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mercoledì 7 marzo 2012

Geremia....giovane, pauroso, profeta!


La liturgia, in questi giorni, ci presenta alcuni passi del libro del Profeta Geremia, che invitano a riflettere sul mistero della pedagogia divina nella storia dell'uomo.  Ma l'aspetto più importante è il rapporto personale e singolarissimo che Dio ha con quest'uomo scelto per annunziare la sua parola in un momento particolarissimo della storia del regno di Giuda, al tempo del re Giosia ed in concomitanza con l'esilio in Babilonia.
Ma chi è Geremia, che insegnamento lascia a noi oggi? Rispondendo all’appello di Dio, egli mette subito in chiaro la sua posizione: 
Ahimè, Signore Dio, ecco io non so parlare perché sono giovane (Ger 1,6). Il termine ebraico utilizzato (nahar), in greco neoteros (il minore, il più piccolo), indica il giovane alla ricerca della propria identità, della propria strada

Quando egli si fa avanti dicendo: ecco io non so parlare perché sono giovane, Geremia non intende tanto far riferimento alla sua età cronologica o fisica, ma piuttosto alla sua mancanza di esperienza, alla sua fragilità interiore, al fatto che non ha ancora messo niente di solido alla base della sua vita, non esistono ancora punti tanto fermi da potervi edificare sopra qualcosa. 
Ma su questo punto Dio non vuole esitazioni: Non dire: sono giovane! Ma va da coloro a cui ti manderò e annunzia loro ciò che io ti ordinerò. Non temerli perché io sono con te per proteggerti (Ger 1,7-8).
 Notate bene il senso della risposta di Dio: di fronte ai “ma” del profeta, egli sottolinea il fatto che non è l’io dell’uomo che nel ministero affidato ha il ruolo preponderante, ma l’io di Dio. L’uomo è solo uno strumento: 
non è l’età che conta ma l’essere in sintonia con l’io di Dio; non è la quantità delle parole che si dicono o delle azioni che si compiono a impressionare gli abitanti di Gerusalemme, ma l’attenzione a dire e a fare sempre ciò che effettivamente Dio ordina di dire e di fare. Anche la cosa più piccola, compiuta o detta sullo sfondo della sintonia di Dio è più feconda di mille cose compiute o dette senza tale sintonia. 
Anzi, c’è di più. In questo caso la giovinezza al posto di diventare un elemento di ostacolo, può benissimo mutarsi in un punto a favore: quello di una disponibilità più ampia a lasciarsi plasmare.

I tratti della chiamata di Geremia sono interessanti in quanto afferrano il giovane così come egli è. Dio non si avvicina a Geremia dicendo: “Guarda. Tu appartieni a una famiglia decaduta e a una dinastia
maledetta. Purificati da questa condizione e seguimi!”. No. Ma dice: Prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo, prima che venissi alla luce ti avevo consacrato (Ger 1,5). Parafrasando: “sono io che ti ho fatto nascere nel contesto di questa particolare famiglia perché a me servi proprio in quanto tu
provieni da una simile esperienza”. Dio non passa dicendo: “Geremia, sei giovane, sappi che sei chiamato
a diventare mio servo. Pensaci perché, quando sarai maturato, ripasserò”. 
No. Gli dice: Ecco io metto le mie parole sulla tua bocca. Va e annunzia loro… così come sei. 
Alla scuola di Dio si cresce investendo se stessi, totalmente, mente, volontà e cuore
C’è infine una terza cosa che Dio non fa nel momento in cui chiama Geremia ad essere suo profeta: non gli anticipa tutto quello che gli succederà. Eppure sarebbe stato più facile per Geremia. Il suo annuncio sarebbe stato più convinto e più convincente. Dio non glia anticipa nemmeno che quell’entusiasmo suscitato dal re Giosia durerà poco… Geremia imparerà a discernere la storia passo dopo passo, camminando. Come diceva don Alberione, : “Dio non spreca mai la sua luce ma accende una lampadina per volta”.


