domenica 15 settembre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - Amore sponsale che genera relazione (testo)



AMORE SPONSALE

che genera relazione

di Don Luigi Maria Epicoco






L’amore non è parlare bene dell’amore; l’amore, anzi, non ha niente a che fare con le parole. Ciò che si dirà non ha niente a che fare con l’amore vero perché l’amore vero è una scienza pratica, non è una cosa che si può praticare con le parole ma è una cosa che si fa. L’amore è un fatto, qualcosa che non è racchiudibile in nessuna dottrina, in nessun catechismo, in nessuna parola, in nessuna predica.

L’unica cosa che possiamo fare con le nostre parole o con la dottrina o con i nostri concetti è, semplicemente, indicare questo luogo concreto che è l’amore che è, appunto, una scienza pratica.

Credo che Paolo perda tempo nel declinare la carità, perché i cristiani di Corinto, come noi oggi, hanno (abbiamo) questo problema fondamentale di confondere gli sforzi sulle cose con le cose, di avere delle idee vaghe delle cose grandi della vita e di renderci conto che, le cose che contano, non sono le idee vaghe: l’amore non è un’entità astratta, l’amore universale non esiste. L’amore è sempre particolare: nessuno di noi campa di amore astratto! L’amore è quando tu incontri qualcuno, quando quell’amore diventa un volto, un nome, quando diventa un dettaglio: questo è il metodo di Cristo, di Dio Padre.

Dio Padre, per parlarci dell’amore, si è fatto dettaglio, si è fatto uomo. Ma non un uomo qualunque! Non è diventato semplicemente umano il nostro Dio! E’ diventato Gesù Cristo che è quel volto, che è quella persona, che è quel dettaglio.

Nell’indicazione di tutto questo, noi dobbiamo cogliere una lezione immensa: per parlare di queste cose grandi della vita, dobbiamo scendere sempre nel dettaglio, dobbiamo diventare molto pratici. Un consiglio che offro spesso, a persone che riescono a confessare o chiedono un consiglio, è di non avere paura di prendere i vostri preti o le vostre guide, di metterle al muro e dire “Spiegami praticamente che significa questa cosa”…cioè noi dobbiamo poter tornare a casa e aver capito praticamente in che senso funziona: non possiamo soltanto essere innamorati dell’idea che, da qualche parte, nascosto nell’universo, esista l’amore.

Ma come si fa l’amore? Noi abbiamo, forse, usato in maniera sbagliata questa espressione “fare l’amore”: l’amore è soltanto una cosa che si può fare, qualcuno ci deve insegnare a farla, a fare la carità.

Paolo stesso non scrive libri di teologia, le sue lettere non sono libri di teologia: esse sono grondanti di dottrina ma è la dottrina di un uomo che, mentre scrive, ha davanti a sé il volto di una comunità. Paolo non spiega la carità in astratto ma la spiega tenendo, davanti ai propri occhi, la comunità di Corinto. Permettete, brevemente, di dire perché Paolo fa questo discorso: Corinto è una chiesa bellissima, vivissima, stracolma di carismi, in essa si sperimenta tanto la varietà dello stile, lo Spirito Santo si esprime, in questa comunità, con carismi molto diversi. Già questa è una bellissima notizia perché, riscoprire il volto carismatico di una comunità, significa riscoprire che ciascuno di noi ha un dono particolare dello Spirto Santo. Provo ad essere concreto: è come se qualcuno di noi scopre di avere il carisma particolare della preghiera, un altro il carisma particolare di ascoltare gli altri, un altro il carisma particolare di predicare, un altro ancora il carisma particolare di soccorrere. Tutti questi carismi vengono fuori quando si comprende che il Signore non fa preferenza di persone: anche tra noi, ci sono questi carismi che, a volte, rimangono sotto la cenere e, forse, la prima grande domanda da farci è “Che carisma ha dato a me il Signore? Alla mia comunità? Alla mia porzione di Chiesa?”. Così, alzando di livello, dal personale arriviamo all’ecclesiale, domandandoci come lo Spirito Santo si sta manifestando in questo momento, risvegliare la parte ecclesiale di noi è già una buonissima notizia.

