3.ECCO TUA MADRE
Gv 19,25-27
Ci occupiamo della
terza parola che il Signore Gesù dice sulla croce, nella sua gloriosa passione.
Leggiamola, contestualizzandola all’interno del testo (come arriviamo a questa
parola?) da qualche versetto prima:
I soldati poi quando ebbero crocifisso Gesù, presero le
sue vesti, ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ma
quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca”.
Così si compiva la scrittura che dice: “Si sono divisi tra loro le mie vesti e
sulla mia tunica hanno gettato la sorte”. E i soldati fecero così.
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella
di sua madre, Maria madre di Cleopa e Maria di Magdala. Gesù allora vedendo la
madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna,
ecco tuo figlio”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre”. E da quell’ora il
discepolo la accolse con sé.
Ecco perché abbiamo
voluto leggere sin dalla scena precedente il momento in cui Gesù vede - davanti
ai suoi occhi - la spartizione delle sue vesti, perché dobbiamo capire che cosa
sta succedendo cioè il momento in cui Gesù – una volta crocifisso – vede le sue
povere cose (i suoi vestiti, quello che gli era rimasto indosso in quella notte
tragica, in quell’alba di tortura) le vede spartire, vede che gli viene tolto
tutto.
È molto importante
considerare che il Signore Gesù – per salvare il mondo intero – non ha avuto
bisogno di avere niente, assolutamente niente. Completamente spoglio di tutto,
ha potuto compiere l’opera più grande della storia. Ma a questo punto,
considerando che fino ad adesso tutto gli è stato tolto, lui passa a donare
quello che ancora ha.
Ai piedi della
croce vede sua madre e vede il discepolo amato, che è l’autore del vangelo.
Che cosa fa? Li regala l’uno all’altro. Regala il
discepolo a Maria e Maria al discepolo. È questo atto volontario di Gesù che è
arrivato lì, perché nessuno gli prende la vita ma lui la dona, cioè non è un
atto coatto: è un atto completamente autentico, libero, intenzionale. Lui qui
lo sta iniziando a compiere. Lo porterà a termine fino in fondo addirittura
dopo morto, quando dal suo fianco squarciato saranno effuse le realtà
interiori, quando uscirà l’acqua e il sangue (ovverossia la scomposizione del
sangue in siero e plasma) ed ecco che anche il suo spirito sarà emesso prima
ancora.
Quindi la cosa che
ancora lui ha è una madre che lo piange e un amico, un discepolo che lo
conforta. E cosa fa? Li guarda e li regala l’uno all’altro. Il Signore Gesù
regala tutto. Questo uomo completamente
spoglio continua a regalare cose. Ha regalato il paradiso - nella parola
precedente - al buon ladrone e regala adesso gli uni agli altri.
Che cos’è questo
regalo? Che cosa è il regalo degli uni
agli altri? Questo è la chiesa. Compare questo fatto per cui noi – che
siamo gente dispersa e tutti allineati nei nostri individualismi, nelle nostre
realtà piccole, nei nostri piccoli cortili mentali – diventiamo uno dell’altro.
Perché chi ha
stabilito che noi siamo fratelli (questo linguaggio che è un linguaggio che
associa in una realtà famigliare le persone)? Chi ha stabilito che un sacerdote
si occupi delle persone che gli sono affidate e queste persone lo accolgano e
si fidino di lui? Chi ha stabilito che le persone si leghino fra di loro? Il
Signore dalla croce ha preso la vita di ognuno di noi e ci ha detto: “Tu hai
questa madre (e ci ha indicato la chiesa), tu hai questi fratelli”. Ci ha
detto: “Tu hai questi figli, ti devi occupare di queste persone”. E queste
realtà non sono nate, innescate da nostre pulsioni affettive o da nostri
meccanismi psicologici. No, dal Signore che donando la vita per noi ci dona una
nuova vita che è una nuova famiglia.
La chiesa non è un
luogo dove si stia per scelta sociale o per convenienza (anche se purtroppo non
possiamo negare che nella storia si sono desiderati posti maggiori, minori,
scelte, azioni, situazioni sulla base delle nostre povere, ridicole psicologie)
ma è il Signore che ci stabilisce tali. Chi può dire a un altro: “Tu sei mio
fratello, tu sei mia sorella”? Il Signore stabilisce questo vincolo sulla base
della sua croce.
Quello che noi
dobbiamo rimarcare – ascoltando questa parola – è ciò che succede a Maria
Santissima e al discepolo amato, a Giovanni.
Loro “stanno dappresso alla croce”. Maria
“sta”. Questo verbo è diventato spina dorsale di questa spiritualità profonda,
lo “stabat mater”. Maria “sta” presso
la croce, non scappa. Sta lì, di fronte al dolore più straziante che ci possa
essere, la morte di un figlio. È molto più facile affrontare la propria morte
che non la morte di un figlio. C’è qualcosa di acuto, di profondissimo. È il
linguaggio che Dio conosce molto bene, è il linguaggio di Abramo che deve
entrare nell’ipotesi di perdere suo figlio, perché in realtà questo adombra ciò
che Dio Padre stesso sta facendo. Qui non c’è solamente Maria che sta perdendo
suo figlio: qui c’è il Padre che sta vedendo soffrire, patire e morire il suo
proprio Figlio.