Dio , ci cerca ogni giorno, ogni ora, ogni istante, lasciamoci trovare così come siamo, aderendo alla sua volontà che da senso alla nostra esistenza...... Coraggio fratelli, scommettete su Dio, l'Amore può fare soffrire, ma non deluderà mai!

giovedì 22 gennaio 2009

Incontrare Cristo nella Liturgia - Essere comunità - 3




La liturgia ha senso solo nel contesto della comunità, non può esistere una liturgia individualistica. Essa è infatti (laos - ergon) azione del popolo e come tale rappresenta una manifestazione corale delle membra di Cristo, rappresenta l’anelito del popolo di Dio che desidera vivere in pienezza la comunione con il Suo Capo.


E’ pertanto fondamentale ricreare un clima comunitario laddove questo si è smarrito frantumandosi in unità autistiche.


Le nostre chiese, le nostre comunità non sono in grado di vivere la bellezza della liturgia proprio perché manca questo senso di appartenenza ad una Comunità con la C maiuscola.

Senza lo spirito di Comunione, ogni azione risulta svuotata del suo significato.

Questo aspetto emerge ancora di più se confrontato con la vita nelle piccole realtà parrocchiali.

In queste la liturgia è il più delle volte vissuta con gran coinvolgimento.


E’ il caso, ad esempio, delle comunità carismatiche. Uno degli aspetto che maggiormente notiamo è la grande importanza data all’accoglienza, alla fraternità, all’amore che in definitiva rappresenta quella chiave che permette ai cuori dei fedeli di aprirsi ad un incontro con il Risorto!

Ogni celebrazione è gioiosa attesa della potenza dello Spirito che trasforma permettendo di tornare a casa rinnovati.


Se l’amore fraterno è il terreno buono che permette alla liturgia di germogliare portando frutti di salvezza, per contro le separazioni rappresentano il più temibile inquinante.

Da qui l’importanza di un ritorno ad una vita comunitaria piena, vissuta con entusiasmo, favorendo iniziative volte ad estinguere incomprensioni, acredini, divisioni e tensioni.


In che modo?


Aumentando al massimo i momenti di preghiera comunitaria, favorendo un fecondo e frequente dialogo, collaborando a progetti comuni, trovando momenti di riconciliazione comunitaria.

Alla base deve esserci uno sforzo ascetico volto ad accrescere il senso di umiltà, senza il quale l’impegno risulterebbe vano, rischiando di dar luogo a nocivi individualismi.

Il segreto che fa di una comunità un cenacolo in cui si rivive l’apostolica esperienza d’amore è precisamente l’umiltà, consistente nel considerarsi sempre ultimi, poveri e bisognosi dell’aiuto del fratello e di Dio.


La via dell’umiltà è la via della santità, la via tracciata da molte anime sante. San Paolo della Croce, ad esempio, fondatore dei Missionari Passionisti, invitava i suoi religiosi a parlar bene di tutti, considerando il giudizio del prossimo la vera peste delle comunità. Esortava paternamente alla carità e alla dolcezza, al farsi carico delle pene del fratello, alla consolazione reciproca, al mitigarsi presto dopo aver detto qualche parola aspra, per non consentire allo sdegno di impossessarsi del cuore. Invitava i religiosi ad infervorarsi con novene, tridui di preparazione, esercizi spirituali, feste e altri momenti che disponevano a celebrare i vari misteri con grande trasporto di fervore.


Questi momenti di grazia alimentavano lo spirito comunitario…

Nelle nostre parrocchie, spesso divise all’interno da sterili individualismi, lo spirito comunitario si può recuperare!


Come?


Puntando sull’amore! Favorendo l’accoglienza, iniziando a sentirsi parte di una famiglia, non considerando il mio fratello come un estraneo, trasmettendo quel calore umano capace di condurre all’incontro vitale con Cristo.


Iniziamo con l’imparare a guardarci negli occhi!


Siamo fratelli, non possiamo limitarci ad un’occhiata fugace quando un giorno a settimana ci si scambia la pace…

Devo amare il fratello e la sorella con cui vivo la celebrazione. Non ci si può considerare estranei perchè la celebrazione coinvolge tutte le membra del Corpo mistico di Cristo e tutte le membra devono vivere in armonia tra loro!


Bisogna ritornare ad amarsi e questo non è scontato, richiede impegno ed un’ascesi costante, fatta di piccoli quotidiani gesti e passi verso l’altro in cui vive Cristo.


Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri, questo punto del testamento spirituale che ci ha lasciato il Signore non può essere trascurato!