Corinto, appunto, è una comunità ricca di carismi ma, questo è anche il suo più grande problema, perché, a volte, noi pensiamo che basti riscoprire i propri carismi per dire di avere una chiesa. Invece, la comunità di Corinto vive la faziosità, cioè il fatto di capire che ciascuno è reso consapevole del proprio dono, ma lo contrappone all’altro: i carismi, nella comunità di Corinto, sono diventati un’occasione di divisione.

E’ paradossale: i carismi sono suscitati dallo Spirito Santo ma noi, invece di usare questo per fare chiesa, lo usiamo per contrapporci agli altri. Pensate alle suore di clausura in lotta con la caritas: uno pensa di essere meglio perché prega, l’altro perché vicino ai poveri…sono doni carismatici diversi, uno contemplativo ed uno attivo, ma ciascuno dice che uno è meglio dell’altro, ciascuno cerca di affermare il proprio carisma rispetto all’altro. Due cose bellissime preghiera ed aiuto al prossimo: eppure, queste due cose bellissime, possono diventare il motivo per cui in una chiesa si è separati, contrapposti, in lotta, in conflitto.

Questa è una buona notizia per ciascuno di noi perché, se la Sacra Scrittura ci racconta questo, è affinchè nessuno si senta a disagio se vive questo problema, cioè di aver riconosciuto in ciascuno di noi un particolare dono dello Spirito ed, allo stesso tempo, di sperimentare la miseria di essere divisi. Questo problema nasce perché ognuno di noi si sente a proprio agio in ciò che sta vivendo: quando una persona, per esempio, ha il carisma di pregare, si accorge di una grande efficacia della preghiera e vorrebbe convincere gli altri che è davvero efficace la preghiera; allo stesso modo, quando uno scopre il carisma di soccorrere un povero, avverte tutta l’efficacia di quel gesto e vorrebbe convincerne tutti. Così, passiamo molto tempo della nostra vita ecclesiale, a tentare di convincere gli altri che il nostro carisma è quello giusto. Tutto ciò nasce da un fraintendimento di fondo: Paolo scrive per cercare di chiarire come si possono tenere insieme carismi diversi. Chi ha ragione? Paolo scrive questo capitolo proprio per spiegare chi ha ragione e, lo fa, spiegando la differenza tra due parole: carisma e carità.

La carità non è carisma: il carisma lo si possiede (io ho un carisma) mentre la carità è il modo con cui io uso quel carisma. Ci si fa santi non perché si ha un particolare carisma ma per l’uso che si fa di quel carisma: la carità è il modo attraverso cui io esercito il mio carisma. E’ un po' come dire che io posso avere un meraviglioso carisma ed, allo stesso tempo, se non lo vivo come un modo di amare, quella cosa automaticamente non mi fa santo. Paolo usa parole che, quasi, sfiorano l’eresia perché dice…Se io avessi tutta la scienza, se conoscessi tutto il catechismo ma non lo usassi per amare, non servirebbe a niente…Poi fa un passaggio ancora più pericoloso e dice…Se io avessi la fede che sposta le montagne, ma non avessi la carità, non mi servirebbe a niente la fede. Noi possiamo andare a finire all’inferno avendo una immensa fede; vi dirò di più: c’è qualcuno che ha una fede più grande della nostra ed è il demonio, le più belle professioni di fede nel Vangelo, le fa il demonio. Uno non si salva perché ha la fede, cioè perché riconosce che Cristo è il Figlio di Dio, il Santo di Dio. La difficoltà del male è che non riesce a trasformare la fede in carità, in un modo di amare, non riesce a collegare il carisma con il modo: questo è paradossale per ciascuno di noi.

Forse, dovremmo fare un grande esame di coscienza personale, relazionale, ecclesiale e capire se abbiamo chiaro che non possiamo semplicemente esercitare ciò che abbiamo ricevuto, ma domandarci se il modo in cui lo esercitiamo, ha a che fare o meno con la carità: solo così risponderemo alla domanda se ci stiamo facendo santi o no!

