domenica 21 luglio 2019

Don Fabio Rosini - Toccati dalla grazia - IN CAMMINO

IN CAMMINO
Nel nostro viaggio accanto alla donna affetta da emorragia, nella sua avventura di guarigione noi arriviamo oggi alla quarta parte. In questo momento finale noi abbiamo delle frasi di Gesù che vengono dopo quel che è il racconto di una guarigione avvenuta e anche constatata. Ricordiamo di aver speso gran parte della meditazione sulla diagnosi: c’è una donna che ha una consapevolezza, un’esperienza riguardo a una irresoluzione della sua vita. Tutto questo è in parallelo a tutto ciò che in noi è ferito, è sanguinante in tutti noi, è da curare, è da guarire. Abbiamo visto che noi tante volte dobbiamo fare un’analisi più profonda, più autentica di quello che ci succede, arrivare alle cause profonde, arrivare alle menzogne che stanno nascoste dietro ai nostri malesseri più gravi e anche ai falsi medici che possono essere soluzioni che non risolvono niente; anzi rimandano sempre un po’ più in là la gravità del male. Abbiamo visto che c’è un incontro con Gesù che è preparato dall’aver udito di lui, dall’aver capito chi lui è. Questa cosa ha portato questa donna a toccare Gesù con la fede e questo è stato il primo passo di un incontro personale che Gesù ha cercato, ha in un certo senso preteso. Questa donna viene guarita nel suo corpo, ma viene introdotta in un dialogo da cui lei stava fuggendo perché era imbarazzata, timida, vergognosa, perché questo è quello che tanto volte anche a noi succede: non osare pensare di arrivare a così tanta intimità con il Signore, cioè poter parlare con lui. Quello a cui noi siamo arrivati è questa condizione: lei è guarita, lo ha raccontato, lo ha messo tra lei e il Signore Gesù e qui sembra che la storia si ferma, ma viene la risposta di Gesù al suo racconto. È il versetto 34 che sembra solamente una postilla anche un po stereotipata all’interno dei Vangeli.

Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male».

C’è qualcosa di enigmatico in questo versetto. Perché noi siamo di fronte a qualcosa che è già successo, lei è già guarita. Questa donna ha fatto un’esperienza articolata di consapevolezza, di decisione verso l’avvicinamento a Gesù, è riuscita a toccarlo, è riuscita a sperimentare la guarigione, l’ha potuta condividere con Gesù…perché Gesù dice “va in pace e sii guarita dal tuo male”? Cosa significa questa espressione? Lei non è già guarita forse? Dobbiamo entrare in queste poche parole perché queste poche parole contengono forse il messaggio più importante da ritenere in questo nostro viaggio.
Perché se sono importanti tutte le fasi che abbiamo affrontato fin qui noi ora abbiamo un problema: non c’è semplicemente da guarire, c’è da restar sani. Non c’è semplicemente da vivere un momento di grazia, c’è una cosa più difficile: restare nella grazia, permanere nella grazia.
Innanzitutto le parole di Gesù possono essere divise in quattro affermazioni rilevanti per noi. La prima è semplicemente una parola: figlia. Questa parola, figlia, non è così usuale, non è che Gesù chiamassi tutti così, anzi è piuttosto raro. Che cosa succede? Quando dice questa parola Gesù innanzitutto è all’interno di un contesto. Dobbiamo ricordare che la storia di guarigione di questa donna affetta da emorragia si incastra dentro l’inizio e la fine di un’altra storia: la guarigione di una bambina di dodici anni che stava morendo. E lui vive tutto questo accanto a un padre disperato che lo ha cercato e gli ha chiesto di venire a imporre le mani alla sua bimba. C’è qualcosa che è collegato a questo parallelo, a queste due donne, una adulta e l’altra piccolina, che è la condizione della figliolanza, che è la condizione del nascere. In un certo senso la ragazzina di dodici anni è in quell’età in cui dovrebbe diventare matura, adulta, sta per entrare nella realtà della femminilità adulta e sta morendo, senza riuscire a entrare nella femminilità. Invece questa donna è già una donna adulta, ma non riesce a vivere la sua femminilità. Che cosa aggiusterà questa situazione? In entrambi i casi noi dobbiamo capire che c’è un segno di paternità da parte di Gesù. Nel caso della bambina di dodici anni Gesù dovrà imporle le mani: questo era il classico gesto paterno. Possiamo vedere per esempio nella storia di Isacco con i suoi figli, Giacobbe ed Esaù, tutto il tema della benedizione, il momento in cui il padre passa la sua eredità ai figli, li benedice, gli impone le mani e passa la sua eredità.
Lì c’era un padre che chiede a Gesù di imporre le mani. Perché? Perché lui come padre aveva fallito, aveva dato una vita a questa bambina che non riusciva a passare il guado della pubertà. L’immagine di questo capo della sinagoga che è appunto Giairo, rappresenta una religione insufficiente, che deve fare un salto di qualità, che solo il Messia potrà portare a compimento. Dall’altra parte c’è l’altra donna, la quale ha bisogno di essere rigenerata.
Questa espressione, “figlia”, pone un parallelismo fra queste due donne e indica una cosa: noi normalmente cerchiamo di aggiustare delle cose.