Gesù, non ci ha detto “vi riconosceranno dai riti che praticate, né dalla vostra conoscenza della dottrina…” ma dall’amore, dunque dall’attenzione all’altro, dall’ascolto, dal dono di noi stessi, dal perdono, dalla comunione reciproca.


Da questo ci riconosceranno suoi discepoli e riconoscendoci tali il nostro “Vieni e vedi” sarà efficace!


mercoledì 21 gennaio 2009

Incontrare Cristo nella Liturgia - Riscoprire lo stupore e la gioia - 2



Afferma la Costituzione Conciliare Sacrosantum Concilium al punto 9:

prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e alla conversione: «Come potrebbero invocare colui nel quale non hanno creduto? E come potrebbero credere in colui che non hanno udito? E come lo potrebbero udire senza chi predichi? E come predicherebbero senza essere stati mandati?» (Rm 10,14-15)”


Questo aspetto ci riguarda molto da vicino.


Come religiosi e laici, chiamati ad essere missionari, annunciatori del Vangelo della Speranza in un mondo privo di speranza, avvertiamo con tutta la Chiesa l’urgenza ed il primato dell’evangelizzazione.

Ogni Natanaele ha il suo Filippo, ogni Simon Pietro ha il suo Andrea, ogni Andrea ha il suo Giovanni Battista…è troppo importante l’annuncio, non vi possiamo rinunziare!

Andate in cerca delle novantanove perdute! Così ci direbbe oggi Gesù se si trovasse a riformulare la famosa parabola della pecora perduta. Perché? È semplice: spesso ci occupiamo dell'unica pecora rimasta nell'ovile trascurando le novantanove disperse. (don Davide Banzato)

Questo annuncio, implica un movimento che purtoppo fa paura, un movimento verso l’esterno che produce una perdita delle proprie sicurezze. Questa paura che blocca ed inibisce equivale ad una scintilla di speranza spenta nel mondo…equivale ad una mancata corrispondenza al mandato missionario di Gesù! E’ una mancanza grave!

Trascurare l’urgenza dell’evangelizzazione, per curare i propri interessi equivale a far morire la propria vita cristiana!


Cari fratelli e sorelle, in centinaia lì fuori, nel mondo, sono immersi nelle tenebre della non conoscenza di Dio… E molti di essi a causa della nostra mancanza di carità, moriranno nel freddo dell’odio e dell’egoismo senza incontrare Gesù, senza incontrare l’unica persona capace di scaldare i loro cuori!


Non incontreranno Gesù perché non avranno trovato sulla loro strada nessuno che glielo annunciasse!


Sono migliaia coloro che vivono la propria vita come fosse un noioso e ripetitivo schema, assuefatti da un abitudinarismo che soffoca la voglia di vivere e fa perdere la capacità di gioire.


Non possiamo permettere che la vita dei nostri fratelli diventi tedio, che uno dei doni più grandi ricevuti da Dio si trasformi nell’assurdo di un’esistenza priva di senso!


La tristezza che si legge nel volto di molti dovrebbe farci scattare dalle comode poltrone delle nostre certezze, farci uscire dalle mura ovattate delle nostre case calde…per andare lì dove il freddo di una vita senza Cristo, grida alle nostre coscienze il desiderio di un Incontro!

E’ l’'incapacità di gioia tipica di chi non ha incontrato Colui che è la gioia ed è venuto nel mondo per donare la gioia piena, che produce l'incapacità d'amare! E’ questa incapacità di gioire, di una gioia intima e profonda, che produce la chiusura in se stessi, che produce l'invidia, l'avarizia e di seguito tutti i vizi che devastano il mondo!


Per questo è più che mai necessario, uscire dallo stretto guscio delle proprie certezze!

Questa è la sfida del nostro tempo, questa è stata la sfida dei grandi santi missionari di tutti i tempi.

Portare il Vangelo come ha fatto Gesù, come hanno fatto gli apostoli, come ha fatto la Chiesa nei secoli…là dov'è nato: sulla strada...

È l’ora di vincere il sonno delle proprie consuetudini, è l’ora di dare un volto di freschezza e di bellezza al mondo e alla nostra Chiesa. È l’ora di un fuoco nuovo.


Se sarete quel che dovete essere porterete il fuoco in tutto il mondo” diceva Santa Caterina da Siena, e noi, siamo ciò che dovremo essere?



