venerdì 13 marzo 2009

Sull'umiltà


Dice s. Vincenzo Ferreri

Umiltà riguardo a Dio.

A cagione de' tuoi difetti, tienti, davanti a Dio, per vile e miserabile più di qualsivoglia peccatore, reo di qualsiasi peccato; come degno d'essere punito ed escluso dalle celesti delizie, se Dio ti trattasse secondo la sua giustizia e non secondo la sua misericordia, poiché Egli ti fece tante grazie, più che a molti altri, e tu hai corrisposto coll'ingratitudine.

Inoltre considera attentamente e con un vivo senso di spavento che qualsiasi grazia, inclinazione al bene e desiderio della virtù, non l'hai avuto da te stesso, ma dalla sola misericordia di Cristo, che avrebbe potuto arricchire di questi favori qualunque altro peccatore, e lasciare te nell'abisso della tua ignominia e della tua miseria.

Umiltà riguardo al prossimo

Pensa ancora e procura di persuaderti che non vi è un peccatore così carico di difetti che non servirebbe Dio meglio di te e non si mostrerebbe più riconoscente dei benefizi divini, se avesse ricevuto le medesime grazie che ricevesti tu, non per i tuoi meriti ma per la bontà affatto gratuita di Dio. Per ciò puoi bene considerarti come il più vile e il più basso degli uomini e temere con ragione che la tua ingratitudine spinga Iddio a cacciarti dalla sua presenza (6).

Con ciò non voglio dire che tu debba crederti fuori della grazia di Dio e in stato di peccato mortale, sia pure che altri siano colpevoli di peccati mortali senza numero. Ciò del resto ci è ignoto, perché il nostro giudizio è fallace e Dio può ben aver loro concesso tutt'a un tratto la contrizione e un' effusione della sua grazia.

Quando la tua umiltà ti paragonerà agli altri peccatori, non è utile che tu discenda ai loro disordini in particolare. Basta un confronto generale tra i loro peccati e la tua ingratitudine. Qualora volessi considerarli in particolare, potresti benissimo farne, per una certa rassomiglianza, dei peccati personali, apostrofando così la tua coscienza: quegli è un omicida, ed io, miserabile, quante volte non ho ucciso l'anima mia! Questi è fornicario e adultero, ed io non lo sono tutto il giorno, distogliendo la mia attenzione da Dio e cedendo alle suggestioni diaboliche? E così degli altri.

Ma se osservassi che il diavolo approfitta di quest'esercizio per indurti alla disperazione, lascia queste apostrofi e solleva il tuo cuore alla speranza nella contemplazione della bontà e della clemenza del tuo Dio che già ti prevenne con tante grazie e certo vorrà compire l'opera che ha cominciato in te. Di regola ordinaria l'uomo spirituale, che ha già qualche esperienza di Dio, non prova questa tentazione di disperazione quando nel suo fervore accusa se stesso. Ma ciò può succedere e di fatto succede spesso ai principianti, specialmente a quelli che la misericordia di Dio ha liberati da molti pericoli e grandi peccati in cui trovavansi inviluppati.

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Il B. Raimondo da Capua, Maestro Generale dei Domenicani, racconta di Santa Caterina da Siena che «ella non solo si metteva sotto alla più vile delle anime e desiderava incessantemente d'essere considerata come l'ultima di tutte, ma credeva fermamente di esser la causa di tutti i mali altrui. Ogni volta che pensava alle iniquità e alle sventure del mondo in generale o di ciascun individuo in particolare, ne attribuiva a se stessa la colpa, dicendo: Sei tu la causa di tutti questi mali; rientra dunque in te stessa e piangi le tue colpe ai piedi del Signore». E la Santa ciò spiegava dicendo ch'ella aveva mal corrisposto ai disegni di Dio sopra l'anima sua.



Dice s. Alfonso Maria de Liguori

-§. I. PRATICA DELL'UMILTÀ

Chi non è umile, non può piacere a Dio, il quale non può soffrire i superbi. Egli ha promesso di esaudir chi lo prega, ma se lo prega un superbo, il Signore non l'esaudisce; agli umili all'incontro diffonde le sue grazie: "Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam" (Iac. 4. 6). L'umiltà si distingue in umiltà d'"affetto" ed umiltà di "volontà". L'umiltà d'affetto consiste nel tenerci noi per quelli miseri che siamo, che niente sappiamo e niente possiamo, se non far male. Quanto abbiamo e facciamo di bene, tutto viene da Dio. Veniamo alla pratica. In quanto all'umiltà d'affetto dunque, per I. non mettiamo mai confidenza alle nostre forze ed a'1 nostri propositi; ma diffidiamo e temiamo sempre di noi. "Cum metu, et tremore vestram salutem operamini" (Phil. 12). Dicea S. Filippo Neri: "Chi non teme, è caduto". Per 2. non ci gloriamo mai delle cose nostre, come de' nostri talenti, delle nostre azioni, della nostra nascita, de' nostri parenti e simili. Perciò è bene che non parliamo mai dell'opere nostre, se non per dire i nostri difetti. Ed il meglio è non parlar mai di noi, né di bene, né di male: perché anche nel dirne male, sorge spesso in noi la vanagloria d'esser lodati, o almeno d'esser tenuti per umili, sicché l'umiltà si riduce a superbia.