E se qualcuno - con
superficialità - può dire “Sì, va bene, ma sa che poi risusciterà, lo
risusciterà” questa è un’annotazione di una superficialità notevole, perché
vedere il proprio figlio soffrire è una cosa straziante. Puoi sapere tutto
quello che ti pare, ma poter togliere il dolore a tuo figlio!!
E se noi che siamo
così superficiali, insensibili, centrati su noi stessi sappiamo capire questo
dolore, la nobiltà, la profondità, l’insondabile immensità di Dio che è amore
sconfinato, che cosa è quel momento per
il Padre? Sta vedendo suo figlio morire.
In Maria c’è un
riflesso, perché se c’è una cosa di cui proprio non può interessare niente a
una donna che sta vedendo suo figlio morire è occuparsi di un’altra persona. In
quel momento l’ultima cosa che può avere in testa una madre è che ci sia
qualcun altro di cui occuparsi: “Ma mi occupo di mio figlio, se permetti, ma
sto accanto a lui! Vorrei prendermi un pezzo del suo dolore, voglio stare qui”.
E invece accetta questa cosa. Accetta in quel momento di fare cosa? Qualcosa
che è nascosto sin dal dialogo enigmatico delle nozze di Cana, quando Maria –
vedendo che in quel matrimonio manca il vino - dice questa parola al Figlio: “Non hanno più vino” “hanno perso il
vino”, che è un’immagine della gioia, dell’allegria. Hanno perso allegria
questi uomini.
E Gesù risponde in
una maniera così strana: “Che c’è fra me
e te o donna? È giunta la mia ora”? “L’ora” è proprio questa, cioè l’ora in
cui quello che c’è fra di loro viene messo in discussione.
Infatti quel che
succede è che questa donna in quel momento inizia un processo che la porterà
fino al momento che stiamo contemplando, cioè il momento in cui lei perderà il
proprio figlio, perché il proprio figlio salverà gli uomini, darà il “vino
nuovo” agli uomini, darà il suo Spirito agli uomini. E allora Maria deve
accettare più di Abramo e come il Padre celeste di poter perdere il suo figlio
per amore degli uomini.
In un certo senso
si può dire che in questo momento Maria sta vivendo la sua più profonda
maternità, perché lei è madre di Cristo e ora diventa madre del corpo intero di
Cristo, della chiesa, cioè di tutti i cristiani. Il discepolo rappresenta tutti
i discepoli.
Noi qui
contempliamo che lei perde il sublime per l’infimo, perde il re per lo
sguattero, lascia il nobile per il degenerato, lascia il puro per il contorto,
lascia il sublime per ciò che è ridotto male, scassato, incompleto, crepato,
insoddisfacente che è il nostro cuore, che è la nostra vita, il nostro essere.
Maria in questo momento accetta questa cosa. E Gesù innesca e proclama questo
regalo. C’è qualcosa di immenso in questa realtà perché qui si illumina la
logica nascosta dell’amore. Qui il possessivo perde la sua assolutezza. Le
prime parole di un bambino sono due, fondamentalmente (e purtroppo l’ordine non
è molto onorevole per noi umani). Tutti pensano che la prima parola sia
“mamma”. In realtà la prima parola che dicono i bambini è “mio” (comunque poi
c’è una sintesi “mamma” “mia”). Il punto è che i bimbi articolano queste prime
labiali: “mio” “mamma”. Qui è proprio questo quello che è in ballo: il “mio”.
Questo è la nostra condanna: il vivere ossessionati dal “nostro”, il “mio”,
vivere per le cose mie, il possessivo. San Francesco d’Assisi dice che il contrario dell’amore è il possesso.
Per questo sposa “Madonna povertà”. Per questo c’è l’amore che chiede la
povertà, perché sempre l’amore è donazione, oblazione, regalo. È regalo di che?
Del “mio”, se no non è un regalo (è un passamano). Solamente le cose che sono
veramente mie, io le posso donare. Gesù
dona ciò che è più suo, che più suo non si può su questa terra: sua madre.
Se c’è qualcuno che è suo è questa donna qui.
L’intima relazione
fra questi due è irripetibile, unica. Non c’è nessuno più vicino a Dio di colei
che lo ha generato su questa terra. Questo è proprio ciò che è di Cristo. Nel
cielo ha il Padre e la relazione col Padre, sulla terra ha la madre e la
relazione con la madre. Regala questa relazione.
