domenica 22 marzo 2009

Facebook e se fosse un grande inganno?


Carissimi probabilmente rimarrò l'unico sulla terra a non voler avere a che fare con Facebook, ma più passa il tempo e più mi convinco della negatività di questo strumento.
Se da un lato offre la concreta possibilità di contattare molte persone che hanno fatto parte della nostra vita, o permette di creare gruppi e "fare nuove amicizie" ritengo che sotto sotto si nasconda un grande inganno.

Facebook è primariamente un frutto del vouyerismo imperante, per cui ci si vuole impicciare di tutto e di tutti per sapere vita, morte e miracoli di persone conosciute o di cui si è appena sentito il nome, talvolta solo ed esclusivamente per soddisfare un non meglio precisato desiderio morboso. Se la privacy va il più delle volte a farsi friggere, ciò che preoccupa ancora di più è l'annacquamento dei sentimenti. Si parla di amicizie che amicizie non sono e si intessono relazioni che solo in rarissimi casi possono dirsi reali.

Un articolo letto questa mattina ha confermato questo mio pensiero, è di Carlo Meroni e lo potete leggere da Il Sussidiario.net.

Ve ne propongo un significativo estratto che fa molto riflettere.

P.S. Tra le altre cose ci presenta la drammaticità del fenomeno poco noto degli hikkomori. Sempre più diffusi anche in Italia.


[...]
A quella virtuale preferisco la vita vera, quella che è maestra, ma solo per chi ha l’umiltà di mettersi il grembiule da scolaro. E dopo un po’ di testate prese, ora so bene cos’è l’amicizia, quella vera, non quella fra virgolette. So di essere fortunato perché ho due amici. Diffido seriamente di chi ne vanta più di cinque, perché ho imparato che un’amicizia degna di questo nome è davvero rara come un tesoro. E quella di Facebook non lo è. È solo una pagliacciata per inconcludenti giovani e adulti d’oggi, circondati di beni, di contatti, di connessioni, di infinite possibilità. Ma nella sostanza terribilmente soli e privi di vere, serie relazioni. Un po’ come il Carlo Verdone del celebre film: «Faccio un sacco de cose, vedo un sacco de ggente, leggo molti libbri», ma in realtà si trattava di un bulletto di periferia solo come un cane.

Uno che ha relazioni (nel vero senso della parola) con moglie (o marito), figli, qualche amico vero, e che metta vera passione nel suo lavoro, credo che non abbia tempo in avanzo da perdere su Facebook.

Il problema del mondo odierno è che c’è in atto un diabolico progetto per svuotare le parole della loro reale portata e del loro significato originario. Così la vita non è più un dono d’amore ma un’esigenza personale della quale posso disporre a piacimento. Di conseguenza, anche la morte, più alta tragedia umana, diventa la “sedazione assistita” o la “dolce morte” dell’eutanasia. Il “perdono”, un’aspra montagna da scalare, rimanda tutt’al più ad una hit di Tiziano Ferro. Anche l’amore è diventato una semplice rima da canzonetta, un sentimento che va e viene a piacimento secondo l’umore del momento.

E così anche per l’amicizia. Non più una cosa terribilmente seria, ma una moneta fasulla che non costa nulla scambiare su Facebook dopo solo pochi minuti di conoscenza. Per un amico vero ci si sveglia di notte, si rischia di andare nei guai per difenderlo, ci si mette in gioco in prima persona, si è disposti alla completa condivisione. Chissà se gli “amici” di Facebook sanno condividere qualcosa di più alto rispetto al “club di quelli che odiano Berlusconi” o altre amenità simili.

Brutta bestia questa tecnologia. Non voglio fare il retrogrado, ma essere realista e giocare la battaglia della vita coi soldati che abbiamo a disposizione, senza idealismi o paraocchi. Che mi frega se mio figlio dialoga (anzi, “chatta”) con uno di Sidney discorrendo sul nulla, se poi non è in grado di sostenere la presenza di un amico “scomodo”, magari perché nero o handicappato nella sua classe?

