venerdì 27 settembre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - Che cosa vuol dire avere fede? (testo)




COSA VUOL DIRE AVERE FEDE?
di Don Luigi Maria Epicoco

Esiste un desiderio profondo di incontrare Gesù, di ascoltare cosa ha da dire a ciascuno di noi perché, forse, nemmeno noi, fino in fondo, riusciamo a capire che cosa ci attrae davvero.
Anche noi ci sentiamo un po’ come Pietro davanti a questo invito – forse un po’ piccato – di Gesù che dice “Volete andarvene anche voi..”… perché, quando tu cominci a seguire il Signore, quando cominci a prendere sul serio quanto il Signore ti sta chiedendo, quando il cristianesimo non è più semplicemente la raccolta punti delle messe domenicali, ma comincia a diventare qualcosa che ha a che fare con tutta la tua vita, con tutta la vita che accade fuori da una chiesa, allora tu ti accorgi che – a volte – è dura seguire il Signore e ci viene voglia di andarcene perché vogliamo cercare scorciatoie per vivere. Vogliamo trovare modi per vivere in modo meno impegnato la nostra vita, più leggero, ma la felicità è una cosa pesante: la felicità è tenere i piedi ben fissi a terra. Seguire Gesù, a volte, è faticoso ed ha ragione Pietro a dire “Da chi andremo Signore?”… Chi altro ha quelle parole di vita eterna che ci racconti Tu?
La domanda che ci poniamo con questa riflessione è difficile: che cosa vuol dire avere fede? Forse noi dobbiamo, però, partire dall’anti domanda cioè che cosa significa il contrario, ciò che fede non è. Anche noi siamo vittima di un pregiudizio rispetto alla fede: la fede non è quel qualcosa di cui ci siamo convinti.
Ad esempio, la fede non è un ragionamento convincente: se fosse così, basterebbe semplicemente ragionare sulle cose per poter avere fede. Avere fede non significa avere ragione, non significa crearsi la ragione in una discussione.
La fede non è un ragionamento convincente e non è neppure un’educazione: tutti noi che siamo stati educati cristianamente, dobbiamo stare molto attenti a non confondere la fede con l’educazione cristiana ricevuta. A cosa serve l’educazione cristiana ricevuta? A raccapezzarci, a saper rimanere a galla, a capire come un navigante su una barca può prendere una qualsiasi direzione per non perdersi. Ma è troppo poco raccapezzarsi per dire di avere la fede. La nostra educazione cristiana ci permette di stare nel mondo senza soccombere, ci aggrappa a dei valori importanti, significativi, che abbiamo preso dal Vangelo, ma il cristianesimo non è una questione di valori e non è una questione di educazione, non è qualcosa che ci può insegnare qualcuno a scuola.
Allora non è un ragionamento convincente, non è un’educazione ricevuta, non è nemmeno un’altra cosa pericolosissima: una consolazione psicologica. Siccome la vita è difficile, siccome tutti abbiamo paura di vivere, ci rifugiamo nel cristianesimo per trovare un antidolorifico, per trovare qualcosa che ci consoli: questa non è la fede in Gesù Cristo.
Questo lo capiamo subito leggendo il Vangelo: i discepoli non arrivano a Gesù per ragionamento, è Gesù che arriva a loro. La fede entra, irrompe nella vita dei discepoli perché Gesù li va a cercare ed incontrano questa fede perché gli succede qualcosa. E’ nell’esperienza che incontrano Gesù, non nei ragionamenti; è in qualcosa che è successo  dentro la loro vita che incontrano Gesù.
A me piace dire che, ciascuno di noi, vive tre stagioni importantissime nella propria fede: la prima è quella di cui si diceva sopra, la fede che indossiamo, la fede che ci raccontano gli altri, quella che impariamo al catechismo, la fede del segno di croce, dell’Ave Maria che impariamo a memoria, del Padre Nostro, la fede dei racconti degli altri, del comportarsi in un certo modo, la fede di amare, di rispettarsi, della solidarietà: ma questo è un livello di fede che non implica, per forza, un incontro con Gesù. Questa è una fede buona ma non ci salva la vita! Noi abbiamo la vita salva quando accade qualcos’altro cioè il cristianesimo non è più qualcosa che indossiamo ma qualcosa che arriva dentro il nostro cuore, qualcosa che oltrepassa i nostri vestiti, non è più un atteggiamento; non è più, semplicemente, qualcosa che abbiamo capito, ma qualcosa che ha toccato il nostro cuore, come quando ti innamori di qualcuno, come quando soffri, come quando ti piace qualcosa.
Non è più semplicemente qualcosa che passa attraverso la testa ma che giunge in una parte più profonda: è quello che succede a Pietro quando, per la prima volta, incrocia Gesù. In un’esperienza di profonda tristezza e depressione, descritta dal Vangelo come una notte buia nella quale questi pescatori non hanno preso nulla; la sensazione di fare un sacco di fatica e di non raccogliere nulla…vi ricorda niente? Di fare un sacco di fatica nelle nostre famiglie, nelle nostre relazioni, di fare un sacco di fatica nelle cose della nostra vita e ci sembra sempre di arrivare, alla sera, stanchi e senza niente, con le mani vuote, con le reti vuote come erano quelle di Pietro. E uno straniero, uno che loro non conoscono, che non sanno che è Gesù Cristo – perché questa è la bellezza del cristianesimo: Gesù non si traveste, per forza, da qualcosa di religioso per arrivare dentro la nostra vita ma si nasconde in qualsiasi ambito dell’esistenza, pur di arrivare a ciascuno di noi -, questo straniero si affaccia nella vita di quest’uomo triste e depresso che è Pietro e gli domanda il senso di quelle reti vuote.
“Non avete preso nulla”…che è un po’ come dire…Dì la verità, non sei veramente felice…Nessuno di noi ha il coraggio di dire, ad alta voce, questa cosa perché non vorrebbe offendere la donna che ha sposato, i figli messi al mondo, il lavoro che con tanti sacrifici è riuscito ad avere, le persone che ci circondano. Ma il problema vero è che non può iniziare nessun vero cristianesimo, dentro la nostra vita finchè non troviamo il coraggio di dire, ad alta voce, che forse non siamo veramente felici, ci manca qualcosa. Gesù viene a ricordarci, innanzitutto, l’evidenza di quelle reti vuote, il dire ad alta voce che ci manca qualcosa. A quelli che pensano che non gli manca nulla, Gesù non può dire niente, non può raccontare niente: il Vangelo si può annunciare solo ai poveri.  Il Vangelo si può annunciare soltanto a uno che sente questa mancanza, che si sente profondamente umano e sente il peso di cosa significhi essere umani.
Cosa c’è di più facile di manovrare una persona triste e depressa? Ma non è il metodo di Gesù perché Egli, prima di proporre qualcosa di grande, di decisivo nella vita di Pietro, gli riempie prima le reti: gli ridona di nuovo una pienezza, lo guarisce da questa tristezza ed insoddisfazione e, poi, gli propone qualcosa. Tutto questo per dirvi che, ad un certo punto, non reggono più le nostre educazioni, i ragionamenti cristiani: ad un certo punto, la vita ci inchioda davanti a qualcosa che ci succede ed è lì che il Signora si affaccia e fa una domanda che arriva al fondo del nostro cuore, che interpella ciascuno…ma sei felice? Che cosa stai cercando veramente? Che cosa ti riempie il cuore? Per che cosa vale la pena il fatto che ti sei svegliato stamattina? Scriveva una persona <>: ha ragione perché, a volte, ci vuole coraggio ad alzarsi dal letto la mattina, ad affrontare la vita, perché la vita non è semplice!
Che cos’è veramente la fede? E’ qualcosa di molto più grande. E’ un incontro che, in maniera indelebile, mette dentro ciascuno di noi la certezza che esista, al fondo della nostra vita, un bene. Non è più semplicemente raccapezzarsi o rimanere a galla, non è più semplicemente cercare di sopravvivere, non è più questo! Ad un certo punto ti viene dato un destino, hai una meta, hai un viaggio, hai un motivo di cui ancora non sai nulla, non conosci il nome proprio di questo destino, non sai che significa ma avverti che la vita nasconde un tesoro prezioso, che – dietro le cose contraddittorie di cui questa vita è fatta – è nascosto un tesoro di bene. E non sai perché! Perché – se ci ragioni – dici “Perché io credo che esista ancora un bene quando tutto mi dice il contrario? Anche i miei ragionamenti mi dicono il contrario! Anche le mie emozioni, a volte, mi dicono il contrario!”.
Perché la fede non è una questione né di pensieri, né di emozioni: è qualcosa di molto più profondo, è una vittoriosa certezza che noi non riusciamo a spiegare che esiste il bene e che tutta la nostra vita è ricapitolata in questo bene, che tutto è pieno di significato, anche le cose che non capiamo, anche le cose più contraddittorie. Non è più semplicemente una questione di consolazione, anzi, è questione di aprire gli occhi.
La fede è incontrare questo Gesù che imprime questo dentro di te!
Sarebbe molto bello se ciascuno di noi trovasse il coraggio di essere così concreto perché, a volte, noi pensiamo che qualcuno che ci annuncia il Vangelo debba semplicemente allargare la nostra visione del mondo: non è così ma io devo fermarmi e dire “Ho mai incontrato Gesù Cristo dentro la mia vita?”. Fratelli miei, non mi sto riferendo al fatto che, ad un certo punto, Gesù ci appare, non mi sto riferendo ad esperienze mistiche o straordinarie, a segni che attirano la nostra attenzione ma a qualcosa di molto più concreto. E’ mai successo qualcosa di decisivo dentro la nostra vita che ha impresso, nel fondo di noi stessi, questa certezza? A volte, Gesù, lo abbiamo incontrato in un buon padre, in una buona mamma, in una nonna, in un amico, in un professore, in un catechista, in un prete, in una situazione, l’abbiamo incontrato in un dolore come nell’amore per qualcuno.
Succede, ad un certo punto, qualcosa di concreto nella nostra vita, dove Gesù ci tocca: è quello l’inizio vero della nostra fede, quando sappiamo dire qual è il nome proprio di questo incontro. Non è offendere Gesù dire che il nome di questo incontro è quello di una persona precisa o di una situazione precisa; a volte sono cose che succedono o persone che incontriamo così, in maniera gratuita, che lasciano un segno indelebile come una bruciatura, come qualcosa che non puoi toglierti più di dosso perché la fede è un dono: il dono di un fuoco al fondo di tutta la nostra esistenza.
E’ questo che abita i discepoli quando incontrano Gesù. Molto spesso non sanno spiegare o raccontare Gesù, non sanno ridire le cose come Lui le sapeva dire. Spesso non sanno fare i miracoli che faceva Gesù, spesso devono fare i conti con la loro umanità, col fatto che arrivano pure a rinnegarlo o, per lo meno, a scappare davanti alle cose serie. Pensate come, davanti allo scandalo della croce, tutti gli amici di Gesù vanno via, scappano e  lo lasciano da solo. Ma sono persone che hanno incontrato Gesù: Giuda ha incontrato Gesù, è stato toccato da quest’uomo.
La fede non ci toglie la nostra umanità, non ci toglie la nostra miseria ma mette, al fondo di tutto, anche della nostra miseria, una luce, un bene.
Che cosa significa avere fede? Significa credere a questo bene che è al fondo di tutto, nonostante tutto, nonostante i ragionamenti, nonostante le emozioni contrarie, nonostante l’ingiustizia della vita che, tante volte, noi dobbiamo vivere. Ecco perché credo che sia assolutamente significativo il brano del Vangelo di Luca (Luca 18,1-8)  perché, dietro la storia di questa donna, forse c’è una parabola per ciascuno di noi. Chi è questa vedova? Una donna che ha perso il marito. Ma cosa simboleggia una donna del genere? E’ una donna che non ha più qualcuno che abbia cura di lei umanamente, non ha più le spalle parate, avverte che la sua vita non ha più alcun tipo di rassicurazione. E’ una donna che non vive più le sicurezze del mondo perché niente più, nel mondo, può rassicurarla: la sua sicurezza – che era suo marito . non c’è più. Questa donna che ha ormai le spalle scoperte, da un punto di vista umano, incontra davanti a sé un giudice iniquo; sembra una vittima questa donna, schiacciata dalla mancanza di qualcuno che le voglia bene e la vita che si manifesta davanti a lei come ingiustizia. Eppure, questa donna è raccontata da Gesù come l’emblema della fede perché lei continua ostinatamente a domandare qualcosa contro l’evidenza dell’ingiustizia di quel giudice.
“Fammi giustizia!” L’ostinazione di questa donna di credere, fino in fondo, al bene  nonostante la vita le abbia riservato la perdita delle sicurezze e la percezione di un’ingiustizia che la circonda. Il giudice, di fronte al quale lei si trova, è un giudice ingiusto. Quante volte la vita si manifesta a noi come un’ingiustizia, come qualcosa che non ci ripaga, come qualcosa che ci promette la felicità ma poi non ce ne dà, come qualcosa che dovrebbe riempire il nostro cuore e poi non lo riempie.