Si è santi non per ciò che si ha ma per come si esercita ciò che si ha: spero sia chiaro questo che spiega Paolo. Aggiungo personalmente che, quando si parla di carismi, pensiamo sempre a cose positive ed, effettivamente, abbiamo dentro cose che abbiamo ricevuto dal Signore; ma, a volte, abbiamo cose che non abbiamo ricevuto nemmeno dalla nostra libertà: se ci si fa santi per il modo in cui si usa ciò che si ha, capite che uno deve farsi santo anche quando non si tratta di usare carismi. Per esempio, se si ha un cancro, deve chiedersi se è collegato alla carità cioè se vive la malattia con amore…non ci si fa santi soltanto perché si è nella sofferenza, ma solo se quella sofferenza diventa un modo di amare: questo ci fa santi, non la sofferenza in sé. Quindi, cose buone che abbiamo ricevuto da Dio, cose che abbiamo scelto noi: io, nel discernere vocazionalmente di farmi prete, ho pensato, ad un certo punto della mia vita, che un modo buono di amare, per me Luigi Epicoco, era quello di farmi prete. Qualcuno di voi ha scelto di sposarsi perché si è reso conto che il modo migliore di amare era investire in quella relazione. Ma ci sono cose che non abbiamo scelto noi e ci sono comunque: non possiamo soltanto pregare, dicendo al Signore di liberarci, ma dovremmo chiedere al Signore come si può vivere in carità, come trasformare in un modo di amare anche le cose che non ho scelto nella mia vita. I Santi sono coloro che esercitano in maniera eroica la carità, non quelli che sopportano in maniera eroica ciò che gli capita: i santi hanno trasformato in una occasione di amore ciò che poteva semplicemente essere una disgrazia.

Quando parliamo di carità, di amore, dobbiamo stare attenti perché, di solito, si pensa alla caritas e questo è un problema serio, perché la carità di cui si sta parlando qui, è al fondo della caritas ma non coincide con essa. E’ qualcosa che è al fondo della nostra struttura di essere cristiani; questo è un problema proprio di noi occidentali che, ad un certo punto, abbiamo diviso la sostanza dalla forma: ci sono cose che sostanzialmente sono quelle e, allo stesso tempo, quelle cose che sostanzialmente sono quelle, hanno una forma cioè un modo visibile di essere percepite. Noi non possiamo dire “sostanzialmente è amore poi il come, la forma in cui si manifesta, una cosa vale l’altra”: assolutamente no! Nel cristianesimo la forma è sostanza, non un amore qualunque ci santifica, non una forma qualunque di amore ci santifica: guardate che questa è la predica del mondo, il mondo ci dice che è amore…no, no, non qualunque amore ci santifica! Un amore con una forma particolare, una forma specifica: la forma di amore che ci santifica è Gesù Cristo. Egli è la forma dell’amore cristiano: quando noi pensiamo a cosa significa amare, stiamo pensando a come forma unica ed imprescindibile quella di Cristo. E quando dico Cristo, non parlo di qualcosa di vago o dottrinale, ma di Cristo crocifisso: questo è il centro della forma dell’amore. Che cos’è la croce? Quante volte si dice che la croce è la sofferenza, invece no: la definizione è amare fino a dare la vita, questa è la definizione. Quando diciamo che dobbiamo farci santi esercitando la carità, cioè trovando la modalità di vivere bene le cose che abbiamo nella vita, stiamo dicendo che dobbiamo trasformare tutta la nostra vita in un amore che dà la vita come Cristo crocifisso e risorto: è questa la forma migliore dell’amore! L’unica forma che ci salva è capire che tutto il nostro sforzo è imparare un amore così, un amore che abbia la forma di Cristo.

Non sono un interprete del Papa ma, credo, che quando dice che dobbiamo andare alle periferie esistenziali, dobbiamo stare molto attenti ad intenderci su cosa siano: Gesù non è stato crocifisso nella piazza principale di Gerusalemme ma fuori, nelle periferie, perché l’amore che dà la vita è un amore che si esprime così. Io non sono più il centro: l’amore è decentrarsi, è togliersi di mezzo perché chi stai amando diventa il centro. Allora Cristo, con il suo amore, che è amore crocifisso, ci insegna a decentrarci, ci insegna la periferia, a toglierci dal centro. Che cos’è l’amore? Togliersi di mezzo: non è più il nostro io il centro di tutto.