Di fronte ai problemi grandi e seri della vita noi tendiamo a desiderare di mettere degli aggiustamenti, rattoppare la realtà, rimetterla in sesto, ma ci sono cose in cui non c’è bisogno semplicemente di ricucire, c’è proprio bisogno di un salto di qualità. Il vero cambiamento è rinascere. Il vero cambiamento non è continuare a ottimizzare più o meno le energie e andare avanti e rimetterci in piedi. No! Giairo, padre della bambina di dodici anni, deve passare la sua paternità a Gesù, se vuole veder vivere la sua figlia. Questa donna deve rinascere daccapo. Questa parola, figlia, indica una cosa: noi non portiamo una morale come cristiani, non portiamo un’etica; deriva un’etica, possiamo capire l’etica cristiana, ma non è questo il punto di partenza. Quello è il risultato. Noi portiamo una vita nuova, che rinasce. Il Signore Gesù ri innesca la vita di questa donna, non ottimizzandola con la vita precedente, ma facendola partire da capo. La chiama “figlia” perché sta nascendo. C’è un Salmo molto importante, il salmo 2, che parla di questo dramma messianico: arriva il Messia e i principi rifiutano questi avvento; ma c’è un’espressione che questo inviato di Dio deve dire in un dato momento: “annunzierò il decreto del Signore. tu sei mio Figlio io oggi ti ho generato”. Essere generati oggi. Il rapporto con Dio non è un rapporto di aggiustamento, ma di rigenerazione. Noi con i sacramenti non arriviamo per fare il pieno di grazia e andare avanti, ma per essere fatti nuovi. Il battesimo nella sua forma di essere rivissuto, ri assimilato (che è il sacramento della riconcializione), non ci da accesso a una vita semplicemente riassettata, ma una vita nuova, una vita che è la vita che viene da Dio. Siamo chiamati, nel processo della guarigione, a lasciare le cose vecchie, ma soprattutto ad abbracciare una vita che riparte da nuovi presupposti, che riparte da una nuova sorgente. I cristiani non hanno portato una nuova forma migliore di stare su questa terra, su questo mondo, hanno portato una vita celeste. Il Signore Gesù ha portato un rinascere dall’alto, un rinascere dal cielo. Le cose le fa nuove lui, fa nuovi cieli e nuova terra nella vita di ogni cristiano.