Credere significa essere ostinati: ostinati nel domandare, ostinati nel credere, ostinati nel fidarsi di questo bene. Noi, invece, che cosa facciamo quando ci succede qualcosa, quando ci crolla una certezza? Ciascuno di noi ha un marito che ha perso cioè ha una certezza che è crollata, a volte perché è crollata la salute, a volte è crollata perché hai perso la persona che amavi, a volte è crollata perché hai fatto un’esperienza difficile, altre volte perché perdi in senso materiale le cose. Quando tu ti accorgi che la vita in sé è inaffidabile, che le cose di questo mondo – ad un certo punto -  si perdono, quando tu ti scopri vedovo, quando tu ti riscopri come questa donna precaria, quello è il momento in cui noi crediamo moltissimo alle nostre spalle scoperte e cominciamo ad inginocchiarci davanti alla perdita delle sicurezze, diventiamo tristi e depressi. In quel momento pensiamo che il destino della nostra vita sia nefasto, sfortunato,  che noi siamo destinati a non essere mai felici perché non è possibile essere felici senza avere più nessuna certezza.
Che cos’è il Vangelo? Credere che noi siamo chiamati ad essere felici anche quando la vita ci toglie tutte le certezze. Tu credi questo? Perché se tu non credi questo, non credi nel Vangelo di Gesù. Gesù non è uno che ti promette che tuo marito non morirà mai o che non perderai mai nessuna sicurezza! Gesù non promette questo, non ci rassicura, ci dice che questa cosa, di avere le certezze crollate, può succedere nella vita. Ma tu credi che si possa essere felici anche quando tutto crolla? La professione di fede dobbiamo farla davanti alla nostra storia innanzitutto: la nostra storia ci interpella come qualcuno che dice “Vediamo se credi adesso, ora che il sole non splende più  e che è buio…tu credi? Ora che non hai più un bastone su cui poggiarti, credi? Ora che non hai più il tepore di qualcuno che ti abbraccia, credi?”.
Se la fede fosse qualcosa che abbiamo semplicemente inventato noi, abbiamo allora tutto il diritto ad essere atei, abbiamo tutto il diritto a perdere la fede; ma la fede che ci ha dato il Signore è più grande della nostra mancanza,  è più grande del crollo di tutte le nostre sicurezze. A che cosa dovrebbe servire pregare? A che cosa dovrebbe servire leggere il Vangelo o avere una vita spirituale? A prenderci un dono che noi non abbiamo ma che riceviamo: è il dono di essere felici nonostante la vita ci dica esattamente il contrario, nonostante tutto il nostro passato, la nostra storia, nonostante tutto quello che abbiamo vissuto ci dica che non è possibile credere in un Dio che, invece, può. Questa donna vedova si trova davanti ad un giudice iniquo: svegliarsi la mattina e cercare di fare una cosa buona per ricevere qualcosa di buono e tu non ricevi qualcosa di buono, ricevi batoste, le cose non tornano. La vita non è giusta, assomiglia a questo giudice: ma questa donna è ostinata! Anche se tutta la vita che affronta è ingiusta, anche se ha di fronte giorni in cui i conti non tornano, questa donna è ostinata “Fammi giustizia”…Voglio essere felice! Io credo! Potremmo tradurre così: io credo.  E Gesù dice che questo giudice - non perché sia buono o giusto ma per stanchezza – esaudisce questa donna.
 Questa ostinazione che ci ha regalato il Signore, che è la nostra fede, è più forte del mondo, è una fede che ha vinto il mondo – ci dice la Parola. Questo significa credere: poter sperimentare, dentro di noi, la forza di questa ostinazione. Avete presente quando un bambino piccolo deve prendere una medicina amara e la madre, per convincerlo, gli dà una caramella o un cucchiaino di miele? Certe volte, il nostro cristianesimo assomiglia a questo cucchiaino di miele: per ingoiare l’amaro della vita, la fede ci dà un cucchiaino di miele. No, fratelli miei, non è questo il cristianesimo! Il cristianesimo è l’ostinazione di questa donna, è sale, è coraggio, è carattere, è saperci mettere contro tutto e tutti, è sperare contro ogni speranza, è saper guardare la nostra vita in un modo completamente diverso, con una forza che non viene da noi e che, alla fine, vince, con una ostinazione in cui persino il giudice – persino la vita ingiusta – cede e dice “Tieni!”.
Ecco perché il mondo ha bisogno di noi, anche di tutti quelli che dicono che Dio non esiste e che noi siamo dei poveri illusi…nel loro cuore, ci guardano con la speranza che, invece, abbiamo ragione. Tutti, tutto il mondo ha bisogno dell’ostinazione di chi crede: in questo senso Gesù dice che noi siamo il sale della terra, la luce del mondo! Una persona che vede noi, non vede qualcuno che ha capito tutto o che ha la risposta a tutto, qualcuno che è rassicurato in tutto: noi siamo come tutti gli altri! Anche noi siamo dei poveracci, anche noi non abbiamo un ragionamento che ci spieghi tutto quello che succede, anche noi non abbiamo parole che spieghino il dolore innocente, anche noi, davanti ad un bambino che muore di cancro, non abbiamo parole  o ragionamenti…e se li avete, non siete cristiani. Perché il cristianesimo è silenzio davanti allo scandalo del dolore. Anche noi non abbiamo parole, anche noi viviamo la precarietà di questa vita, anche noi che abbiamo la fede.
Ma quel di più che ci è stato donato è rimanere ostinatamente vivi, nonostante tutto, ostinatamente aggrappati a questo bene, ostinatamente speranzosi,  ostinatamente capaci di andare avanti nonostante…Ma non è una forza che viene da noi: è una ostinazione che viene dal cielo! In questo senso, forse, ciascuno di noi dovrebbe domandarsi se gli basta semplicemente l’educazione cristiana: davanti alla perdita di qualcuno che te ne fai dei valori cristiani? Che te ne fai di qualche idea che qualcuno ti ha propinato? Che te ne fai di tutto quello che qualcuno ti ha dato da mettere addosso? Arriva un momento in cui la vita ti spoglia di tutto e i ragionamenti non reggono più…e quando sei nudo e crudo davanti alla cruenza della vita, che cos’è che ti rimane se non il fatto che, ad un certo punto, hai incontrato qualcuno che ha cambiato la tua vita!  E te l’ha cambiata, non perché ti ha spiegato, ma perché ha impresso dentro di te qualcosa che non potevi darti da solo.
Non so se ci avete mai fatto caso che il giorno del Battesimo, alla fine del rito, fra i gesti che compiamo esteriormente per dire quello che è accaduto, il sacerdote accende una candela al cero pasquale  - che rappresenta Gesù Risorto - e la consegna alla famiglia, la consegna simbolicamente a quel battezzato e dice “Questa è la luce della fede”. Poca roba…quanto ci vuole a spegnere una candela? Basta un soffio e, a volte, la vita è così piena di burrasche che – altro che soffio! – subito si spegne.
Che cosa significa, allora, essere dei credenti? Saper difendere questa fiamma delicatissima che si può spegnere da un momento all’altro ma che non ci fa disperare fino in fondo, finchè quella candela è accesa, il buio non arriva. Finchè quella candela è accesa, tu sai qual è il passo successivo che devi fare…forse non vedi, fino in fondo la strada, ma sai dove mettere i piedi.
Questa è la nostra fede: è qualcosa di infinitamente fragile ma di così infinitamente essenziale per ciascuno di noi. La fede non è la forza della spada: è la delicatezza della candela che ci viene consegnata nel buio pesto della storia. Gesù - che non aveva visioni edulcorate o romantiche della realtà - quando pensa a noi, lo fa con un realismo che non dovremmo mai perdere “Sarete come agnelli in mezzo ai lupi”: Gesù sa benissimo quanto è difficile, a volte, vivere e sentirci addosso tanti lupi. E c’è un lupo più pericoloso di tutti, un lupo che tutti ci portiamo dentro: è il lupo del nostro io, del nostro egoismo. Solitamente, questo lupo si mette alle porte del nostro cuore e non fa entrare nessuno, spaventa tutti, non fa entrare l’amore perché questo lupo del nostro io è sempre sulla difensiva, è un lupo che non si fida. Voi siete così:  inermi come agnelli davanti ai lupi ma ricordate chi è il vostro pastore, ricordatevi di chi siete.
Allora questo ci domanda il Signore: non ci chiede di diventare più cattivi o più forti dei lupi, ma di ricordarci semplicemente di chi siamo. E’ il nostro Pastore colui che vince i lupi, è il nostro Pastore colui che vince, innanzitutto, quel lupo che è a guardia delle porte del nostro cuore e che non fa entrare niente. E’ il nostro Pastore che vince i lupi che sono intorno a noi: quella parte ingiusta della vita è un lupo e Lui l’ha vinta con la croce! Il nostro Pastore è morto per salvarci la vita, per salvare la vita a ciascuno di noi.  Questa è la vittoriosa certezza della fede che è messa nel cuore di ciascuno di noi.  Potremo anche essere, per tutta la vita, come questa donna ma questa donna ha la vita salva, perché ha professato la sua ostinazione fino alla fine. Ed è particolare come il Vangelo si concluda con questa domanda che spero vi inquieti, che non vi faccia dormire “Quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede?”…Troverà ancora qualcuno che è rimasto umano? Troverà qualcuno che crede in questa ostinazione che ci è stata messa nel profondo del cuore? Troverà qualcuno che crede ancora in questo destino? Troverà qualcuno che vive così?
O troverà perdenti che hanno creduto di più al fragore della tempesta che a Lui che dice “Non avere paura”? Troverà persone che hanno deciso di arrendersi al buio piuttosto che credere ad una luce nascosta di cui tu senti la presenza?
Tutta la fede cristiana non nasce da una visione ma da una Parola. La nostra fede viene dall’ascolto, non dalle visioni: le visioni sono evidenti ma, in questa vita, l’unica cosa evidente è che le cose non vanno. Ed una parola ci dice, invece “Non fidarti di quello che vedi, la vita vale la pena, la vita ha un senso”. Ma io vedo Signore che non ha nessun senso. “Tu fidati di me”.
Voglio concludere con la stessa sensazione che, credo, abbia messo Gesù addosso ad un uomo, ad un padre disperato di nome Giairo che cerca Gesù nella sua disperazione. C’è un momento, nella vita, in cui la sofferenza ci rende davvero dei poveri ed è lì che cerchiamo Gesù perché capiamo che ci manca qualcosa: tu puoi anche essere il capo della sinagoga,  puoi avere tre lauree, avere dieci milioni sul tuo conto in banca, puoi avere tutto sotto controllo, puoi essere la persona più onesta del mondo ma tutto questo non basta quando, ad un certo punto, la vita ti mette davanti a delle cose che sono più grandi di te. Quest’uomo è disperato, la figlia sta morendo, sono gli ultimi minuti di vita di questa bambina, e lui cerca Gesù in questa disperazione “Signore, vieni da mia figlia e guariscila” e Gesù si mise in cammino.
In realtà, succede qualcosa durante questo cammino, Gesù compie un altro miracolo ma perde tempo e, nel frattempo, questa bambina muore; allora, i servi di quest’uomo gli vanno incontro e gli dicono di lasciar perdere ormai, di non dare più fastidio a Gesù “perché tua figlia ormai è morta”; evidentemente morta, la morte come evidenza. Gesù fissa i suoi occhi negli occhi di quest’uomo e dice: “Tu continua solo ad avere fede” e si misero in cammino verso casa. 
Molte volte la vita ci dice che evidentemente è tutto finito: ricordatevi di questo Gesù che, invece, sussurra nel vostro orecchio “Tu continua solo ad avere fede”, tu continua soltanto ad essere ostinato, tu continua soltanto a credere a quello che senti essere vero nel profondo del tuo cuore: questa è la nostra fede, questa è l’ostinazione che ci salva, questo è ciò che ci riporta a casa, questo è ciò che rende la nostra vita piena di sapore, piena di sale. Una vita senza Gesù è una vita sciapita, che non ha più nessun senso, nessun significato: ad un certo punto, esauriamo il significato della nostra vita per quello che ci succede ma Gesù è l’unico che riempie sempre di significato la nostra vita. Avere Lui e rimanere aggrappati a Lui non significa avere una vita più semplice, ma una vita costantemente piena di sapore. Vi auguro che la vostra vita sia sempre così saporita e, quando toccherà a tutti noi finire il viaggio di questa esistenza, ricordate le parole di Don Tonino Bello “Fratelli miei che la morte vi trovi vivi”: questo è il segno della fede. La morte ci troverà vivi e sarà solo un passaggio per noi, sarà solo una Pasqua: allora sì che dalla parola passeremo alla visione e, quello che sentivamo essere presente, lo vedremo.
Può darsi che tutte le considerazioni fatte non siano vere oppure sì: solo noi possiamo decidere per che cosa vogliamo vivere. Da quello si capirà che fine faremo e che cosa succederà già da domani mattina.