Questo è un problema serissimo: quando pensiamo all’esodo, pensiamo sempre al popolo di Israele per 40 anni nel deserto, che esce dall’Egitto, a quanto è antipatico questo Egitto, questo faraone. Ma, finchè pensiamo che il faraone è un nemico, che è fuori di noi, ci è semplice capire che l’esodo è una cosa buona. Se io vi dico, invece, che quel faraone è il nostro io, che la battaglia più grande, noi la facciamo contro noi stessi, questo è il nostro problema: il nostro amore è un continuo lasciare la schiavitù d’Egitto del nostro io, per uscire fuori verso una terra promessa, l’altro, il nostro fratello, le persone che abbiamo di fronte, sono la nostra terra promessa. E’ un viaggio mai concluso quello del nostro esodo, è un cammino costante di liberazione, perché il faraone ci ripensa sempre, vuole di nuovo riportarci nell’Egitto: il nostro io vuole costantemente tornare al centro e, noi, costantemente dobbiamo amare di amore crocifisso, di un amore che dà la vita e che sa farsi periferia, che sa scegliere di decentrarsi, di non essere più lui il centro. Sapete quante patologie relazionali, familiari, ecclesiali, guarirebbero se cominciassimo a leggere tutto in quest’ottica! La rabbia verso la moglie o il marito nasce dal fatto che la moglie o il marito non corrispondono a quello che il proprio io ha stabilito: io sto male perché tu non sei come io volevo…Non è più…tu sei importante…è che tu non ti sei accorto di quello che volevo io, perché sono io il centro, volevo questo, volevo quello: questo non è un amore che ci salva.

Allora, imparare la carità significa imparare la periferia, imparare a decentrarci, a toglierci di mezzo, a fare emergere l’altro, il tu. E questo ci risulta sempre molto difficile perché noi non capiamo che il Signore, anche quando ci dà un carisma, non lo dà mai per noi: il Signore mette in mano a me un pezzo di pane per dare da mangiare a mio fratello, non mi dà il pane perché lo mangi io, ma vuole che la mia fame sia saziata da un altro, e con il pane che ho in mano io, devo saziare un altro ancora…questa è la chiesa. E’ accettare che abbiamo bisogno dell’altro, che il pane che io ho in mano non serve a saziare me: uno può avere il dono della parola, io posso dare consolazione agli altri, ma le parole che dico agli altri a me non servono a niente, io sono nell’inferno totale. Ciò che il Signore ci consegna come un dono, ce lo consegna come un dono per gli altri, non per noi stessi: questo spalanca i carismi alla chiesa. Se io ho ricevuto un dono, non l’ho ricevuto per me ma per un altro, io non posso farmene nulla di questo dono. Il male, invece, ci mette in mente una menzogna, la menzogna dell’autosufficienza: io non ho bisogno dell’altro perché il pane ce l’ho in mano io. Noi, invece, abbiamo costantemente bisogno dell’altro: un prete, nemmeno un vescovo o il Papa, possono assolversi da soli. Io ho la facoltà di assolvere gli altri ma ho bisogno che qualcun altro assolva me. Questa rete di bisogno l’uno dell’altro è la chiesa: in questo senso, fuori dalla chiesa, non c’è salvezza. In questo senso, noi abbiamo bisogno di chiesa e capite che è una tentazione dire di non aver bisogno della chiesa. Non sto dicendo che la chiesa è sempre bellissima ed è sempre corrispondente a quello che mi aspetto: nonostante sia sgarrupata, brutta, accidentata, peccatrice, io ne ho bisogno. Senza la chiesa io non sono sazio, non posso saziarmi del pane che ho in mano perché esso può saziare un altro ma io ho bisogno del pane degli altri. La comunione è rendersi conto di quanto noi abbiamo bisogno di chiesa: questo è ancora più profondo del bisogno che abbiamo di collaborare. In tante diocesi del mondo, c’è una fatica enorme a far collaborare, a coinvolgere ecc…perché noi pensiamo che la comunione sia una collaborazione. La comunione per noi è vitale, senza di essa noi non abbiamo salvezza, non abbiamo Cristo che non ci ha dato semplicemente il messaggio evangelico, ci ha dato anche la chiesa, il modo.