Qui il possessivo
perde importanza e viene rovesciato. Qui
passiamo a relazioni completamente d’amore. Maria e il discepolo perdono
ciò che è loro per avere qualcosa che Dio dà. Perde Maria Gesù per avere il
discepolo. Il discepolo in quel momento si deve staccare dal Maestro per
accogliere Maria. Senza logicamente staccarsi da tutta l’obbedienza alla
signoria, l’unione a questo suo Signore e maestro, in realtà in quel momento
lui diventa secondo un’identità che non aveva prima. Gesù che cambiava il nome
alle persone (che incontrava qualcuno come Simone e gli cambia il nome in
Pietro) gli cambia la famiglia a quest’uomo, gli cambia la generazione, gli
cambia l’ordine di nascita. Questa parola nasconde questa vittoria sul
possessivo, che è la libertà dalla nostra angoscia di autoconservazione.
Se abbiamo messo
molto l’attenzione sullo scambio che Maria “subisce”, dobbiamo un pochino anche
concentrarci sulla frase che dice al discepolo: “Ecco tua madre”. Il discepolo deve accogliere questa madre.
Cosa vuol dire
accogliere questa madre? Cosa vuol dire compiere questa parola? Come non
possiamo non citare, non ricordare il motto di San Giovanni Paolo II:
“Totustuus”! Alcuni pensavano forse che fosse l’indicazione di una persona
particolarmente devota alla Vergine Maria. È sicuramente questo, ma ancor di
più è il compimento di questo testo di Giovanni 19,27: “Ecco tua madre. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”. Aveva
sentito nel versetto precedente: “Ecco
tuo figlio” “Totustuus”. Che cosa vuol dire? Questa è un’indicazione. È la nuova nascita, è il passare a una nuova
maternità, è l’entrare dentro una vita che è generata in altra maniera.
Nello stesso
vangelo di Giovanni al capitolo 3 Gesù aveva detto: “Uno se non rinasce dall’alto non può vedere il regno dei cieli”.
Aveva risposto Nicodemo: “Ma come può un
uomo nascere una seconda volta quando è vecchio? Può forse entrare una seconda
volta nel grembo di sua madre”? Qui si citava la madre.
Ed ecco scopriamo
come si fa. La chiesa - che è presente in Maria e che Maria fa presente con la
sua vita, col suo essere (perché come dice il santo beato Isacco della Stella “tutto ciò che si dice di Maria si dice della
chiesa e tutto ciò che si dice della chiesa si dice di Maria”) – ed ecco
nascere da questa nuova maternità, nascere dalla chiesa, nascere dal rapporto
con Maria. È una nuova identità appunto.
E questo è un
accogliere con sé che significa tante cose: una intimità, un accogliere fra le
proprie cose, alla lettera “accoglie come fra le sue cose Maria”, ne prende
possesso. Bisogna proprio dire a molti cristiani: “Ma prendi possesso di questo
regalo: te l’ha fatto il Signore della croce. Ti ha regalato questa donna. Ma
cos’ha da darti questa donna”? Ha da insegnarti la fede, ha da insegnarti come
si fa a entrare nel rapporto più bello e più profondo con Dio.
Perché c’è l’altra
frase, che Maria dice nelle nozze di Cana, quella che dice dopo il dialogo
enigmatico che rimanda a questo momento: “Qualunque
cosa vi dica, fatela”. La traduciamo sempre: “Fate quello che vi dirà”. Appunto: qualunque cosa vi dica, fatela,
perché lei è maestra di questo.
Il vangelo di Luca
ha raccontato come lei dice questa frase: “Avvenga
di me secondo la tua parola”. Ed ecco nel vangelo di Giovanni abbiamo
questo insegnamento: “Fate secondo quel
che vi dice”. Imparare a obbedire alla parola, imparare a vivere nella fede
che è un atto di consegna alle promesse di Dio, a ciò che Dio ci dice, a ciò
che Dio ci rivela.
Noi abbiamo da
accogliere questa madre, abbiamo da contemplare questa madre che ci accoglie,
che ci prende, che ci consegna a suo figlio.
E lo perde. Anche
se lo riavrà, in realtà lo perde su questa terra. Abbiamo da entrare in questo
regalo che il Signore ci fa.
Maria sta vivendo
un dolore spaventoso: lei sta perdendo suo figlio ma è madre. Si diventa sempre madri nel dolore: il
parto implica sangue. Anche questo parto che è il parto della nostra vita di
cristiani (la nostra esistenza di associati a Gesù come suoi fratelli e uniti
alla sua stessa madre) è qualcosa che implica il parto da parte di Maria di
vedere suo figlio morire. Deve vedere
suo figlio morire per vederci nascere. Per cui questa dolcezza, questa
generosità venata di sangue, venata di dolore, venata di frantumazione della
propria affettività.
Il cuore di un uomo libero è un cuore pieno di
cicatrici, è il cuore di una persona che sa amare, è il cuore di qualcuno che
si sa distaccare.
Lei si distacca da lui ma resta madre, perché diventa madre nostra. E quel dolore si incrocia con la sua
dolcezza.
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