domenica 15 settembre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - Amore sponsale che genera relazione (testo)



AMORE SPONSALE

che genera relazione

di Don Luigi Maria Epicoco






L’amore non è parlare bene dell’amore; l’amore, anzi, non ha niente a che fare con le parole. Ciò che si dirà non ha niente a che fare con l’amore vero perché l’amore vero è una scienza pratica, non è una cosa che si può praticare con le parole ma è una cosa che si fa. L’amore è un fatto, qualcosa che non è racchiudibile in nessuna dottrina, in nessun catechismo, in nessuna parola, in nessuna predica.

L’unica cosa che possiamo fare con le nostre parole o con la dottrina o con i nostri concetti è, semplicemente, indicare questo luogo concreto che è l’amore che è, appunto, una scienza pratica.

Credo che Paolo perda tempo nel declinare la carità, perché i cristiani di Corinto, come noi oggi, hanno (abbiamo) questo problema fondamentale di confondere gli sforzi sulle cose con le cose, di avere delle idee vaghe delle cose grandi della vita e di renderci conto che, le cose che contano, non sono le idee vaghe: l’amore non è un’entità astratta, l’amore universale non esiste. L’amore è sempre particolare: nessuno di noi campa di amore astratto! L’amore è quando tu incontri qualcuno, quando quell’amore diventa un volto, un nome, quando diventa un dettaglio: questo è il metodo di Cristo, di Dio Padre.

Dio Padre, per parlarci dell’amore, si è fatto dettaglio, si è fatto uomo. Ma non un uomo qualunque! Non è diventato semplicemente umano il nostro Dio! E’ diventato Gesù Cristo che è quel volto, che è quella persona, che è quel dettaglio.

Nell’indicazione di tutto questo, noi dobbiamo cogliere una lezione immensa: per parlare di queste cose grandi della vita, dobbiamo scendere sempre nel dettaglio, dobbiamo diventare molto pratici. Un consiglio che offro spesso, a persone che riescono a confessare o chiedono un consiglio, è di non avere paura di prendere i vostri preti o le vostre guide, di metterle al muro e dire “Spiegami praticamente che significa questa cosa”…cioè noi dobbiamo poter tornare a casa e aver capito praticamente in che senso funziona: non possiamo soltanto essere innamorati dell’idea che, da qualche parte, nascosto nell’universo, esista l’amore.

Ma come si fa l’amore? Noi abbiamo, forse, usato in maniera sbagliata questa espressione “fare l’amore”: l’amore è soltanto una cosa che si può fare, qualcuno ci deve insegnare a farla, a fare la carità.

Paolo stesso non scrive libri di teologia, le sue lettere non sono libri di teologia: esse sono grondanti di dottrina ma è la dottrina di un uomo che, mentre scrive, ha davanti a sé il volto di una comunità. Paolo non spiega la carità in astratto ma la spiega tenendo, davanti ai propri occhi, la comunità di Corinto. Permettete, brevemente, di dire perché Paolo fa questo discorso: Corinto è una chiesa bellissima, vivissima, stracolma di carismi, in essa si sperimenta tanto la varietà dello stile, lo Spirito Santo si esprime, in questa comunità, con carismi molto diversi. Già questa è una bellissima notizia perché, riscoprire il volto carismatico di una comunità, significa riscoprire che ciascuno di noi ha un dono particolare dello Spirto Santo. Provo ad essere concreto: è come se qualcuno di noi scopre di avere il carisma particolare della preghiera, un altro il carisma particolare di ascoltare gli altri, un altro il carisma particolare di predicare, un altro ancora il carisma particolare di soccorrere. Tutti questi carismi vengono fuori quando si comprende che il Signore non fa preferenza di persone: anche tra noi, ci sono questi carismi che, a volte, rimangono sotto la cenere e, forse, la prima grande domanda da farci è “Che carisma ha dato a me il Signore? Alla mia comunità? Alla mia porzione di Chiesa?”. Così, alzando di livello, dal personale arriviamo all’ecclesiale, domandandoci come lo Spirito Santo si sta manifestando in questo momento, risvegliare la parte ecclesiale di noi è già una buonissima notizia.

Corinto, appunto, è una comunità ricca di carismi ma, questo è anche il suo più grande problema, perché, a volte, noi pensiamo che basti riscoprire i propri carismi per dire di avere una chiesa. Invece, la comunità di Corinto vive la faziosità, cioè il fatto di capire che ciascuno è reso consapevole del proprio dono, ma lo contrappone all’altro: i carismi, nella comunità di Corinto, sono diventati un’occasione di divisione.

E’ paradossale: i carismi sono suscitati dallo Spirito Santo ma noi, invece di usare questo per fare chiesa, lo usiamo per contrapporci agli altri. Pensate alle suore di clausura in lotta con la caritas: uno pensa di essere meglio perché prega, l’altro perché vicino ai poveri…sono doni carismatici diversi, uno contemplativo ed uno attivo, ma ciascuno dice che uno è meglio dell’altro, ciascuno cerca di affermare il proprio carisma rispetto all’altro. Due cose bellissime preghiera ed aiuto al prossimo: eppure, queste due cose bellissime, possono diventare il motivo per cui in una chiesa si è separati, contrapposti, in lotta, in conflitto.

Questa è una buona notizia per ciascuno di noi perché, se la Sacra Scrittura ci racconta questo, è affinchè nessuno si senta a disagio se vive questo problema, cioè di aver riconosciuto in ciascuno di noi un particolare dono dello Spirito ed, allo stesso tempo, di sperimentare la miseria di essere divisi. Questo problema nasce perché ognuno di noi si sente a proprio agio in ciò che sta vivendo: quando una persona, per esempio, ha il carisma di pregare, si accorge di una grande efficacia della preghiera e vorrebbe convincere gli altri che è davvero efficace la preghiera; allo stesso modo, quando uno scopre il carisma di soccorrere un povero, avverte tutta l’efficacia di quel gesto e vorrebbe convincerne tutti. Così, passiamo molto tempo della nostra vita ecclesiale, a tentare di convincere gli altri che il nostro carisma è quello giusto. Tutto ciò nasce da un fraintendimento di fondo: Paolo scrive per cercare di chiarire come si possono tenere insieme carismi diversi. Chi ha ragione? Paolo scrive questo capitolo proprio per spiegare chi ha ragione e, lo fa, spiegando la differenza tra due parole: carisma e carità.

La carità non è carisma: il carisma lo si possiede (io ho un carisma) mentre la carità è il modo con cui io uso quel carisma. Ci si fa santi non perché si ha un particolare carisma ma per l’uso che si fa di quel carisma: la carità è il modo attraverso cui io esercito il mio carisma. E’ un po' come dire che io posso avere un meraviglioso carisma ed, allo stesso tempo, se non lo vivo come un modo di amare, quella cosa automaticamente non mi fa santo. Paolo usa parole che, quasi, sfiorano l’eresia perché dice…Se io avessi tutta la scienza, se conoscessi tutto il catechismo ma non lo usassi per amare, non servirebbe a niente…Poi fa un passaggio ancora più pericoloso e dice…Se io avessi la fede che sposta le montagne, ma non avessi la carità, non mi servirebbe a niente la fede. Noi possiamo andare a finire all’inferno avendo una immensa fede; vi dirò di più: c’è qualcuno che ha una fede più grande della nostra ed è il demonio, le più belle professioni di fede nel Vangelo, le fa il demonio. Uno non si salva perché ha la fede, cioè perché riconosce che Cristo è il Figlio di Dio, il Santo di Dio. La difficoltà del male è che non riesce a trasformare la fede in carità, in un modo di amare, non riesce a collegare il carisma con il modo: questo è paradossale per ciascuno di noi.

Forse, dovremmo fare un grande esame di coscienza personale, relazionale, ecclesiale e capire se abbiamo chiaro che non possiamo semplicemente esercitare ciò che abbiamo ricevuto, ma domandarci se il modo in cui lo esercitiamo, ha a che fare o meno con la carità: solo così risponderemo alla domanda se ci stiamo facendo santi o no!

Si è santi non per ciò che si ha ma per come si esercita ciò che si ha: spero sia chiaro questo che spiega Paolo. Aggiungo personalmente che, quando si parla di carismi, pensiamo sempre a cose positive ed, effettivamente, abbiamo dentro cose che abbiamo ricevuto dal Signore; ma, a volte, abbiamo cose che non abbiamo ricevuto nemmeno dalla nostra libertà: se ci si fa santi per il modo in cui si usa ciò che si ha, capite che uno deve farsi santo anche quando non si tratta di usare carismi. Per esempio, se si ha un cancro, deve chiedersi se è collegato alla carità cioè se vive la malattia con amore…non ci si fa santi soltanto perché si è nella sofferenza, ma solo se quella sofferenza diventa un modo di amare: questo ci fa santi, non la sofferenza in sé. Quindi, cose buone che abbiamo ricevuto da Dio, cose che abbiamo scelto noi: io, nel discernere vocazionalmente di farmi prete, ho pensato, ad un certo punto della mia vita, che un modo buono di amare, per me Luigi Epicoco, era quello di farmi prete. Qualcuno di voi ha scelto di sposarsi perché si è reso conto che il modo migliore di amare era investire in quella relazione. Ma ci sono cose che non abbiamo scelto noi e ci sono comunque: non possiamo soltanto pregare, dicendo al Signore di liberarci, ma dovremmo chiedere al Signore come si può vivere in carità, come trasformare in un modo di amare anche le cose che non ho scelto nella mia vita. I Santi sono coloro che esercitano in maniera eroica la carità, non quelli che sopportano in maniera eroica ciò che gli capita: i santi hanno trasformato in una occasione di amore ciò che poteva semplicemente essere una disgrazia.