Questo è il motivo per cui Paolo perde tempo con la comunità di Corinto a dire…Amici non ve ne fate niente dei vostri doni, se non capite che quei doni li dovete spendere per gli altri, per la chiesa, che quel dono deve edificare la chiesa, che tu devi amare dando la vita ad un altro…anche se tu hai la fede e fai miracoli, quel dono non ti salverà. Anche se tu, un giorno, morissi per i tuoi ideali ma senza questa dinamica di carità, non ti servirebbe a nulla morire.

La carità ci salva. Ma che cos’è la carità? Di che è fatta? Quali sono le istruzioni d’uso della carità? Come noi potremmo cominciare a dire, guardando a noi stessi, praticamente, che cosa significa vivere una carità che santifica, che edifica la chiesa. Ecco, allora, le parole di Paolo: sarebbe necessaria una conferenza per ciascun versetto, ma cercherò di dire qualcosa aiutato da quello che dice il Papa, aggiungendo qualcosa che ci aiuti a renderlo attuale nelle nostre dinamiche personali ed ecclesiali.

Paolo, per prima cosa, dice che la carità è paziente: la prima manifestazione della carità è avere pazienza. Noi confondiamo la pazienza con la tolleranza, ma la pazienza è accettare che l’altro non è riducibile a quello che io mi aspetto di lui. Perché noi perdiamo la pazienza? Perché ci accorgiamo che la persona che abbiamo di fronte non è così come io me l’aspettavo, non do il diritto a quella persona di essere diversa, di essere libera, misteriosa, di poter sbagliare. Noi manchiamo di pazienza quando non lasciamo che le persone siano reali. Se, quando mi sono sposato, avevo in mente che mia moglie fosse così e, poi, mi accorgo che non è così, io non ho pazienza; comincio ad avere pazienza quando accetto che la donna che ho sposato, reale ,può e deve essere diversa da quella che mi sono disegnato nella testa, che amare significa lasciare che quella persona sia reale e deluda ciò che avevo immaginato. Uno è paziente quando permette all’altro di essere se stesso. Questa cosa, ad esempio, per i sacerdoti si verifica quando si aspettava qualcosa dalla comunità e non accade ecc…Per quanto noi ci abbiamo costruito e sognato su qualcosa, quello che abbiamo davanti, essendo reale, ha il diritto di essere diverso da quello che io mi aspetto nella testa. L’amore è accettare la diversità che c’è tra il mio ideale e la realtà: io pensavo che tu fossi…invece sei…io amo ciò che sei, non ciò che dovresti essere per me. Questa è la pazienza e, per forza, così intesa, deve essere unita alla benevolenza: la benevolenza è cercare di guardare e promuovere il bene dell’altro, non è semplicemente sopportare che l’altro esista, perché sarebbe semplicemente tolleranza (tolleranza non è una parola cristiana perché significa schifare gli altri ma, per una civiltà di fondo, non farci del male). No! A me interessa il tuo bene: per fare un esempio pratico, pensiamo ad un padre ed un figlio. Quando è nato quel figlio, ci ho sognato sopra, quanto volevo che diventasse un dottore…poi invece, vuole fare il musicista…allora lo tollero, cioè non condivido minimamente le sue scelte, ma lo tollero perché non possiamo litigare tutti i giorni in casa. Questa è tolleranza ma non è amore: l’amore è imparare ad accettare che tu lo volevi medico ,ma è un musicista e tu devi amare il musicista, andare ai concerti anche se non vorresti andarci, promuovi il suo bene perché l’amore non è un sentimento ma è decidere la nostra libertà, è uscire da noi stessi, è decentrarci. Morire in croce è una cosa che fa male, perché è difficile togliersi di mezzo, è difficile rinunciare al medico che volevo io ed accettare il musicista: pazienza e benevolenza sono lo sforzo di fare questo. Ora calate questo esempio nella dimensione ecclesiale.