Per 3. non ci sdegniamo con noi stessi dopo il difetto. Ciò non è umiltà, ma superbia, ed è anche arte del demonio per farci diffidar in tutto e lasciar la buona vita. Quando ci vediamo caduti, diciamo come dicea S. Caterina da Genova: "Signore, questi sono i frutti dell'orto mio". Allora umiliamoci e subito rialziamoci dal difetto commesso con un atto d'amore e di dolore, proponendo di più non ricadervi e confidando nell'aiuto di Dio. E se per disgrazia ritorniamo a cadervi, sempre facciamo così.

Per 4. vedendo le cadute degli altri, non ce ne ammiriamo; ma compatiamoli e ringraziamo Dio, pregandolo a tenerci le mani sopra; altrimenti il Signore ci punirà con permettere che cadiamo negli stessi peccati e forse peggiori di quelli. Per 5. stimiamoci sempre i maggiori peccatori del mondo; e ciò quantunque sapessimo che altri abbiano più peccati de' nostri; poiché le nostre colpe commesse dopo tanti lumi e grazie divine peseranno più avanti a Dio, che le colpe degli altri, benché in maggior numero. Scrive S. Teresa:"Non credere d'aver fatto profitto nella perfezione, se non ti tieni per lo peggiore di tutti, e non desideri d'esser posposto a tutti".

L'umiltà poi di "volontà" consiste nel compiacerci d'essere disprezzati dagli altri. Chi si ha meritato l'inferno, merita d'essere calpestato da' demonii per sempre. Gesu-Cristo vuole che impariamo da lui ad essere mansueti ed umili di cuore: "Discite a me, quia mitis sum, et humilis corde" (Matth. 11. 29). Molti sono umili di bocca, ma non di cuore. Dicono: "Io sono il peggiore di tutti: merito mille inferni". Ma poi se uno li riprende, o lor dice una parola che non piace, si voltano con superbia.”


Dice ancora s. Alfonso “Dobbiamo tutti persuaderci, che noi stiamo come sulla cima d'un monte, sospesi sull'abisso di tutt'i peccati, e sostenuti dal solo filo della Grazia: se questo filo ci lascia, noi certamente cadiamo in tale abisso e commetteremo le scelleraggini più orrende. Sal. 93. 17. Se Dio non mi avesse soccorso, io sarei caduto in mille peccati, ed ora starei nell'Inferno; così dicea il Salmista, e così dee dire ognuno di noi. Questo intendeva ancora S. Francesco d'Assisi, quando dicea, ch'esso era il peggior peccatore del Mondo. Ma, Padre mio (gli disse il compagno) questo che dite non è vero; vi sono molti nel mondo, che certamente son peggiori di voi. Sì ch'è troppo vero quel che dico (rispose il Santo), perché se Dio non mi tenesse le mani sovra, io commetterei tutt'i peccati.”

“Venne voglia a F. Ruffino di sapere, in che consisteva quell' humiltà sì grande, e di tanto merito del B. P. S. Francesco. Laonde seco ragionando gli disse. Padre mio amantissimo, vorrei che mi dicesti da dovero, in quanto conto voi vi tenete, e quello che vi pare di voi medesimo. A cui rispose il Santo. Io mi tengo d'esser veramente il maggior peccatore di questo mondo, e che manco servo Dio ch' alcun altro. E F. Ruffino di nuovo soggiunse, che ciò non poteva dir con verità, né con buona coscienza, stante che gl' altri (secondo si vedeva chiaramente) commettevano molti grandi peccati, de' quali (Dio gratia) egli era innocente. A che replicò il Santo: se con tanta misericordia avesse il Signore favorito quei tali, come egli ha fatto me; per tristi e scellerati, che si fossero, son certo, che sarebbono stati molto più grati a Dio, che non son io, e gli harebbero servito molto meglio..... Laonde per questa tanta gratia, che mi fa, io m' accuso, e confesso, per il maggior peccatore che sia».(MARCO DA LISBONA, Cronicas da Ordem dos frades Menores do serafico P. S. Francisco, Lisboa 1556, ed. ital.: Croniche de gli Ordini instituiti dal P. S. Francesco. Composte dal R. P. F. Marco da Lisbona.... e tradotte nella nostra italiana da M. Horatio Diola, Venetia 1582, P. I, lib. I, c. 68, p. 84-85:)

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