La seconda espressione che usa Gesù è la tua fede ti ha salvato. Noi dobbiamo sempre rimarcare questo fatto: Gesù dice questa cosa molto spesso e significa qualcosa di essenziale e meraviglioso; c’è una parte nostra nella nostra salvezza. C’è una celeberrima frase di s. Agostino: Colui che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te. È molto importante che c’è un dono che Dio ci fa ma che noi possiamo accettare liberamente: il dono della fede, che è un’opera di Dio in noi, che è una virtù teologale, una cosa che non ci diamo da soli.
Noi la riceviamo la accogliamo, noi diciamo di sì alla fede. C’è qualcosa di profondamente libero nel cuore dell’uomo che può aprire la porta della fede oppure chiuderla. Dice Gesù, che ha operato questo miracolo (anche se è un miracolo passivo perché lui non aveva la piena consapevolezza che stava per farlo, ha semplicemente percepito che succedeva): questa donna quando ha deciso di prendere sul serio quello che aveva sentito dire di Gesù, avvicinarsi e toccarlo, tutto questo è il processo della sua fede, è la sua parte. È molto importante perché questa parte è l’apertura al bene, è l’apertura all’identità di Dio.  Quello che lei deve esercitare come sua fede non è tanto la convinzione di essere forte o coerente, ma la certezza di avere davanti qualcuno che è potente, qualcuno nelle cui mani si può affidare, qualcuno in cui può confidare. Dice infatti: “se anche riuscirò solo a toccare il lembo del suo mantello sarò guarita” (cf. Lc). C’0è un’attitudine umana che si chiama fede, che però è un dono di Dio nella quale noi riceviamo la vita nuova. Nel primo dialogo che si fa con un candidato al battesimo, nel rito dell’iniziazione cristiana degli adulti, c’è l’ingresso nel catecumenato e alla porta della chiesa il presidente domanda al candidato: che cosa chiedi alla chiesa di Dio? E il candidato non risponde il battesimo, deve rispondere “la fede” e interroga ancora il presidente chiedendo ancora “che cosa ti da la fede?” e il candidato deve sapere “la vita eterna”. La fede che questa donna ha le da la vita nuova perché è un movimento di abbandono del cuore, dell’essere, dell’intelligenza, degli atti fisici corporali, di tutto l’uomo, per cui l’uomo si rimette completamente nella potenza e nelle parole di colui al quale crede. Smette di appoggiarsi in sé e si appoggia in Dio. Ma questo atto non lo può fare Dio per noi, è un atto personale, è un atto a cui aderiamo, è un atto che dobbiamo poter fare noi, qui c’è la storia di una donna che fa la sua parte e questa parte è credere nella forza di Dio; non essere forte, non essere capace di non so cosa. È capace semplicemente di abbandonarsi e di chiedere fino in fondo la vita al Signore Gesù. È molto importante: non c’è niente da fare, nella nostra guarigione c’è una parte che ci spetta. Nella nostra guarigione c’è una parte che ci spetta e che non è la capacità di programmare o di pensare chissà che cosa o la capacità di fare ed esercitarsi in qualcos’altro: è la capacità di credere al programma di Dio, è la capacità di abbandonarsi alla sua potenza. Questo atto è un atto in cui si passa da se all’altro, si passa da sé al Signore Gesù. Questa è la nostra parte.
Questa non la può fare nessuno al posto nostro. Questa parte è qualcosa che si apre per grazia nel nostro cuore, ma che implica una nostra personale adesione, un movimento reale ed è il movimento che ci apre alla potenza di Dio.