La carità non è invidiosa: l’invidia è la tristezza per il bene degli altri, siamo invidiosi perché pensiamo di mancare di quello che gli altri hanno. Nel linguaggio popolare, si dice che l’erba del vicino è sempre la più verde. Anche in questo caso, tutto questo capita perchè noi siamo al centro. Perché non godiamo del bene degli altri? Perché siamo ancora noi al centro; se uno si decentra, allora, comincia a godere, comincia a dire…sono felice. Anche qui non c’è carità, perché carità è questo sforzo di togliersi di mezzo e di godere.

La carità non è vanagloriosa, non si gonfia: la vanagloria è fare una cosa buona ed usarla per affermare noi stessi. E’ un po' godere del bene perché, quel bene, fa emergere di più me. Il vanaglorioso usa sempre la parola “io”; il contrario, la discrezione è l’amore più bello: pensate ad una madre che si sveglia presto la mattina, senza che nessuno se ne accorga, fa quello che deve fare, senza che nessuno se ne accorga e senza che nessuno le dica grazie. L’amore non è vantarsi del bene che si fa, l’amore è vivere il gusto di fare le cose senza fare emergere noi stessi. Questo si manifesta nella capacità di ascoltare: chi è vanaglorioso non riesce ad ascoltare gli altri, parla sempre di sé. Ieri sera, tornando a casa, ho incrociato una universitaria che vive con me, alla fermata metro e questa ragazza tornava da un turno con l’equipe di strada che portano da mangiare ai poveri, e mi diceva una cosa molto bella: uno esce da casa, col freddo, per andare a portare il panino al povero perché, fondamentalmente, ha bisogno del povero cioè ha bisogno di poter dire “io faccio questo”. Il panino arriva al povero ma, capite, che quella carità non ci santifica, perché la carità che ci santifica è accorgerti che, mentre porti il panino, quel povero è infastidito e non gli importa nulla che gli stai portando quel panino, perché la vita lo ha incattivito, lo ha reso aggressivo. Allora ci resti male e dici…come? Vado a portare il panino e mi maltratta. Certo! Perché per te i poveri sono l’oggetto che ti fa star bene e, quindi, quando cade la visione poetica e romantica dei poveri, non ti servono a niente. Spesso, invece, i poveri non vogliono da mangiare ma vogliono essere ascoltati. Sono rimasto impressionato una volta quando, uscendo dalla mia parrocchia, c’era un ragazzo che chiedeva l’elemosina e gli ho chiesto come fosse andata. Mi ha risposto, in un italiano stentato, ed ha detto “Nessuno mi ha guardato negli occhi”: fratelli miei, non è la filantropia che ci fa santi, è la carità che ci fa santi. E la carità è accorgersi dell’altro, non semplicemente della pancia vuota dell’altro. Il vanaglorioso non ha bisogno dell’altro ma che l’altro abbia bisogno: noi abbiamo bisogno del povero per noi stessi, abbiamo bisogno della sua pancia vuota per noi stessi. Invece, molto spesso, scappiamo da quella sensazione di impotenza, di non poter far nulla per queste persona se non ascoltarle. Che hai fatto oggi? Niente! Non ho potuto fare niente, l’amore è una faccenda inutile cioè non ha un utile, non deve avere utile. Il vanaglorioso no: usa il bene – e si potrebbe obiettare “ma quello è un bene” – certo, ma per affermare se stesso e, questa, non è carità.