Quando parliamo di carità, di amore, dobbiamo stare attenti perché, di solito, si pensa alla caritas e questo è un problema serio, perché la carità di cui si sta parlando qui, è al fondo della caritas ma non coincide con essa. E’ qualcosa che è al fondo della nostra struttura di essere cristiani; questo è un problema proprio di noi occidentali che, ad un certo punto, abbiamo diviso la sostanza dalla forma: ci sono cose che sostanzialmente sono quelle e, allo stesso tempo, quelle cose che sostanzialmente sono quelle, hanno una forma cioè un modo visibile di essere percepite. Noi non possiamo dire “sostanzialmente è amore poi il come, la forma in cui si manifesta, una cosa vale l’altra”: assolutamente no! Nel cristianesimo la forma è sostanza, non un amore qualunque ci santifica, non una forma qualunque di amore ci santifica: guardate che questa è la predica del mondo, il mondo ci dice che è amore…no, no, non qualunque amore ci santifica! Un amore con una forma particolare, una forma specifica: la forma di amore che ci santifica è Gesù Cristo. Egli è la forma dell’amore cristiano: quando noi pensiamo a cosa significa amare, stiamo pensando a come forma unica ed imprescindibile quella di Cristo. E quando dico Cristo, non parlo di qualcosa di vago o dottrinale, ma di Cristo crocifisso: questo è il centro della forma dell’amore. Che cos’è la croce? Quante volte si dice che la croce è la sofferenza, invece no: la definizione è amare fino a dare la vita, questa è la definizione. Quando diciamo che dobbiamo farci santi esercitando la carità, cioè trovando la modalità di vivere bene le cose che abbiamo nella vita, stiamo dicendo che dobbiamo trasformare tutta la nostra vita in un amore che dà la vita come Cristo crocifisso e risorto: è questa la forma migliore dell’amore! L’unica forma che ci salva è capire che tutto il nostro sforzo è imparare un amore così, un amore che abbia la forma di Cristo.

Non sono un interprete del Papa ma, credo, che quando dice che dobbiamo andare alle periferie esistenziali, dobbiamo stare molto attenti ad intenderci su cosa siano: Gesù non è stato crocifisso nella piazza principale di Gerusalemme ma fuori, nelle periferie, perché l’amore che dà la vita è un amore che si esprime così. Io non sono più il centro: l’amore è decentrarsi, è togliersi di mezzo perché chi stai amando diventa il centro. Allora Cristo, con il suo amore, che è amore crocifisso, ci insegna a decentrarci, ci insegna la periferia, a toglierci dal centro. Che cos’è l’amore? Togliersi di mezzo: non è più il nostro io il centro di tutto.

Questo è un problema serissimo: quando pensiamo all’esodo, pensiamo sempre al popolo di Israele per 40 anni nel deserto, che esce dall’Egitto, a quanto è antipatico questo Egitto, questo faraone. Ma, finchè pensiamo che il faraone è un nemico, che è fuori di noi, ci è semplice capire che l’esodo è una cosa buona. Se io vi dico, invece, che quel faraone è il nostro io, che la battaglia più grande, noi la facciamo contro noi stessi, questo è il nostro problema: il nostro amore è un continuo lasciare la schiavitù d’Egitto del nostro io, per uscire fuori verso una terra promessa, l’altro, il nostro fratello, le persone che abbiamo di fronte, sono la nostra terra promessa. E’ un viaggio mai concluso quello del nostro esodo, è un cammino costante di liberazione, perché il faraone ci ripensa sempre, vuole di nuovo riportarci nell’Egitto: il nostro io vuole costantemente tornare al centro e, noi, costantemente dobbiamo amare di amore crocifisso, di un amore che dà la vita e che sa farsi periferia, che sa scegliere di decentrarsi, di non essere più lui il centro. Sapete quante patologie relazionali, familiari, ecclesiali, guarirebbero se cominciassimo a leggere tutto in quest’ottica! La rabbia verso la moglie o il marito nasce dal fatto che la moglie o il marito non corrispondono a quello che il proprio io ha stabilito: io sto male perché tu non sei come io volevo…Non è più…tu sei importante…è che tu non ti sei accorto di quello che volevo io, perché sono io il centro, volevo questo, volevo quello: questo non è un amore che ci salva.

Allora, imparare la carità significa imparare la periferia, imparare a decentrarci, a toglierci di mezzo, a fare emergere l’altro, il tu. E questo ci risulta sempre molto difficile perché noi non capiamo che il Signore, anche quando ci dà un carisma, non lo dà mai per noi: il Signore mette in mano a me un pezzo di pane per dare da mangiare a mio fratello, non mi dà il pane perché lo mangi io, ma vuole che la mia fame sia saziata da un altro, e con il pane che ho in mano io, devo saziare un altro ancora…questa è la chiesa. E’ accettare che abbiamo bisogno dell’altro, che il pane che io ho in mano non serve a saziare me: uno può avere il dono della parola, io posso dare consolazione agli altri, ma le parole che dico agli altri a me non servono a niente, io sono nell’inferno totale. Ciò che il Signore ci consegna come un dono, ce lo consegna come un dono per gli altri, non per noi stessi: questo spalanca i carismi alla chiesa. Se io ho ricevuto un dono, non l’ho ricevuto per me ma per un altro, io non posso farmene nulla di questo dono. Il male, invece, ci mette in mente una menzogna, la menzogna dell’autosufficienza: io non ho bisogno dell’altro perché il pane ce l’ho in mano io. Noi, invece, abbiamo costantemente bisogno dell’altro: un prete, nemmeno un vescovo o il Papa, possono assolversi da soli. Io ho la facoltà di assolvere gli altri ma ho bisogno che qualcun altro assolva me. Questa rete di bisogno l’uno dell’altro è la chiesa: in questo senso, fuori dalla chiesa, non c’è salvezza. In questo senso, noi abbiamo bisogno di chiesa e capite che è una tentazione dire di non aver bisogno della chiesa. Non sto dicendo che la chiesa è sempre bellissima ed è sempre corrispondente a quello che mi aspetto: nonostante sia sgarrupata, brutta, accidentata, peccatrice, io ne ho bisogno. Senza la chiesa io non sono sazio, non posso saziarmi del pane che ho in mano perché esso può saziare un altro ma io ho bisogno del pane degli altri. La comunione è rendersi conto di quanto noi abbiamo bisogno di chiesa: questo è ancora più profondo del bisogno che abbiamo di collaborare. In tante diocesi del mondo, c’è una fatica enorme a far collaborare, a coinvolgere ecc…perché noi pensiamo che la comunione sia una collaborazione. La comunione per noi è vitale, senza di essa noi non abbiamo salvezza, non abbiamo Cristo che non ci ha dato semplicemente il messaggio evangelico, ci ha dato anche la chiesa, il modo.

Questo è il motivo per cui Paolo perde tempo con la comunità di Corinto a dire…Amici non ve ne fate niente dei vostri doni, se non capite che quei doni li dovete spendere per gli altri, per la chiesa, che quel dono deve edificare la chiesa, che tu devi amare dando la vita ad un altro…anche se tu hai la fede e fai miracoli, quel dono non ti salverà. Anche se tu, un giorno, morissi per i tuoi ideali ma senza questa dinamica di carità, non ti servirebbe a nulla morire.

La carità ci salva. Ma che cos’è la carità? Di che è fatta? Quali sono le istruzioni d’uso della carità? Come noi potremmo cominciare a dire, guardando a noi stessi, praticamente, che cosa significa vivere una carità che santifica, che edifica la chiesa. Ecco, allora, le parole di Paolo: sarebbe necessaria una conferenza per ciascun versetto, ma cercherò di dire qualcosa aiutato da quello che dice il Papa, aggiungendo qualcosa che ci aiuti a renderlo attuale nelle nostre dinamiche personali ed ecclesiali.

Paolo, per prima cosa, dice che la carità è paziente: la prima manifestazione della carità è avere pazienza. Noi confondiamo la pazienza con la tolleranza, ma la pazienza è accettare che l’altro non è riducibile a quello che io mi aspetto di lui. Perché noi perdiamo la pazienza? Perché ci accorgiamo che la persona che abbiamo di fronte non è così come io me l’aspettavo, non do il diritto a quella persona di essere diversa, di essere libera, misteriosa, di poter sbagliare. Noi manchiamo di pazienza quando non lasciamo che le persone siano reali. Se, quando mi sono sposato, avevo in mente che mia moglie fosse così e, poi, mi accorgo che non è così, io non ho pazienza; comincio ad avere pazienza quando accetto che la donna che ho sposato, reale ,può e deve essere diversa da quella che mi sono disegnato nella testa, che amare significa lasciare che quella persona sia reale e deluda ciò che avevo immaginato. Uno è paziente quando permette all’altro di essere se stesso. Questa cosa, ad esempio, per i sacerdoti si verifica quando si aspettava qualcosa dalla comunità e non accade ecc…Per quanto noi ci abbiamo costruito e sognato su qualcosa, quello che abbiamo davanti, essendo reale, ha il diritto di essere diverso da quello che io mi aspetto nella testa. L’amore è accettare la diversità che c’è tra il mio ideale e la realtà: io pensavo che tu fossi…invece sei…io amo ciò che sei, non ciò che dovresti essere per me. Questa è la pazienza e, per forza, così intesa, deve essere unita alla benevolenza: la benevolenza è cercare di guardare e promuovere il bene dell’altro, non è semplicemente sopportare che l’altro esista, perché sarebbe semplicemente tolleranza (tolleranza non è una parola cristiana perché significa schifare gli altri ma, per una civiltà di fondo, non farci del male). No! A me interessa il tuo bene: per fare un esempio pratico, pensiamo ad un padre ed un figlio. Quando è nato quel figlio, ci ho sognato sopra, quanto volevo che diventasse un dottore…poi invece, vuole fare il musicista…allora lo tollero, cioè non condivido minimamente le sue scelte, ma lo tollero perché non possiamo litigare tutti i giorni in casa. Questa è tolleranza ma non è amore: l’amore è imparare ad accettare che tu lo volevi medico ,ma è un musicista e tu devi amare il musicista, andare ai concerti anche se non vorresti andarci, promuovi il suo bene perché l’amore non è un sentimento ma è decidere la nostra libertà, è uscire da noi stessi, è decentrarci. Morire in croce è una cosa che fa male, perché è difficile togliersi di mezzo, è difficile rinunciare al medico che volevo io ed accettare il musicista: pazienza e benevolenza sono lo sforzo di fare questo. Ora calate questo esempio nella dimensione ecclesiale.

La carità non è invidiosa: l’invidia è la tristezza per il bene degli altri, siamo invidiosi perché pensiamo di mancare di quello che gli altri hanno. Nel linguaggio popolare, si dice che l’erba del vicino è sempre la più verde. Anche in questo caso, tutto questo capita perchè noi siamo al centro. Perché non godiamo del bene degli altri? Perché siamo ancora noi al centro; se uno si decentra, allora, comincia a godere, comincia a dire…sono felice. Anche qui non c’è carità, perché carità è questo sforzo di togliersi di mezzo e di godere.