Le ultime due parole che Gesù dirà, in questa frase che conclude e illumina tutto questo racconto, dopo aver chiamato questa donna “figlia” , quindi aver indicato che è nata di nuovo, aver indicato a lei la sua fede, a cui dovrà far riferimento (lei deve sapere che quella è la porta della salvezza, la sua adesione alla fede) dice questa strana frase: và in pace e si guarita dal tuo male.
Come abbiamo già detto, qui c’è qualcosa che non quadra. Lei non era già guarita? Appunto, qui siamo nel tema più importante forse. Concludiamo questa avventura focalizzando una cosa: guarire può capitare, restare sani non capita, lo si sceglie. Guarire è una grazia, restare nella grazia è qualcosa che bisogna scegliere intenzionalmente, bisogna coltivare volontariamente. Infatti qui ci sono degli imperativi: và in pace. Camminare nella pace. Ci sono passi che vanno nella direzione della pace. La pace in ebraico indica proprio l’abbondanza, indica proprio la salute, non è semplicemente il nostro concetto moderno di tranquillità interiore o di tranquillità esteriore. È un concetto di abbondanza, è la shalom, rappresenta la benedizione. Camminare nella benedizione, camminare in ciò che è abbondanza, camminare nelle cose belle, fare cose buone, coltivare cose sane. La vita sana non è una questione di un’occasione e poi uno ce l’ha in dotazione punto e basta, sta lì e ce l’ha nelle sue tasche. No! Bisogna coltivarla. Le cose bisogna farle, e più le fai più ti piace farle e più le coltivi e più ne hai vita. Le cose buone. Noi dobbiamo avere una serie di cose che ci fanno bene, che sono la nostra pace, la nostra abbondanza e dobbiamo andare in quelle cose, camminare in quelle cose, stare in quella realtà lì. È importantissimo l’arte della perseveranza nel bene. Facciamo un esempio a livello orizzontale: le persone che riescono a  fare una cura dimagrante in quattro e quattr’otto riescono a buttare giù quantità notevoli di massa corporea. Il problema non è quello, quelle cose si fanno. Il problema vero è restare magri, il problema vero è continuare a mangiare in maniera sana. È continuare a coltivare cosa? Il benessere. A livello fisico, come parallelismo, esiste un benessere a cui uno si deve affezionare, a cui uno si deve aggrappare. Uno deve restare nelle cose che gli fanno bene. A livello spirituale c’è un benessere, c’è una spiritualità, c’è una pace, c’è una gioia.
La preghiera regolare, le cose che ci portano all’amore, gli atti di comunione, le riconciliazioni, il coltivare tutte le cose che ci introducono nella vita divina: queste cose sono preziosissime e imprescindibili.
Infatti viene l’ultima parola che ci viene come elemento extra, come un’indicazione nitida in questa direzione: sii guarita dal tuo male. Che vuol dire? Non era già guarita?
La guarigione che cos’è? La salute non è uno stato, è una cura di sé. Noi dobbiamo capire che uno non resta sano se non si prende cura di se stesso. A livello fisico, dato che tutta questa storia è un parallelismo fra la guarigione di un corpo e la guarigione di un cuore, dobbiamo pensare che le persone devono fare i conti con le proprie debolezze, con le proprie fragilità. Nessuno è sano nel senso che non ha nessun problema fisico, tutti ne abbiamo qualcuno. La vita si presenta sempre così, come fragile, come vulnerabile. Tutti quanti abbiamo i nostri malanni. A livello fisico c’è chi è debole in un senso e c’è chi è debole in un altro. Il problema non è non avere debolezze. Il problema è tenerne conto, farci i conti con le debolezze. Essere guariti dal proprio male vuol dire che il male sta lì, alla porta che bussa e bisogna sbarrargli la porta. Bisogna mettere la vita in maniera tale che non si ri inneschi il processo distruttivo. Noi dobbiamo conoscere le nostre debolezze. Qui si apre la strada di una spiritualità umile, una spiritualità incarnata, con il senso della realtà. Tutti noi dobbiamo fare i conti con la nostra fragilità. E se un ragazzo è cresciuto con una grossa debolezza ai polmoni, ai bronchi e a tutto l’apparato respiratorio e pretende di non farci i conti con questa cosa qui, lui si riammalerà continuamente; se si copre al momento giusto e prende le precauzioni adeguate vive la vita normale che vivono tutti, solamente dovrà prendere le proprie precauzioni. Essere guariti dal male! Dovrò far sempre i conti con le mie debolezze. Dovrò far sempre i conti con lo strascico degli errori fatti e le conseguenze; e il fatto che se sono uscito dai miei errori però quelli stanno lì, li ho saputi fare, allora dovrò sempre stare un po’ più attento su quelle cose lì. Ci sono delle debolezze che non ci abbandonino, perché noi ci aggrappiamo al Signore. Essere guariti dal male vuol dire vivere guarendo, vivere distaccandosi dal male.
Questa non è tensione, questa è umiltà. Questa non è preoccupazione, questo è senso della realtà. Camminiamo, e in fondo il camminare è sempre uno squilibrio, è sempre un po’ a rischio.
Dobbiamo entrare nello squilibrio della vita rispondendo alle cose momento per momento, restando aggrappati al Signore.
Camminare nella vita sana, camminare nella pace, aggrapparsi alla fede, aggrapparsi alla nuova nascita, all’essere figli, ribadire, ripetere tutte le cose buone. La cosa interessante è restare sani. Guarire capita, ma restare sani questa è un’arte molto importante, è un’arte molto saggia, è un’arte che richiede umiltà. Tutto questo ci porta a fare i conti con noi stessi e con le nostre fragilità e a pensare che sono per avere uno spazio aperto per il Signore, sempre, per essere aggrappati a lui, per vivere nella misericordia.

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