La carità non manca di rispetto: mancare di rispetto significa far giungere all’altro, costantemente, uno sguardo di giudizio. E’ un po’ come se una persona, effettivamente, ha fatto delle cose sbagliate nella vita e viene sempre guardato con giudizio, mai con fiducia. E questo ci rende arroganti, anche se abbiamo ragione: non basta avere ragione per giustificare la nostra arroganza. Non è possibile che uno sia dalla parte della ragione, dalla parte di Cristo e questa cosa lo renda arrogante, e questa cosa giunga agli altri come giudizio. Io sono l’ultimo prete del mondo, ovvero un filosofo di montagna, ho fatto i miei studi in teologia ma non mi reputo neanche un teologo, insegno filosofia e non voglio nemmeno entrare nella questione dell’Amoris Laetitia, anche perché spesso sono questioni mediatiche; ma voglio dirvi che la cosa che ci sfugge, nell’insegnamento di Papa Francesco, è che non è possibile che il nostro essere cristiani giunga sull’altro come giudizio, con tutta la ragione che abbiamo. Nessuno mette in dubbio che quello che stiamo dicendo è vero, ma non può giungere come un giudizio, non può giungere con arroganza sugli altri. Che ne sappiamo noi della sofferenza delle persone? Non è possibile che uno dica “La prima forma di carità è la verità”: certamente, è la verità ma la verità che si dà nell’umiltà. Ancora una volta la forma è sostanza. Le persone che conducono l’adultera davanti a Gesù stanno dicendo una cosa vera, l’hanno presa in flagrante adulterio, quella donna ha tradito e nessuno mette in dubbio che sia sbagliato tradire il proprio marito, ma lo sguardo che hanno queste persone nei confronti di quella donna è di giudizio. Gesù non vuole mettere in discussione la tesi che la fedeltà sia una cosa importante, ma vuole mettere in discussione lo sguardo di queste persone e riaffermare la tesi che la fedeltà è una cosa importante: Gesù vuole che di nuovo si faccia pace tra forma e sostanza.

Un cristiano non può essere arrogante: ora come si fa ad essere umili, vorrei dirvelo ma non lo so. Certamente, però, mi domando spesso se le cose che ho capito e reputo vere nella mia vita, giungono agli altri come giudizio.

La carità non cerca il proprio interesse: San Tommaso dice che è più proprio della carità, amare che non voler essere amati, il che è esattamente il nostro contrario. Nessuno mi scolta, nessuno mi accoglie, nessuno ha cura di me…Cristo dice “Fallo tu”. Ma nessuno lo fa con me! Fallo tu. Vuoi essere amato? Ama tu. Vuoi essere ascoltato? Ascolta tu. Trasforma la tua frustrazione in resilienza, trasforma quello che a te manca in quello che devi fare, trasforma quello che ti fa soffrire in quello che devi fare tu per primo. E’ un’indicazione a te il dolore che provi.

La carità non si adira: quando l’altro è un nemico, le relazioni sono sempre di competizione e non di amore. Quando uno si adira non è una questione esterna, è interna, è un fastidio interno che proviamo nei confronti delle persone perché l’altro non è visto come qualcuno da amare, ma come uno che è in competizione con me, è un nemico. Il problema è che nessuno può dircelo se noi non siamo leali con noi stessi. Attenzione! Norma basilare: in tutto ciò che stiamo dicendo, dobbiamo fare una grossa differenza, così lo abbiamo moralmente chiaro: non è che se uno sente l’invidia, automaticamente ha commesso peccato. Uno commette peccato quando sente l’invidia e acconsente all’invidia che sente. Non si possono cambiare i sentimenti che si provano: cioè se, per come sono fatto io, mi si gira lo stomaco quando vedo qualcuno, questi sono sentimenti ma non è peccato. E’ peccato quando quella cosa che senti, ad un certo punto, diventa una scelta; per esempio mi fa parlare male, mi fa agire male. Quindi, S. Paolo non è uno sprovveduto che sta dicendo “Adesso non dovete più sentire invidia”…No! Non dovete più acconsentire all’invidia che sentite. Ho fatto una conferenza sulle famiglie, a Perugia, un signore mi ha detto “Padre, lei mi deve spiegare una cosa: io ho partecipato ad un ritiro, ed ho sentito così grande l’amore di Dio nella mia vita, che ho ringraziato Dio perché mi sono sentito amato. Poi, il pomeriggio, sono tornato a casa, ho litigato con mia moglie e la volevo buttare dal settimo piano. Come è possibile questa cosa, che la mattina mi sono sentito amato dall’amore di Dio ed il pomeriggio…?”. Ho detto a questo signore “Ma l’hai buttata dal settimo piano?” “No”. E allora questi sono i santi: i santi sono quelli che vogliono buttare le persone dal settimo piano e non lo fanno. Non sono quelli che non hanno questo sentimento. Attenti, altrimenti dovremmo fingere di essere altre persone: noi siamo persone che sentono tante cose contraddittorie ma decidono di non farlo. La carità è prendere una decisione sulle cose che sentiamo: ecco perché non è un’indole e non ci viene semplice, ecco perché è una cosa che si fa e che non ci viene spontanea.