La carità non è vanagloriosa, non si gonfia: la vanagloria è fare una cosa buona ed usarla per affermare noi stessi. E’ un po' godere del bene perché, quel bene, fa emergere di più me. Il vanaglorioso usa sempre la parola “io”; il contrario, la discrezione è l’amore più bello: pensate ad una madre che si sveglia presto la mattina, senza che nessuno se ne accorga, fa quello che deve fare, senza che nessuno se ne accorga e senza che nessuno le dica grazie. L’amore non è vantarsi del bene che si fa, l’amore è vivere il gusto di fare le cose senza fare emergere noi stessi. Questo si manifesta nella capacità di ascoltare: chi è vanaglorioso non riesce ad ascoltare gli altri, parla sempre di sé. Ieri sera, tornando a casa, ho incrociato una universitaria che vive con me, alla fermata metro e questa ragazza tornava da un turno con l’equipe di strada che portano da mangiare ai poveri, e mi diceva una cosa molto bella: uno esce da casa, col freddo, per andare a portare il panino al povero perché, fondamentalmente, ha bisogno del povero cioè ha bisogno di poter dire “io faccio questo”. Il panino arriva al povero ma, capite, che quella carità non ci santifica, perché la carità che ci santifica è accorgerti che, mentre porti il panino, quel povero è infastidito e non gli importa nulla che gli stai portando quel panino, perché la vita lo ha incattivito, lo ha reso aggressivo. Allora ci resti male e dici…come? Vado a portare il panino e mi maltratta. Certo! Perché per te i poveri sono l’oggetto che ti fa star bene e, quindi, quando cade la visione poetica e romantica dei poveri, non ti servono a niente. Spesso, invece, i poveri non vogliono da mangiare ma vogliono essere ascoltati. Sono rimasto impressionato una volta quando, uscendo dalla mia parrocchia, c’era un ragazzo che chiedeva l’elemosina e gli ho chiesto come fosse andata. Mi ha risposto, in un italiano stentato, ed ha detto “Nessuno mi ha guardato negli occhi”: fratelli miei, non è la filantropia che ci fa santi, è la carità che ci fa santi. E la carità è accorgersi dell’altro, non semplicemente della pancia vuota dell’altro. Il vanaglorioso non ha bisogno dell’altro ma che l’altro abbia bisogno: noi abbiamo bisogno del povero per noi stessi, abbiamo bisogno della sua pancia vuota per noi stessi. Invece, molto spesso, scappiamo da quella sensazione di impotenza, di non poter far nulla per queste persona se non ascoltarle. Che hai fatto oggi? Niente! Non ho potuto fare niente, l’amore è una faccenda inutile cioè non ha un utile, non deve avere utile. Il vanaglorioso no: usa il bene – e si potrebbe obiettare “ma quello è un bene” – certo, ma per affermare se stesso e, questa, non è carità.

La carità non manca di rispetto: mancare di rispetto significa far giungere all’altro, costantemente, uno sguardo di giudizio. E’ un po’ come se una persona, effettivamente, ha fatto delle cose sbagliate nella vita e viene sempre guardato con giudizio, mai con fiducia. E questo ci rende arroganti, anche se abbiamo ragione: non basta avere ragione per giustificare la nostra arroganza. Non è possibile che uno sia dalla parte della ragione, dalla parte di Cristo e questa cosa lo renda arrogante, e questa cosa giunga agli altri come giudizio. Io sono l’ultimo prete del mondo, ovvero un filosofo di montagna, ho fatto i miei studi in teologia ma non mi reputo neanche un teologo, insegno filosofia e non voglio nemmeno entrare nella questione dell’Amoris Laetitia, anche perché spesso sono questioni mediatiche; ma voglio dirvi che la cosa che ci sfugge, nell’insegnamento di Papa Francesco, è che non è possibile che il nostro essere cristiani giunga sull’altro come giudizio, con tutta la ragione che abbiamo. Nessuno mette in dubbio che quello che stiamo dicendo è vero, ma non può giungere come un giudizio, non può giungere con arroganza sugli altri. Che ne sappiamo noi della sofferenza delle persone? Non è possibile che uno dica “La prima forma di carità è la verità”: certamente, è la verità ma la verità che si dà nell’umiltà. Ancora una volta la forma è sostanza. Le persone che conducono l’adultera davanti a Gesù stanno dicendo una cosa vera, l’hanno presa in flagrante adulterio, quella donna ha tradito e nessuno mette in dubbio che sia sbagliato tradire il proprio marito, ma lo sguardo che hanno queste persone nei confronti di quella donna è di giudizio. Gesù non vuole mettere in discussione la tesi che la fedeltà sia una cosa importante, ma vuole mettere in discussione lo sguardo di queste persone e riaffermare la tesi che la fedeltà è una cosa importante: Gesù vuole che di nuovo si faccia pace tra forma e sostanza.

Un cristiano non può essere arrogante: ora come si fa ad essere umili, vorrei dirvelo ma non lo so. Certamente, però, mi domando spesso se le cose che ho capito e reputo vere nella mia vita, giungono agli altri come giudizio.

La carità non cerca il proprio interesse: San Tommaso dice che è più proprio della carità, amare che non voler essere amati, il che è esattamente il nostro contrario. Nessuno mi scolta, nessuno mi accoglie, nessuno ha cura di me…Cristo dice “Fallo tu”. Ma nessuno lo fa con me! Fallo tu. Vuoi essere amato? Ama tu. Vuoi essere ascoltato? Ascolta tu. Trasforma la tua frustrazione in resilienza, trasforma quello che a te manca in quello che devi fare, trasforma quello che ti fa soffrire in quello che devi fare tu per primo. E’ un’indicazione a te il dolore che provi.

La carità non si adira: quando l’altro è un nemico, le relazioni sono sempre di competizione e non di amore. Quando uno si adira non è una questione esterna, è interna, è un fastidio interno che proviamo nei confronti delle persone perché l’altro non è visto come qualcuno da amare, ma come uno che è in competizione con me, è un nemico. Il problema è che nessuno può dircelo se noi non siamo leali con noi stessi. Attenzione! Norma basilare: in tutto ciò che stiamo dicendo, dobbiamo fare una grossa differenza, così lo abbiamo moralmente chiaro: non è che se uno sente l’invidia, automaticamente ha commesso peccato. Uno commette peccato quando sente l’invidia e acconsente all’invidia che sente. Non si possono cambiare i sentimenti che si provano: cioè se, per come sono fatto io, mi si gira lo stomaco quando vedo qualcuno, questi sono sentimenti ma non è peccato. E’ peccato quando quella cosa che senti, ad un certo punto, diventa una scelta; per esempio mi fa parlare male, mi fa agire male. Quindi, S. Paolo non è uno sprovveduto che sta dicendo “Adesso non dovete più sentire invidia”…No! Non dovete più acconsentire all’invidia che sentite. Ho fatto una conferenza sulle famiglie, a Perugia, un signore mi ha detto “Padre, lei mi deve spiegare una cosa: io ho partecipato ad un ritiro, ed ho sentito così grande l’amore di Dio nella mia vita, che ho ringraziato Dio perché mi sono sentito amato. Poi, il pomeriggio, sono tornato a casa, ho litigato con mia moglie e la volevo buttare dal settimo piano. Come è possibile questa cosa, che la mattina mi sono sentito amato dall’amore di Dio ed il pomeriggio…?”. Ho detto a questo signore “Ma l’hai buttata dal settimo piano?” “No”. E allora questi sono i santi: i santi sono quelli che vogliono buttare le persone dal settimo piano e non lo fanno. Non sono quelli che non hanno questo sentimento. Attenti, altrimenti dovremmo fingere di essere altre persone: noi siamo persone che sentono tante cose contraddittorie ma decidono di non farlo. La carità è prendere una decisione sulle cose che sentiamo: ecco perché non è un’indole e non ci viene semplice, ecco perché è una cosa che si fa e che non ci viene spontanea.

San Paolo, concludendo, scrive così “La carità tutto scusa, tutto crede, tutto spera e tutto sopporta”. Papa Francesco, nell’Amoris Laetitia, dà delle definizioni e dice che l’espressione “tutto scusa” non significa che ci facciamo piacere tutto; le persone che tutto scusano sono quelle che evitano di sottolineare il male degli altri, il male intorno, non propagano il male, la maldicenza, lo sparlare. Uno che scusa è uno che non dà il microfono alle cose negative, non parla del male non perché lo nasconde ma perché non gli dà il microfono, non presta se stesso. Uno si accorge del male dell’altro ma non sparla del male dell’altro.

Tutto crede: è impossibile tirar fuori il bene dagli altri se non mi arriva la fiducia, se tu non credi in me. L’amore che non dà fiducia non serve a niente perché, soltanto quando una persona sente addosso la fiducia dell’altro, tira fuori il meglio di sé. Se io non credo in te, non ti sto amando. Bisogna dare fiducia alle persone, smettere di controllarle, fidarsi. Ma uno dice…L’ultima volta che mi sono fidato, mi ha tradito…Quante volte Signore dovrò perdonare mio fratello, 7 volte? Capite quante volte noi dobbiamo rimettere in gioco la fiducia? Tu mi hai tradito? D’accordo, io ti perdono ma mi dai la password facebook e l’accesso al cellulare, così mi fido. Certo così è facile fidarsi.

La fiducia è un elemento fondamentale dell’amore.

Tutto spera: il Papa scrive che la speranza è dire che devi sempre ricordarti che, magari, molte cose non riuscirai a cambiarle nella vita, ma Gesù Cristo ha già vinto in quella faccenda. Tuo marito sarà così per sempre, quella comunità non la raddrizzi, si porterà quella cosa per secoli, ma Gesù Cristo ha già vinto e questo ci fa tornare a sperare, a dire che le cose possono cambiare e che le cose che non riusciamo a cambiare, alla fine, cambieranno perché il Signore ha già vinto. Una visione più globale, una speranza più grande.

Tutto sopporta: credo che sia la definizione più bella dell’amore cristiano. E’ l’amore malgrado tutto. Tutto sopporta significa che non importa quello che sta accadendo nella mia vita, amerò malgrado tutto quello che sta accadendo nella mia vita, amerò così.

Concludo con una storia che a me ha impressionato moltissimo. Una donna calabrese va a fare un pellegrinaggio a Loreto; questa donna, madre di due figli, portatori entrambi di handicap gravissimi, va a Loreto e dice “Io non chiedo alla Madonna la grazia di guarirli ma la grazia di farmi morire dopo di loro, perché io possa avere cura di loro fino alla fine”. Questo è l’amore malgrado tutto: è rendersi conto che, a volte, le cose non cambieranno, che quei figli saranno così per tutta la vita e, nonostante questo, invece di inveire, si trasforma quella cosa drammatica e tragica in un modo di farsi santi. Ti chiedo questa cosa Signore, fammi morire dopo di loro perché io possa accudirli per tutta la loro vita: questa è la carità che ci fa santi, tutto il resto sono imitazioni del demonio che non conducono da nessuna parte, è l’amore del mondo che scimmiotta l’amore di Cristo ma non salva. Allora credo che, ciascuno di noi, davanti a questa declinazione della carità di Paolo, possa riguardare se stesso, ciò che ha, i propri carismi, possa rendersi conto che la chiesa che viene edificata non lo è dai carismi ma dalla carità, che in una chiesa possono anche esserci pochissimi carismi ma è la carità che edifica la chiesa. La carità è un’unione profondissima tra la grazia di Dio e la mia libertà: non è una faccenda solo di Dio la carità, ma è una faccenda anche della nostra libertà. Se noi non decidiamo di amare, l’amore non ama al posto nostro, ma se Cristo non ci avesse amati, nessuno di noi potrebbe veramente decidere di amare.




















mercoledì 4 settembre 2019

Don Luigi Maria Epicoco - Fate quello che vi dirà (testo)