Facile raccontare quel che si vuole a un semisconosciuto che sta a chilometri di distanza, più difficile spezzare il pane e dividerlo con la persona presente al proprio fianco, a scuola, in casa o in ufficio. È solo l’uomo, le persone, che devono stare al centro delle cose: la tecnologia ci è amica se è realmente a servizio dell’uomo, non se l’uomo ne diventa schiavo.

Mai sentito parlare di hikkomori? È un termine giapponese che sta ad indicare quei giovani che vivono reclusi nelle loro stanze e che hanno come forma di contatto con il mondo esterno solamente la rete. È un malessere particolarmente sviluppato fra i giovani giapponesi (20% dei maschi in età adolescenziale). Sembra addirittura che il 2% dell’intera popolazione giovanile del mondo ne sia affetto.

Di recente questo assurdo stile di vita ha fatto breccia anche in Italia, e stiamo iniziando a scoprirlo assieme a molte famiglie disorientate e poco preparate per affrontarlo. I ragazzi hikkomori si chiudono progressivamente al mondo esterno. Iniziano a evitare contatti con amici, parenti o altro. Successivamente smettono di andare a scuola e interrompono le relazioni con i propri familiari. Al culmine del processo di isolamento si chiudono in camera, dalla quale escono raramente, e vivono solo on-line.

Il loro nome diventa il nickname della chat. I loro amici sono perfetti sconosciuti. I loro interessi sono tutti accomunati da un aspetto: la fruibilità di cose e persone solo tramite internet. Alcuni chiudono direttamente a chiave la porta della propria stanza. Questo non per giorni, ma per mesi e in alcuni casi anni. Altri escono solamente la notte per mangiare o rubare le sigarette a fratelli e genitori. In molti confondono il giorno con la notte. Inutile sottolineare che interrompono ogni contatto con la famiglia. È questa la tecnologia di cui tessiamo le lodi? Questa è la meta alla quale tendiamo?

I soliti “esperti” hanno avanzato l’ipotesi che la colpa dell’autoreclusione di questi ragazzi sia dovuta alle pressioni sociali, alla severità del sistema scolastico, alla spinta verso l’omologazione, alle madri oppressive, ai padri assenti, al bullismo, alla dipendenza dai videogiochi attraverso i quali si costruiscono una realtà alternativa. Io, da “non esperto” credo che la questio sia un’altra: la mancanza nei nostri ragazzi di una solida struttura interiore, di una spina dorsale che non si fletta al primo alito di vento, che abbia una minima capacità di affrontare la vita con i suoi inevitabili alti e bassi. E quindi, meglio affrontare la realtà virtuale che quella reale.

Il Papa, qualche giorno fa in Campidoglio ha detto: «Gli episodi di violenza e di emarginazione giovanile manifestano un disagio più profondo; sono il segno di una vera povertà spirituale che affligge il cuore dell’uomo contemporaneo. La eliminazione di Dio e della sua legge, come condizione della realizzazione della felicità dell’uomo, non ha affatto raggiunto il suo obbiettivo; al contrario, priva l’uomo delle certezze spirituali e della speranza necessarie per affrontare le difficoltà e le sfide quotidiane. Quando, ad esempio, ad una ruota manca l’asse centrale, viene meno la sua funzione motrice».

Non pretendo che tutti siano d’accordo col Santo Padre come lo sono io. Ma se l’asse centrale della nostra ruota non è Dio, quale può essere? La letteratura? La musica? L’arte? Gli ideali di Patria? La famiglia? Fate vobis. Se però l’asse motrice della ruota è la webcam, la chat, il web, l’avatar e così via credo che questa ruota percorrerà assai poca strada.

Caro Veneziani, andiamoci piano con l’elogio di Facebook. Meglio che ci delizi con le sue dissertazioni politiche, letterarie e filosofiche. Le preferiamo di gran lunga. Se ha voglia di risentire l’idioma natìo, lasci perdere Facebook e faccia più spesso un salto nella terra dei dolmen e dei normanni. Se ogni tanto ha voglia di “struscio”, le consiglio vivamente quello reale, rispetto a quello virtuale: si vedono in giro certe facce da sbellicarsi dalle risate. Alcuni li ho già notati su Facebook.

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