San Paolo, concludendo, scrive così “La carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera e tutto sopporta”. Papa Francesco, nell’Amoris Laetitia, dà delle definizioni e dice che l’espressione “tutto scusa” non significa che ci facciamo piacere tutto; le persone che tutto scusano sono quelle che evitano di sottolineare il male degli altri, il male intorno, non propagano il male, la maldicenza, lo sparlare. Uno che scusa è uno che non dà il microfono alle cose negative, non parla del male non perché lo nasconde ma perché non gli dà il microfono, non presta se stesso. Uno si accorge del male dell’altro ma non sparla del male dell’altro.

Tutto crede: è impossibile tirar fuori il bene dagli altri se non mi arriva la fiducia, se tu non credi in me. L’amore che non dà fiducia non serve a niente perché, soltanto quando una persona sente addosso la fiducia dell’altro, tira fuori il meglio di sé. Se io non credo in te, non ti sto amando. Bisogna dare fiducia alle persone, smettere di controllarle, fidarsi. Ma uno dice…L’ultima volta che mi sono fidato, mi ha tradito…Quante volte Signore dovrò perdonare mio fratello, 7 volte? Capite quante volte noi dobbiamo rimettere in gioco la fiducia? Tu mi hai tradito? D’accordo, io ti perdono ma mi dai la password facebook e l’accesso al cellulare, così mi fido. Certo così è facile fidarsi.

La fiducia è un elemento fondamentale dell’amore.

Tutto spera: il Papa scrive che la speranza è dire che devi sempre ricordarti che, magari, molte cose non riuscirai a cambiarle nella vita, ma Gesù Cristo ha già vinto in quella faccenda. Tuo marito sarà così per sempre, quella comunità non la raddrizzi, si porterà quella cosa per secoli, ma Gesù Cristo ha già vinto e questo ci fa tornare a sperare, a dire che le cose possono cambiare e che le cose che non riusciamo a cambiare, alla fine, cambieranno perché il Signore ha già vinto. Una visione più globale, una speranza più grande.

Tutto sopporta: credo che sia la definizione più bella dell’amore cristiano. E’ l’amore malgrado tutto. Tutto sopporta significa che non importa quello che sta accadendo nella mia vita, amerò malgrado tutto quello che sta accadendo nella mia vita, amerò così.

Concludo con una storia che a me ha impressionato moltissimo. Una donna calabrese va a fare un pellegrinaggio a Loreto; questa donna, madre di due figli, portatori entrambi di handicap gravissimi, va a Loreto e dice “Io non chiedo alla Madonna la grazia di guarirli ma la grazia di farmi morire dopo di loro, perché io possa avere cura di loro fino alla fine”. Questo è l’amore malgrado tutto: è rendersi conto che, a volte, le cose non cambieranno, che quei figli saranno così per tutta la vita e, nonostante questo, invece di inveire, si trasforma quella cosa drammatica e tragica in un modo di farsi santi. Ti chiedo questa cosa Signore, fammi morire dopo di loro perché io possa accudirli per tutta la loro vita: questa è la carità che ci fa santi, tutto il resto sono imitazioni del demonio che non conducono da nessuna parte, è l’amore del mondo che scimmiotta l’amore di Cristo ma non salva. Allora credo che, ciascuno di noi, davanti a questa declinazione della carità di Paolo, possa riguardare se stesso, ciò che ha, i propri carismi, possa rendersi conto che la chiesa che viene edificata non lo è dai carismi ma dalla carità, che in una chiesa possono anche esserci pochissimi carismi ma è la carità che edifica la chiesa. La carità è un’unione profondissima tra la grazia di Dio e la mia libertà: non è una faccenda solo di Dio la carità, ma è una faccenda anche della nostra libertà. Se noi non decidiamo di amare, l’amore non ama al posto nostro, ma se Cristo non ci avesse amati, nessuno di noi potrebbe veramente decidere di amare.




















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