FATE QUELLO CHE LUI VI DIRA’
La forza di quell’avvenga per me

di Don Luigi Maria Epicoco

Faremo un piccolo percorso perché il tema mette insieme due pagine del Vangelo: le nozze di Cana e l’Annunciazione. Prima di entrare nel cuore del tema, penso sia molto importante che io dica una cosa impopolare. Impopolare perché? Perché il nostro mondo non funziona secondo quello che vi sto per spiegare e, siccome noi viviamo nel mondo, molto spesso, la nostra mentalità ha a che fare con quella del mondo. Pertanto, mi scuso se, in questa prima parte - che non entrerà subito nel cuore del tema – dirò una cosa impopolare ma spero possa aiutarvi a fare una rincorsa per capireil tema che si affronta.
La domanda che apre la nostra riflessione è questa: come ha potuto Maria ascoltare la voce dell’Angelo? Come è possibile che questa donna, ad un certo punto, ascolti la Parola di Dio che le arriva attraverso l’Angelo?
La seconda grande domanda: come ha potuto Maria accorgersi che ad una festa, come quella delle nozze di Cana, manca il vino. E’lei che se ne accorge! Il Vangelo ci dice che è questa donna ad avere occhio, ad avere l’accortezza di capire che quella festa sta per trasformarsi in una tragedia. Come è possibile tutto questo?
Credo che se non rispondiamo a questa domanda, tutto ciò che diremo sarà bello ma non sarà vivibile per ciascuno di noi, perché tutte le cose belle che possiamo dire di Maria, della libertà del Vangelo, sono vere e belle soltanto se anche noi possiamo viverle. Noi possiamo vivere quelle cose belle e vere che incontriamo nel Vangelo e, soprattutto, in quella pagina straordinaria che è Maria. Maria ha una capacità di ascoltare ed accorgersi (tenete a mente questi due verbi perché sono i due verbi della vita interiore): Maria ascolta la parola dell’angelo Gabriele e si accorge che manca il vino alle nozze di Cana.
Perché vi ho detto che questa prima parte sarebbe stata impopolare? Perché viviamo in un mondo, in una cultura, in un modo di stare al mondo, che non ci fa vivere dentro di noi ma ci fa vivere fuori di noi. La grande predica del mondo non è sull’interiorità ma sull’esteriorità, cioè sul pensare che la cosa più decisiva della nostra vita, accade fuori di noi e non dentro di noi.
Nella storia della Chiesa, c’è un personaggio straordinario che è Agostino: è un convertito, uno che ha vissuto la sua vita con la sua intelligenza, la sua retorica, le sue doti ma, nel cuore di questa vita che sembra realizzata, Agostino ha un vuoto enorme, una insoddisfazione enorme, un buco enorme. Ecco, in quella mancanza, in quella insoddisfazione, Dio si fa spazio, lo mette in crisie, incontrando alcune persone decisive dentro la sua vita, Agostino si converte. Ricordate che la conversione nella vita di una persona – cioè l’incontro reale con Cristo - non avviene mai per ragionamento, avviene sempre perché incontriamo qualcuno: quando il catechismo ci dice che la chiesa è sacramento universale di salvezza, non sta parlando tanto del diritto canonico, né delle pareti di un tempio. Si sta dicendo quello che è la chiesa in sostanza cioè un intreccio di relazioni e, proprio questo intreccio di relazioni, è il sacramento che Dio usa per salvarci. Qual è la chiesa che Agostino incontra per salvarsi? Sua madre Monica, poi il Vescovo Ambrogio, Simpliciano, persone che gli sono amiche, che entrano dentro la sua vita e lo raccolgono da una situazione di crisi.
Ecco, noi incontriamo la chiesa quando incontriamo delle relazioni decisive che, ad un certo punto, ci portano all’incontro con Cristo. Perché abbiamo citato Agostino? Perché, dopo la conversione, nel libro delle “Confessioni”, Agostino dice…Ti cercavo ovunque, Ti cercavo nelle creature, Ti cercavo intorno a me, Ti cercavo nei ragionamenti, mi gettavo nelle creature, nel piacere, nella gioia che era nel mondo, in una grande esteriorità e Tu, invece, eri dentro me stesso, eri più intimo di me a me stesso…E’ molto interessante quello che scrive Agostino: sta dicendo che tutto quello che stiamo cercando dentro la nostra vita è  dentro di noi. Non lo dobbiamo cercare come si cerca qualcosa in una mappa, non dobbiamo cercarlo pensando– questa è la più grande tentazione –che la felicità esiste ma non è qui, è in un altro posto, che la felicità esiste ma non è in questo momento ma in un altro momento della nostra vita. La scoperta di Cristo è quella di accorgersi che tutto quello che tustai cercando, non lo devi aspettare come qualcosa che deve accadere, è qualcosa che è nascosto dentro di te. Scrive Agostino << In interiore hominehabitat veritas>>: è nell’interiore di noi, nel cuore di ognuno di noi, che abita la verità. Allora la più grande rivelazione cristiana non è andare in un posto, non è dire “arriverò a quegli anni e quelli saranno gli anni decisivi per me”…immaginate, per esempio, un giovane che dice “aspetto i 18 anni…” poi arrivano e non succede nulla! Allora uno dice… “dai facciamo 25 anni, solitamente il mezzo secolo è una bella tappa”…e, poi, sono finiti i 20 anni e cominciano i 30, finchè cominci a dire… “abbiamo tempo ci sono i 40 anni”…poi arrivano i 40 e mi sento ancora giovane, i giovani adulti, tutti modi di dire che stiamo aspettando che qualcosa accada in un tempo della nostra vita, in un tempo che ancora non riusciamo a vedere tant’è vero che, quando stiamo male, facciamo due cose fondamentalmente: o ci nascondiamo o non riusciamo a stare in un posto…sempre cambiare, cambiare, cambiare…oppure dobbiamo dormire, dormire, dormire… Sono due modi per non stare dentro la realtà: una persona si converte quando si accorge che tutto quello che sta cercando è qui, che tutto quello che sta cercando non è in un altro giorno ma in questo giorno, non è in un altro posto ma è in questo posto, in questo luogo cioè il posto, la geografia è il tempo in cui noi cantiamo le cose decisive della nostra vita, la nostra interiorità.
Per questo il mondo non vuole che noi entriamo dentro la nostra interiorità, perché se una persona entra dentro se stessa, sperimenta la libertà, sperimenta l’incontro con qualcosa che gli libera la vita, perché è l’incontro con un senso che riempie la sua vita. Chi sono le persone felici? Sono le persone che sonorealizzate? Non proprio! Le persone felici sono quelle che avvertono che, in tutto quello che stanno vivendo, c’è un significato. Tu non puoi dire “sarò felice se mi realizzerò in questa cosa o quest’altra” perché, a volte, la vita non ti dà l’opportunità di realizzarti in quel modo; la felicità è avvertire però che tutto quanto tu stai vivendo, anche la cosa più difficile, anche la cosa più faticosa, più brutta, è attraversata da un significato. E dov’è che ti accorgi che la tua vita è attraversata in un significato? In un libro? In un posto speciale? Dentro di te! Le persone libere sono le persone che si sono accorte di un avere un dentro e non semplicemente un fuori nella loro vita, si sono accorte che, la propria esistenza, non vale per la propria esteriorità ma per la propria interiorità. Allora la più grande rivoluzione che possiamo portare in questo mondo è portare l’impopolarità dell’interiorità, è portare in un mondo che ci spinge fuori, che ci spinge a riempire la nostra vita di tante cose per non pensare, in un mondo così – invece – fare noi qualcosa di trasgressivo: portare ciò che è dentro noi stessi, imparare la vita interiore.
La vita interiore (che non è ancora la vita spirituale, perché coltivare la vita interiore non significa ancora avere imparato che cos’è la vita spirituale… ma ci arriviamo nella grande rincorsa di cui dicevo all’inizio)…Nessuno può pensare di essere libero se non riscopre la propria interiorità, nessuno può dire davvero di poter sperimentare la libertà, se non si allena alla propria interiorità. E l’interiorità è fatta di tappe, a volte molto faticose, tappe che il mondo non favorisce: tu devi strappare, con tutto te stesso, le cose che sto per dirvi dalla mentalità del mondo.
La prima è la capacità in silenzio: una persona impara che cos’è la propria interiorità quando si allena al silenzio. Il silenzio è fatto innanzitutto a livello fisico: abbassare il volume di tutto ciò che riempie la nostra esistenza. Sapete, ci sono delle volte che noi non riusciamo a rimanere da soli, fermi, in un posto senza tenere qualcosa che parla: la tv, della musica, qualcosa che riempia il nostro silenzio. C’è una cosa che ci spaventa tantissimo: è il silenzio! Invece, noi dovremmo imparare ad allenarci al silenzio: dovremmo dire che, prima ancora di dire se sappiamo pregare, dobbiamo domandarci se noi ci siamo mai allenati a stare in silenzio, a viverci il silenzio, ad avere degli spazi, dentro la giornata, che sono spazi di silenzio. Non dico ore ed ore, però, la vita di una persona comincia a cambiare se, ogni giorno, quella persona ha la costanza di prendersi 10 minuti di silenzio. Sapete come traduce il Vangelo il silenzio? Con una immagine bellissima e dice: “Entra nel segreto della tua stanza”.
Perché a noi non piace il silenzio? Perché ci fa fare i conti con noi stessi e noi non vogliamo fare i conti con noi stessi; perché ci fa toccare, a volte, l’angoscia che ci abita; il silenzio ci fa toccare il vuoto che attraversa il nostro cuore. Siamo spaventati dal silenzio; eppure, non conosciamo nessuna via che ci riporti più autenticamente a riscoprire l’interiorità, se non il silenzio. Il Vangelo ci dice che Maria era capace di silenzio e lo dice a più riprese, soprattutto perché, nel Vangelo, Maria fa ma parla pochissimo e, quando fa qualcosa o parla, il Vangelo subito chiosa le sue parole o azioni, dicendo:“Ella serbava tutte queste cose, meditandole nel proprio cuore”. Allora, soltanto dopo che ci siamo allenati al silenzio, significa che abbiamo varcato la grande porta della nostra interiorità. Immaginate questo viaggio dentro di noi, questa capacità di entrare dentro di noi, come una persona che comincia a fare sport; nessuno può fare sport senza riscaldamento, senza prepararsi con un adeguato riscaldamento, altrimenti gli esercizi fanno male, non sono salutari. Allora cosa ci prepara alla preghiera? Allenarci al silenzio.
Amici miei, questo allenamento è fatto su ciascuno di noi ed è a misura di ciascuno di noi: magari a uno basta un mese vissuto nell’allenamento di 10 minuti di silenzio al giorno per cambiare la percezione della sua interiorità; un altro, invece, deve lavorare 10 anni su questo silenzio… ma non scoraggiatevi! E’ sicuro che, se noi non impariamo il silenzio, significa che non possiamo nemmeno entrare in quel luogo in cui si manifestano le due cose decisive della vita, che Maria si porta addosso: ascoltare e accorgersi.
Non avete anche voi il desiderio profondo di dire: ma qual è la volontà di Dio nella mia vita? Quando una persona si fa una domanda vocazionale, cioè una domanda alla quale rispondere per dire che la propria vita ha trovato un senso, la domanda vera è questa: che cos’è che rende la mia vita significativa? Volete che qualcuno risponda a questa domanda? Allora dovete allenarvi all’ascolto, perché a questa domanda non si risponde per ragionamento, non si risponde per logica, si risponde perché qualcuno ci risponde a questa domanda.
Noi siamo cristiani e credenti, pensiamo che la fede è un fatto decisivo dentro la nostra vita, perché sappiamo e crediamo che le domande più importanti della nostra esistenza hanno una risposta, non servono semplicemente a metterci in crisi. Le domande significative della nostra vita non servono semplicemente ad inquietarci, a toglierci il sonno: hanno una risposta! E Dio muore dalla voglia di rispondere a queste domande, ma se noi siamo capaci di ascoltarLo.
