mercoledì 24 marzo 2010

Far tacere la Chiesa: l'imperativo massonico dei nostri tempi.


di Ernesto Galli Della Loggia
Corriere della Sera, 21 marzo 2010
Titolo originale dell'articolo: La nuova Italia anticristiana

Sempre più di frequente il discorso pubblico delle società occidentali mostra un atteggiamento sprezzante, quando non apertamente ostile, verso il Cristianesimo. All'indifferenza e alla lontananza che fino a qualche anno fa erano la regola, a una secolarizzazione per così dire silenziosa, vanno progressivamente sostituendosi un'irrisione impaziente, un'aperta aggressività che non è più solo appannaggio di ristrette cerchie di colti, come invece avveniva un tempo. Il bersaglio vero e maggiore è nella sostanza l’idea cristiana nel suo complesso, come dicevo, ma naturalmente, non foss'altro che per ragioni numeriche e di rappresentanza simbolica, sono poi quasi sempre il cattolicesimo e la sua Chiesa a essere presi in special modo di mira. Dappertutto, ma, come è ovvio, in Italia più che altrove.

Il celibato, il maschilismo, la pedofilia, l'autoritarismo gerarchico, la manipolazione della vera figura di Gesù, l'adulterazione dei testi fondativi, la complicità nella persecuzione degli ebrei, le speculazioni finanziarie, il disprezzo verso le donne e la conseguente negazione dei loro «diritti », il sessismo antiomosessuale, il disconoscimento del desiderio di paternità e maternità, il sostegno al fascismo, l'ostilità all'uso dei preservativi e dunque l'appoggio di fatto alla diffusione dell'Aids, la diffidenza verso la scienza, il dogmatismo e perciò l'intolleranza congenita: la lista dei capi d'accusa è pressoché infinita, come si vede, e se ne assommano di vecchi, di nuovi e di nuovissimi. Ma da un po' di tempo vi si aggiunge qualcosa che contribuisce a dare a quelle imputazioni un peso e un senso diversi, un impatto più largo e distruttivo, finendo per unirle tutte nel segno di un attacco solo complessivo. Questo qualcosa è un radicalismo enfatico nutrito d'acrimonia; è, insieme, una contestazione sul terreno dei principi, un chiedere conto dal tono oltraggiato e perentorio che dà tutta l'idea di voler preludere a una storica resa dei conti. Ciò che più colpisce, infatti, della situazione odierna — e non solo immagino chi è credente ma pure, e forse più, chi come il sottoscritto non lo è—è soprattutto l'ovvietà ideologico-culturale della posizione anticristiana, la sua facile diffusione, oramai, anche in ambienti e strati sociali non particolarmente colti ma «medi», anche «popolari». Ai preti, alla Chiesa, alla vicenda cristiana non viene più perdonato da nessuno più nulla. Si direbbe — esagero certo, ma appena un poco — che ormai nelle nostre società, a cominciare dall'Italia, lo stesso senso comune della maggioranza stia diventando di fatto anticristiano. Anche se esso preferisce perlopiù nascondersi dietro la polemica contro le «colpe» o i «ritardi» della Chiesa cattolica.

Tra i tanti e assai complessi motivi che stanno dietro questa grande trasformazione dello spirito pubblico del Paese ne cito tre che mi paiono particolarmente significativi.

Al primo posto l'ingenuità modernista, l'illuminismo divenuto chiacchiera da bar. Ci piace pensarci compiutamente moderni, e modernità sembra voler dire che gli unici limiti legittimi siano quelli che ci poniamo noi stessi.

Le vecchie autorità sono tutte morte e al loro posto ha diritto di sedere solo la Scienza. Siamo capaci di amministrarci finalmente da soli, non c'è bisogno d'alcuna trascendenza che c'insegni dov'è il bene e dov'è il male. Che cosa c'entrano dunque la religione con i suoi comandamenti, i preti con i loro divieti? Accade così che ogni cosa che getta ombra sull' una o sugli altri ci appaia allora come la rassicurante conferma della nostra superiorità: alla fin fine siamo migliori di chi pure vorrebbe farci continuamente la lezione.

E poi — ecco un secondo motivo — la Chiesa e tutto ciò che la riguarda (religione inclusa) ricadono nella condanna liquidatoria del passato, di qualsiasi passato, che in Italia si manifesta con un'ampiezza che non ha eguali. Il che significa non solo che tutto ciò che è antico, che sta in una tradizione, è perciò stesso sempre più sentito come lontano ed estraneo (unica eccezione l'eno-gastronomia: l'ideologia dello slow food è la sola tradizione in cui gli italiani di oggi si riconoscono realmente), ma significa anche, questa messa in mora del passato, che il pensare in termini storici sta ormai diventando una rarità. Sempre più diffusi, invece, l'ignoranza della storia, dei contenuti reali delle questioni, e l'antistoricismo, l'applicazione dei criteri di oggi ai fatti di ieri: da cui la ridicola condanna di tutte le malefatte, le uccisioni e le incomprensioni addebitabili al Cristianesimo, a maggior gloria di un eticismo presuntuoso che pensa di avere l'ultima parola su tutto.

E da ultimo il cinismo della secolare antropologia italiana, e cioè il fondo limaccioso che si agita al di sotto dell'appena sopraggiunta ingenuità modernista. Il cinismo che sa come va il mondo e dunque non se la beve; che appena sente predicare il bene sospetta subito il male; che ha il piacere dello sporco, del proclamarne l'ubiquità e la forza. Quel feroce tratto nazionale che per principio non può credere in alcuna cosa che cerchi la luce, che miri oltre e tenga lo sguardo rivolto in alto, perché ha sempre bisogno di abbassare tutto alla sua bassezza.