P.S Ieri sera ero in giro per Treviso con l'abito religioso insieme ai miei confratelli, una signora ci ferma e ci ringrazia per la testimonianza di gioia che stavamo dando..."I vostri volti - ci dice - sono luminosi, la vostra gioia è contagiosa, grazie per la testimonianza che date in questi tempi bui".

Queste parole mi hanno indotto a duna profonda riflessione. Non ce ne accorgiamo, ma la luce e la gioia e la pace che quotidianamente ci dona Cristo, sono un faro per chi con occhi di nottola è abituato a solcare i cieli scuri del mondo...

Non mi rimane che ringraziare il Signore e benedirlo per le tante grazie che ci dona!


martedì 20 gennaio 2009

Incontrare Cristo nella Liturgia - Riscoprire lo stupore e la gioia - 1





Vi propongo alcune riflessioni sul Vivere la Liturgia.

Ogni celebrazione deve portare inevitabilmente ad una radicale trasformazione della propria vita, perchè ogni celebrazione costituisce un incontro unico ed irripetibile con il Vivente!



Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù. Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente (…)Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”.
Apocalisse Cap.1 versetti 9,10,17,18

Giovanni udita la voce del Signore, del Vivente, rapito in estasi si sente venir meno al cospetto della sua Maestà.

Il suo venir meno dovrebbe rispecchiare l’atteggiamento di noi tutti nei confronti del mistero di Cristo, nei confronti della liturgia che di fatto ne è la manifestazione. Non si può sostenere con le proprie forze la grandezza del Mistero, per questo occorre lasciare da parte tutti gli sterili individualismi che allontanano i fedeli dalla dinamica dell’incontro con il Vivente!


Oggi non c’è bisogno di spalancare alla liturgia orizzonti nuovi; al di sopra delle sabbie mobili delle opinioni che mutano, della creatività fatta spesso di elementi ingarbugliati, occorre intravedere con chiarezza alcune mete, perchè agendo con leggerezza si dimentica che in gioco c’è il destino, la vita, la fede di molte persone.

La liturgia è cosa troppo seria per continuare a giocare: disinvoltura, improvvisazione, pressappochismo, ingenua fiducia riposta in sé, più che nella Chiesa, accettazione di ipotesi non verificate, dovrebbe cedere il posto a quel sacro sgomento che coglie l’uomo quando si sente responsabile davanti a Dio del destino dei fratelli.

Occorre recuperare il fervore delle prime comunità, caratterizzate dalla percezione palpitante, viva, commossa, esultante della presenza di Cristo.


Pensiamo alle prime liturgie apostoliche, ancora dominate dal ricordo delle apparizione del Risorto e del pane spezzato con lui e tutte protese, nel desiderio, verso la sua parusia gloriosa: nell’attesa!

Come doveva essere viva l’esperienza della sua presenza, invisibile, ma realissima, lì in mezzo a loro. Tutti i partecipanti erano galvanizzati: per questo il clima era saturo di gioia (tema caratteristico degli Atti degli Apostoli) e dall’assemblea uscivano con una carica apostolica irresistibile.

Questa esperienza può essere la nostra!

Cristo non è lì solo per farsi contemplare: è presente con tutta la sua potenza salvifica, con il suo mistero pasquale che è la sintesi di tutto l’agire di Dio, per afferrare la nostra vita e introdurla nella salvezza.


Questa esperienza suppone una celebrazione viva:

  • Un rito eseguito con dignità, la cui trasparenza divina verso il mistero, non sia offuscata da un’esecuzione sciatta e frettolosa.
  • Una comunità compatta ed alacre che sente la gioia di pregare e di cantare insieme.
  • Una predicazione fervida che ha tutto il calore di un “evangelion”, che riscopre ogni giorno, stupita e riconoscente, la meraviglia del dono e lo annunzia con il fiato mozzato.


Non pretenderemo che incida personalmente una celebrazione dove la predica invece di stimolare fa da sonnifero; dove il rito diventa una pietosa commedia; dove al posto di una comunità c’è un’amalgama di gente rassegnata e oppressa dalla noia. Quel rito è un corpo senz’anima.


Appena sapremo infondere in esso un palpito di vita, ci accorgeremo quale gioia, quale forza, quale slancio missionario si sprigiona dal Mistero celebrato.