Solo se una persona si è allenata nell’interiorità, può avere anche la pretesa di dire: Gabriele mi sta parlando, mi sta rivolgendo un saluto, mi sta portando un annuncio. L’annuncio di ciò che è significativo dentro la nostra vita, inizia quando comincia il silenzio.
La seconda parola impopolare, dopola parola silenzio, è la parola solitudine; quando noi pensiamo alla solitudine, non dobbiamo pensarla come ad una forma di isolamento, né di punizione o fuga dagli altri, ma è la grande capacità, a volte, di staccarci da tutto quello che ci trattiene dal tornare dentro noi stessi. Tutti noi, ad un certo punto, abbiamo bisogno di questa solitudine: è bisogno di prendere distanza con quello che uno sta vivendo.
Noi siamo spaventati dalla solitudine, perché la nostra generazione è ferita soprattutto nelle relazioni, e la maggior parte delle ferite che hanno a che fare con le nostre relazioni, sono ferite di abbandono: chi doveva amarci non lo ha fatto come avrebbe dovuto e, quindi, noi abbiamo sperimentato il dolore di sentirci abbandonati, non voluti, non accettati ed abbiamo paura della solitudine perché, molto spesso, ci ricorda l’essere abbandonati, l’essere da soli, non avere nessuno. La solitudine, invece, è necessaria nell’incontro con noi stessi e nell’incontro con Dio. Cosa ci prepara ad entrare dentro noi stessi? La capacità di stare un po' da soli, di prenderci un tempo per noi, un tempo di silenzio ed un tempo da soli.
Ma queste due cose non servono a nulla se non ci aggiungiamo questa terza parola: fedeltà. Che cos’è che ci fa crescere in un percorso di riscoperta della nostra interiorità? La costanza. Amici miei, non importa la quantità, non importa che noi passiamo ore ed ore a fare quello che sto dicendo! Bastano anche pochissimi minuti ma avere la costanza di vivere quei minuti quotidianamente; cito spesso la fiaba del Piccolo principe…la volpe cerca di spiegare al piccolo principe che cosa significa addomesticare e gli dice “ogni giorno io verrò qui alle 4, e mi metterò lontanissimo da te perché ho paura, non ti conosco e ci vedremo ogni giorno lì alle 4, ma ogni giorno mi avvicinerò sempre un po' di più. Ogni giorno, questo rito di vederci lì alle 4, ci avvicinerà fino al punto in cui io sarò vicino a te e non avrò più paura di te. Da quel momento in poi, tu mi avrai addomesticato”.., Ecco,  se noi non impariamo costanza e fedeltà, ci comportiamo come quelli che partono con grande entusiasmo, durano un paio di giorni e poi dicono….allora, dopo due giorni di palestradove sono gli addominali?...la costanza! La fedeltà! Non c’è interiorità senza fedeltà.
Siamo alla terza parola: silenzio, solitudine, fedeltà. Vedete come il mondo ci dice il contrario?Rumore, parole continue, stare sempre con qualcuno e mai da soli, quando ti annoi di qualcosa cambia, non essere fedele…questo dice il mondo.
La quarta parola che penso sia importante è la parola sincerità. Non si può avere nessuna vita interiore se non si è leali con noi stessi. Per essere leali con noi stessi, abbiamo bisogno di qualcuno che ci voglia autenticamente bene e ci aiuti a fare verità su noi stessi, ad insegnarci ad essere sinceri con noi stessi. Se leggete l’esortazione apostolica scritta dal Papa dopo il sinodo dei giovani, “Christusvivit”, il Papa dedica uno spazio agli accompagnatori spirituali e dice che, nella chiesa, bisognerebbe istituire un ministero appositamente per far questo, cioè accompagnare spiritualmente le persone, soprattutto i giovani.  A cosa serve uno che ti accompagna spiritualmente? Non a rispondere alle tue domande. A cosa ti serve una persona che ti accompagna? Non a toglierti le castagne dal fuoco. Una persona che ti vuole autenticamente bene e ti accompagna spiritualmente è una persona che ti aiuta a fare verità su te stesso. Voi avete una persona da cui accettate la verità su voi stessi? Avete una persona che vi può dire esattamente quello che siete, senza sentirvi offesi, senza mettervi sulla difensiva…? Vi sentite talmente voluti bene che questa persona può aiutarvi a fare verità su voi stessi, cioè vi può dire…Siate sinceri…
Come agisce il male nella nostra vita? Non facendoci mai trovare qualcuno che ci aiuta ad essere sinceri con noi stessi, a difenderci da questo per vergogna, per paura del giudizio, perché non vogliamo scandalizzare, perché non ci sentiamo capiti…sono tante le scuse che ci spingono a non essere sinceri gli uni gli altri. Invece, abbiamo bisogno di verità, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti ad essere sinceri con noi stessi.
Finisco la parentesi di impopolarità prima di entrare nel tema: se noi non impariamo la vita interiore, Cristo è qualcosa che tu indossi e che smetti di indossare a convenienza, ma non è qualcosa che ti cambia la vita…Cristo o lo incontri nella parte più decisiva di te  -che è il tuo cuore  - oppure non ti serve. Questo è il grande insegnamento di Maria: Ella ha potuto prendere sul serio la volontà di Dio dentro la sua vita, perché era allenata a questo ascolto, all’interiorità. Maria ha potuto accorgersi di questa mancanza alle nozze di Cana, che stava per diventare tragedia, perché era allenata ad accorgersi, perché aveva interiorità.
Silenzio, solitudine, fedeltà, sincerità: non sono, forse, queste le parole che ci aiutano ad imparare cosa significa pregare o avere una vita spirituale? Facciamo un passetto avanti: cosa significa passare dalla vita interiore alla vita spirituale? Questo è il passo che fa lo Spirito dentro ciascuno di noi: da dove inizia questo lavorio dello Spirito? Da una cosa molto importante: dentro noi stessi non abita un vuoto ma un pieno.
Qual è la differenza tra lo yoga o le tecniche di rilassamento, tra lavorare su noi stessi e fare training autogeno (perché potrebbe essere anche questa la vita interiore) ed il cristianesimo? La maggior parte di queste tecniche servono a svuotarci da preoccupazioni, paure, insicurezze, ansie…tutte cose belle…Ma a noi, la vita interiore, non serve per svuotarci ma per incontrare un pieno, non per creare un vuoto: questa pienezza ha un nome proprio che è Cristo! Cristo è la pienezza che abita nel cuore di ciascuno di noi. Perché dobbiamo imparare il silenzio e la solitudine? Per fare vuoto? No! Per incontrare questo grande pieno che è Gesù Cristo che abita dentro ciascuno di noi. E che cosa fa Gesù Cristo dentro ciascuno di noi? Fratelli miei, ci parla! Dice a ciascuno di noi la volontà di Dio, quello che riempie la nostra vita di significato; è Colui che ci incoraggia, è Colui che dice “Segui me non seguire quell’altro che abita dentro di te”:  è il male che pure abita dentro di te e che, solitamente, vuole spostare la nostra attenzione non su quella pienezza, ma sul vuoto che ci deprime e ci angoscia…Non c’è niente per te! Niente riempie la tua vita di significato…tu non sarai mai felice…tu sei sbagliato…questo ci dice il male che ci abita. Chi fa la differenza in questo? Noi! Perché solo noi, con la nostra libertà, possiamo decidere chi ascoltare. Non possiamo decidere cosa incontrare dentro di noi, perché non dipende da noi, ma possiamo decidere chi ascoltare dentro di noi: quello sì che dipende da noi! Questa è Maria ed è lì che comincia la vita spirituale, perché essa è sentire la voce di Gabriele, è sentire Dio che ci sta parlando.
“Avvenga per me quello che hai detto” dice Maria nel Vangelo dell’Annunciazione: in maniera molto pratica, Maria ci sta dicendo una cosa importantissima cioè che, il primo modo di ascoltare la Parola di Dio, è quella di prendere sul serio ciò che ci sta accadendo. Dio ci parla sempre attraverso la nostra vita: problemi, cose belle o brutte, cose che vorremmo o non vorremmo. Uno impara alla maniera di Maria quando, vivendo cose che gli stanno succedendo, dice…Sì le voglio affrontare! Anche se non le ho scelte, io le voglio affrontare dentro la mia vita! Imparare a dire di sì a ciò che ci accade: questo è il primo modo di capire che cosa il Signore ci sta dicendo. Se tu non prendi sul serio la vita che hai davanti, anche se non ti piace, non riesci a capire quello che il Signore ti sta dicendo e passi tutta la vita ad essere arrabbiato – perché ti sta succedendo quella cosa - e a voler scappare da quella cosa. Con questa rabbia e questa volontà di fuga, nessuno può parlarti, perché ciò è possibile soltanto se tu dici “Va bene, avvenga per me quello che sta succedendo…Eccomi, sì”.
In questo senso, noi dovremmo imparare la preghiera: essa serve ad accogliere ciò che ci sta succedendo nella vita. A cosa dovrebbe servire la nostra preghiera? A non dover scappare davanti a tutto quello che la vita ci sta riservando, perché, soltanto se prendiamo sul serio la vita, cominciamo a capire anche qual è la volontà di Dio per ciascuno di noi.
Ma attenzione! Sentite quanto è consolante il Vangelo di Luca, quando ci spiega che cosa succede a Maria; quando incontra l’Angelo Gabriele non è che Maria dice “Eureka! Ho avuto l’illuminazione! Adesso so tutto!”...Qual è la reazione di Maria davanti a quell’angelo? La confusione: non capisce fino in fondo che cosa le sta dicendo il Signore, come capita anche a noi che non capiamo fino in fondo che cosa ci sta dicendo il Signore, in mezzo ai tanti problemi o situazioni che viviamo.
Maria capirà la volontà di Dio un po' alla volta, ma fa qualcosa di straordinario e rivoluzionario: ci insegna che la libertà è rischiare di fidarsi di Dio, prendendo sul serio la vita che abbiamo.
Rischiare di fidarsi di Dio, prendendo sul serio la vita che abbiamo: guardate che noi ragioniamo al contrario…diciamo…Signore cambiaci questa vita e noi la prenderemo sul serio e, se non hai idee, ti forniamo noi la fotografia della vita che vorremmo…insegnare a Dio a fare Dio.
Noi facciamo questo, ma la preghiera è il contrario! E’ dire…Signore io non ci capisco niente, sono in piena confusione ma io mi fido di Te e prendo sul serio quello che c’è in questo momento...
Fino a questo momento, abbiamo riflettuto sulla seconda parte dell’argomento, l’avvenga per me…La seconda grande lezione che ci dà Maria, questa volta alle nozze di Cana (quindi facciamo un passo indietro verso “fate quello che vi dirà”)…da dove nasce questa parola? Che cos’è che rende possibile il miracolo in quella festa di nozze che sta per trasformarsi in tragedia? Il miracolo inizia da una cosa molto semplice: inizia da Maria che va da Gesù e gli dice “Non hanno più vino”. Che cos’è che scandalizza di questa pagina del Vangelo? Noi ci aspetteremmo una risposta positiva, immediata, da parte di Gesù; invece, Egli dice “Che ho a che fare con te oh donna? Non è ancora giunta la mia ora”. Tradotto questo significa che tu vai a pregare ma, nella preghiera, invece di trovare quello che ti aspetti, sei deluso…Qui devo farvi una domanda importante? Siete disposti a credere che Dio vi ama anche quando la preghiera vi delude? Questa è la più grande rivoluzione che ci insegna Maria! Se tu ti aspetti che la preghiera ti dia soddisfazione, è lì che noi, a volte, rimaniamo a bocca asciutta; a volte, la preghiera ci delude, non perché Dio vuole deluderci ma perché noi abbiamo categorie affettive, psicologiche, spirituali che, a volte, sono ferite. Sono ferite dal peccato originale innanzitutto, ma anche dal male che abbiamo subito, dal dolore che abbiamo sperimentato: quando una persona, ad esempio, non ha mai potuto fidarsi di qualcuno nella vita, è difficile credere che di Dio puoi fidarti e, per quanto tu glielo dica, dentro di te c’è una resistenza che ti dice “Non fidarti!”. Questo significa che, molto spesso, quando tu preghi, lo fai così come sei e, così come sei, a volte, la percezione che hai di Gesù è quella di Gesù che ti dice “Io non voglio avere niente a che fare con quello che mi stai dicendo...”: è deludente!