3 commenti:

  1. Grazie mille exsurgatdeus per questa perfetta radiografia della situazione odierna.
    Terribile l'indicazione di come sia in ballo il "senso comune della maggioranza che sta diventando di fatto anticristiano"!
    Daniela

    RispondiElimina
  2. Primo: dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della Verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuoi far credere ? O essi non producono forse anche la consapevolezza della re­latività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il ri­spetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza ? C’è del bello an­che nel relativismo e nel nichili­smo: inibiscono il fanatismo.

    Quanto poi alla concezione dell’uomo aristocratica e liberta­ria, anche qui sarebbe un peccato limitarsi alla superficie dei singo­li aforismi di Nietzsche. Sarebbe come, in un quadro pointilliste, vedere solo i tocchi cromatici e non l’insieme della pittura. Ebbe­ne, da tragico osservatore del vuoto spirituale in cui versa il mondo moderno, Nietzsche non vuole essere un «predicatore di morte». Non intende adagiarsi nella negazione dei valori e nel cupio dissolvi. Al contrario, vuole superare il nichilismo: vuole far sì che esso si compia in modo da «averlo dietro di sé, sotto di sé, fuori di sé». A tal fine auspica un contro-movimento da cui nasca­no nuovi valori, e lo individua nel­la creatività dionisiaca dell’arte.

    La sua critica della mentalità e della morale «del gregge», la sua difesa di quello che potremmo definire un «diritto all’eccellen­za», è un tentativo di superare la sterilità della semplice proibizio­ne, dell’abnegazione e della ri­nuncia, che mortificano la vita. Nietzsche vuole che la vita si rea­lizzi in tutte le sue potenzialità. E consiglia perciò un atteggiamen­to «creativo» che dia alla vita tutta la sua pienezza, analogo a quello dell’artista che imprime alla sua opera una forma bella. In tal sen­so la sua nuova morale è una sor­ta di «estetica dell’esistenza» il cui imperativo raccomanda: «Diven­ta quello che sei!» E anche se la vi­ta non è bella, sta a noi cercare di renderla tale.

    Uno dei problemi della Chiesa attuale è che la produzione della felicità le è sfuggita di mano. Ma non è colpa di Nietzsche se la for­za dei Vangeli svanisce e la condi­zione dell’uomo occidentale è sempre più paganizzata.

    RispondiElimina
  3. Franco Volpi - Repubblica, 10 Aprile 2009

    Povero Nietzsche! E stato l’unico filosofo a cui è toccato il singolare pri­vilegio di essere consi­derato responsabile niente meno che di una guerra mondiale. Durante il conflitto del 1914-1918 in una libreria di Picca­dilly erano esposti in vetrina i di­ciotto volumi delle sue opere complete in inglese, con una scritta a lettere cubitali: TheEuro­Nietzschzean-War: leggete il dia­volo per poterlo combattere me­glio! Poi venne il nazionalsociali­smo, e alcune sue dottrine - il su­peruomo nel senso della selezio­ne biologica, la volontà di poten­za, l’antropologia dell’animale da preda e della bestia bionda - fu­rono considerate alla stregua di una fonte di ispirazione dell’ideo­logia razzista e del totalitarismo.

    Più tardi, dato che egli diagno­stica alcune esperienze negative del Novecento come la «morte di Dio», la decadenza dei valori tra­dizionali o l’avvento del nichili­smo, si è prodotto un singolare transfert: si è scambiato il suo pensiero per la causa della crisi che esso in realtà voleva solo ana­lizzare e superare. Nietzsche è di­ventato allora il distruttore della ragione, il maestro dell’irraziona­le, il teorizzatore del nichilismo e del relativismo.

    Tutti questi stereotipi hanno fortemente condizionato la sua immagine e la sua fortuna. E per questo egli ha suscitato entusia­smi e attirato anatemi, ha ispirato movimenti di avanguardia, mode culturali e stili di pensiero, ma an­che provocato reazioni e rifiuti al­trettanto risoluti. Ovviamente anche da parte cattolica.

    Benché autorevoli interpreti­ - padre Paul Valadier, per esempio, o il teologo Eugen Biser - abbia­no cercato di mostrare il contra­rio, non c’è dubbio che tra alcune dottrine nicciane e altrettanti insegnamenti fondamentali del cri­stianesimo ci sia una profonda in­compatibilità. Non stupisce per­ciò che il Papa consideri Nietz­sche un cattivo maestro, e che ri­conduca alla sua filosofia alcuni mali del mondo contemporaneo.

    Negli ultimi anni egli non si è stancato di denunciare il pericolo del relativismo e del nichilismo, fomentato da Nietzsche. Adesso, nel criticare l’ideale di umanità predominante nel mondo attua­le, basato sul valore dell’autoaf­fermazione individuale, egoisti­ca e libertaria, ricorda la respon­sabilità di Nietzsche: «Egli ha di­leggiato l’umiltà e l’obbedienza come virtù servili, mediante le quali gli uomini sarebbero stati repressi, e ha messo al loro posto la fierezza e la libertà assoluta del­l’uomo».

    Ora, al di là del fatto che l’opera di Nietzsche è un autentico puzz­le, un subisso di frammenti e afo­rismi la Cui combinazione in una dottrina d’insieme è tutt’altro che assodata, sarebbe un peccato non approfondire gli spunti che vengono da queste critiche con qualche domanda. Ed è meglio prendere Nietzsche non per le ri­sposte che dà, ma per le domande che pone.

    RispondiElimina