è una cosa bellissima perché, noi lo immaginiamo come un luogo di purga appunto, ma in realtà sono tempi supplementari: è come se Dio ti dice che, se anche non hai vinto la partita, ti dà ancora tempo per fare goal perché ci ama non per punirci. Il prolungamento del cammino anche nell’altra vita è segno di amore, non di punizione: certo è la punizione di voleva vincere la partita ed ancora non l’ha vinta, ma è l’adrenalina di una partita, non castigo. Se tu sai che sei figlio di Qualcuno che continua a darti minuti ed ad allungare la partita finchè non segni goal, che cosa vuoi di più dalla vita?
Chiediamo la Signore la grazia di poter vivere così questa sequela, la grazia di lasciarci guidare da Lui che deve stare sempre davanti a noi come Colui che guida il cammino e ti dice anche qual è il modo giusto di camminare.