Sei disposto a credere che Dio ti ama anche quando la preghiera ti delude? Solitamente, quando la preghiera delude, noi ce ne andiamo. No! Rimanere lì, credere che Dio ti ama anche quando la percezione della tua preghiera è deludente; per questo Maria, dopo che Gesù le risponde in quel modo, agisce e va dai servi come se Gesù le avesse detto “Ci penso io”. Maria va dai servi e gli dice “Fate quello che Lui vi dirà”:sembra quasi che Maria metta spalle al muro Cristo.
Credo che questa sia una lezione immensa per ciascuno di noi: è difficile essere liberi se noi non ci lasciamo deludere nella preghiera, perché crediamo più al fatto che Dio ci ama che al fatto che è la nostra preghiera che ci dà soddisfazione. Quanto sarebbe bello poter ragionare come Maria! Muoversi nella vita sapendo che è impossibile che a Dio non interessi di noi, che a Dio non interessi il nostro vuoto, il vino che manca. La mancanza di vino è la mancanza di gioia: hai salute, intelligenza, lavoro, delle persone accanto, una famiglia…che cosa ti manca? La gioia.Sono un passionista, porto anche l’abito, ma cosa ti manca? La gioia. Ho una moglie accanto oppure ho un figlio ma cosa ti manca? La gioia.
Capite che la cosa più decisiva della vita è sentire la gioia: questo è il vino, e Maria sta dicendo che manca il vino, manca gioia…vede un frate, un prete, una suora e dice “Manca gioia”…sta per succedere una tragedia perché, quando in una vocazione manca la  gioia, succede sempre una tragedia! Vede una famiglia e dice “manca gioia in quella famiglia”…sta per succedere una tragedia. Vede un giovane e dice “in questi ragazzi manca gioia”…sta per succedere una tragedia. Questo sta dicendo Maria! Come può Cristo ignorare questa mancanza di gioia dentro la nostra vita?
“Fate quello che Lui vi dirà”: ecco il più grande esorcismo che Maria ci insegna contro la delusione che, tante volte, noi sperimentiamo nella vita spirituale. A volte capita che alcuni dicano…ora mi metto a pregare, faccio una bella novena, mi rivolgo a questo santo, faccio questo ed ho risolto il problema. Poi si fanno novene, tridui, si va a messa, ci si confessa, insomma si fa tutto quello che, nella nostra testa, dovrebbe portare quel beneficio e qual è la risposta? Vi è mai capitato che, dopo aver pregato, le cose peggiorano?…Pensiamo che, forse, era meglio non pregare!? Non ci lasciamo distrarre da questo, pensate a Maria e pensate a come Maria esorcizza questo problema.
Come? “Fate quello che Lui vi dirà”. Se voi pensate a Maria ed al ruolo che ha in tutta la storia della chiesa…sono stato da poco a Lourdes e poi al festival dei giovani a Medjugorje e, qualche settimana prima, a Fatima, e ciò che unisce tutte queste esperienze, tutte le mariofanie, sta in questa frase: fratelli miei, Maria ha il grande ruolo di dirci “Fate quello che Lui vi dirà”. Adesso cerco di tradurvelo in maniera esistenziale, così che ve lo potete trattenere e portare dentro la vostra vita.
Perché Maria dice così, risponde in questo modo? Perché Maria sta difendendo la bontà di Dio contro la delusione della preghiera che ha appena fatto. Quindi, primo grande passo: credere che Dio ci ama contro tutto e contro tutti, anche quando le cose ci dicono esattamente il contrario, difendete, con tutto voi stessi, l’amore di Dio. Dio vi ama! Non mettete mai in crisi questo perché, se mettete in crisi l’amore di Dio, tutto crolla. Il male fa questo: vuole convincervi che non siete amati, vuole convincervi che Lui non sacrificherebbe mai suo Figlio per voi…invece Egli lo ha fatto, ha dato suo Figlio per ciascuno di noi! Difendete questo!
La seconda cosa: “Fate quello che Lui vi dirà” cioè Maria stabilisce una relazione assoluta con Gesù. Allora come si fa ad ascoltare, a fare quello che Gesù ci dice? Quali sono i luoghi dove incontriamo Gesù che ci dice che cosa fare? Sapete che, nel Vangelo delle nozze di Cana, Gesù dice una cosa molto semplice cioè di prendere le otri e di riempirle di vino e, poi, di portarle a tavola. La faccenda è semplice, però, quei servi diventano protagonisti di un miracolo,perchè ascoltano quello che Gesù gli sta dicendo e lo fanno. Sembra una cosa semplice! Ma è una cosa semplice e lo fanno perché è Gesù che glielo dice. Volete un altro esempio nel Vangelo? Non hanno pescato per tutta la notte e Gesù gli dice di gettare le reti...le avevano gettate pochi minuti prima e non avevano preso niente, ma glielo dice Gesù di rifare quella cosa: è perché glielo dice Gesù, e loro lo fanno, che tirano fuori le reti piene di pesci. Non è dalla semplicità o dalla complicanza delle cose che facciamo che avremo un risultato, ma dal fatto che  quelle cose ce le sta domandando Gesù: per questo hanno una efficacia. Allora dov’è che Gesù ci dice che cosa fare? Vi lascio tre luoghi dove, costantemente, potete fare l’esperienza di “Fate quello che Lui vi dirà”: il primo grande luogo è il Vangelo, il secondo è il cuore, il terzo luogo è la chiesa.
Primo: se non riscopriamo un genuino, costante, quotidiano, profondo, appassionato, familiare, ostinato amore per la Parola di Dio, noi saremo solo in balia delle nostre emozioni e dei nostri sentimentalismi. Solo la Parola di Dio ci fa incontrare Dio che ci parla. Non è vero che Dio ci parla anche con i pensieri e le emozioni perchè, a volte, nei pensieri e nelle emozioni, è anche il male a parlarci: come fai ad accorgerti che è Dio o il male se non hai un termine di paragone? E questo grande termine di paragone è la Parola di Dio: solo quando tu hai familiarità con la Parola di Dio, ti accorgi quando è Parola di Dio e quando non lo è. Nessuno può dire “sto facendo quello che Gesù mi dice” e non sa neanche come si apre il Vangelo. Dobbiamo imparare, di nuovo, la familiarità con la Parola di Dio.
Secondo luogo dove Dio ci parla: la tua coscienza e, scusate, se uso questo termine al posto di quello più conosciuto, che è il termine cuore. Dico coscienza perché, spesso, noi abbiamo la coscienza pulita perché non l’abbiamo mai usata! In questo senso è pulita, cioè nessuno ci ha insegnato ad usare la nostra coscienza, ad usare il nostro cuore. Non andate lontano! Non andate a cercare gli oracoli! Dice uno “Farò migliaia di kilometri per andare da quello, ma proprio da quel prete, da quella suora, da quell’uomo, da quel medico perché lui sì che ha la risposta!”. Avete una coscienza ed un cuore: lì sì che c’è lo Spirito di Dio che vi sta parlando, imparate ad entrare in questa grande stanza che è il vostro cuore. Ci sono due sedie nel cuore: in una c’è seduto Gesù e nell’altra, dovete sedervi voi,guardarvi in faccia e parlarvi. Per questo il Papa sta per canonizzare un grande Santo dei tempi moderni che è Newman: egli ci ha insegnato che esiste una coscienza che non è individualismo (cioè del tipo questo lo penso io quindi è vero). La coscienza non è un luogo soggettivo, ma è un luogo oggettivo, dentro di noi: abbiamo, però, bisogno che qualcuno ci insegni la strada per usare la coscienza ed il cuore. Quando la coscienza ed il cuore funzionano, lì Dio ti parla, Gesù ti dice che cosa devi fare. A Lourdes, la Provvidenza mi ha messo di fronte ad una comunità di frati conventuali  - vicini alla casa dove viveva la famiglia di Bernadette – che fanno l’apostolato di spiegare qual è il ruolo dell’Immacolata Concezione nella storia della Chiesa, portando, come esempio, questa grande figura di San Massimiliano Maria Kolbe, un frate convenutale morto nei campi di concentramento. Una mattina vengono scelti degli uomini per essere uccisi e viene scelto anche un uomo che è sposato ed ha dei figli; allora, San Massimiliano Maria Kolbe sente in coscienza di dire “lasciate lui e prendete me” e, stranamente, i soldati lo ascoltano cioè liberano quell’uomo (che vivrà fino a 90 anni e vedrà anche la canonizzazione di San Massimiliano Maria Kolbe).San Massimiliano Maria Kolbe viene rinchiuso e lasciato a digiuno per 15 giorni in una cella insieme a tanti altri e, poi, ucciso con una siringa letale. Muore al posto di un altro: dov’è che ha capito che era la cosa giusta da fare? Aveva il confessore vicino, in quel momento, che glielo diceva o avevaun piccolo manuale? Ha guardato dentro se stesso e ha detto “questa è la cosa giusta” e l’ha fatta secondo coscienza.
Fratelli miei, voi avete un cuore ed una coscienza: ascoltate, perché lì il Signore vi sta parlando. Soprattutto le persone che usano bene il cuore, sono persone libere: le persone che non sono libere, invece, ascoltano il giudizio dei vicini di casa e, per questo, non  sono mai liberi.
Terzo grande luogo: la Chiesa. Sì, ovviamente mi riferisco a tutto ciò che ci insegna la chiesa, al magistero, alla dottrina ecc…ma è quello che ho detto all’inizio, sono alcune relazioni significative. Dio vi parla,spesso, attraverso alcune relazioni significative che sono la Chiesa per voi. Vi accorgete che queste relazioni significative vi stanno dicendo che cosa Gesù vi chiede perché, quando ascoltate queste persone, vi sentite più libere anche se, a volte, vi fanno soffrire perché vi dicono cose che vi bruciano dentro. Chiara Corbella, questa giovane mamma che è morta in maniera eroica, anche per amore dei propri figli, diceva “Dio ha messo nel nostro cuore la verità e non è fraintendibile”…cioè uno lo sa se una cosa è vera o no, anche se è scomoda. Qualcuno può dirti una cosa che ti fa soffrire tremendamente ma, in fondo, tu lo sai che ha ragione. Cristo usa sempre una esperienza di Chiesa per dirci che cosa fare. Prendete sul serio la chiesa che il Signore vi ha regalato; ognuno di noi ha un modo di chiesa attraverso cui, la propria vita, si realizza.
“Fate quello che vi dirà”: Vangelo, cuore e chiesa.
“Avvenga per me quello che hai detto”: credo che il più grande atto di libertà che una persona possa vivere è quello di desiderare la vita. E quando una persona desidera la vita? Quando disobbedisce all’accusatore: il male, il serpente antico, il diavolo che, molto spesso, ci dice di non desiderare la vita, ci dice di scappare dalla vita, ci dice che nella vita troveremo soltanto dolore e sofferenza, che non va bene desiderare la vita perché lì sperimenteremo la morte.
Ecco la più grande pienezza che Maria ci insegna, il sì che la riempie di Cristo fino a partorirlo, è che Maria ha creduto alla vita contro tutto e contro tutti.
“Fate quello che vi dirà”: questa è la forza dell’avvenga per me…che cosa desidero per me? Qual è la forza dell’avvenga per me che mi cambia? Desiderare con tutto me stesso la vita.
Fratelli miei, in un mondo come il nostro, ferito da questo male oscuro della depressione che sembra toccare tantissimi di noi, il più grande atto rivoluzionario di evangelizzazione e di testimonianza che noi possiamo portare è quello di credere alla vita, alla bontà della vita, al bene della vita che il Signore ha dato a ciascuno di noie disobbedire a tutto quello che ci dice il contrario. Non pensate che la libertà sia fare quello che ti senti: a volte la libertà è mettersi contro corrente, non è fare quello che senti ma quello che è giusto. Concludo con questa immagine: pensate ad una barca che sta andando su un fiume e le correnti la spingono…se, ad uncerto punto, vi accorgete che, alla fine di quel fiume, c’è una cascata alta 200 metri, voi sapete che state andando a schiantarvi… Allora l’unica cosa che potete fare non è assecondare le correnti, assecondare quello che sento, ma è mettervi contro quelle correnti: è l’unico modo per salvarvi la vita….andare contro quello che ci sta portando verso il vuoto, verso la morte, verso la mancanza di pienezza.
Possa il Signore guarire dentro di noi l’umiltà necessaria per essere cristiani. Sapete perché avviene questo miracolo? Perché, in fin dei conti, questi servi si fidano. Volete vedere miracoli dentro la vostra vita? Siate umili! Le persone umili non sono degli sprovveduti, sono quelli che si fidano perché sanno che, se non si fidano, hanno già perso in partenza.