mercoledì 25 novembre 2009

UP un film d'animazione che parla d'amore autentico


di Antonio Autieri
sabato 14 novembre 2009

Dopo i passaggi a Cannes e Venezia, e l’uscita in tutto il mondo, è stato finalmente visto e apprezzato anche dal pubblico italiano il nuovo grande film della Pixar di John Lasseter: Up, che circola anche in versione 3D, la nuova tecnologia che sta cambiando il cinema. E che qui aggiunge poco – se non in alcune scene movimentate – a un film i cui pregi risiedono nella storia divertentissima, avventurosa, commovente, indimenticabile. Caratteristiche che tornano spesso nei film Pixar.
Il protagonista di Up è Carl Fredricksen: lo osserviamo all’inizio bambino, che guarda al cinema con candido stupore immagini sgranate in bianco e nero (siamo negli anni 30) sull’eroico esploratore Charles Muntz, di cui diventa un fan; come lo è la piccola Ellie, destinata a diventare sua grande amica. Con un veloce salto nel tempo vediamo i due bambini – così diversi tra loro: lei chiacchierona e buffa, lui silenzioso e goffo – sognare avventure in posti paradisiaci, poi diventare grandi, sposarsi, sperare (invano) di avere figli e quindi invecchiare, in una veloce carrellata muta che – anche grazie alle musiche di Michael Giacchino – risulta di una grazia chapliniana. Sognatori affettuosi e innamorati, il venditore di palloncini Carl e la sua amata moglie Ellie hanno vissuto una vita semplice e felice. Finché lei non lo lascia solo su questa terra. E qui vediamo l’ormai vedovo Carl come è adesso, a 78 anni: solo, inacidito con il mondo, sospettoso verso gli strani uomini che costruiscono palazzi attorno a lui e che vorrebbero comprargli la casetta costruita e curata con amore insieme a Ellie, il cui ricordo è l’unica cosa che lo tiene in vita. E quando con un pretesto cercheranno di portargli quella specie di santuario della memoria del loro tenero amore coniugale, escogiterà una via di fuga incredibile: attaccando miriadi di palloncini alla dimora sradicata notte tempo dal terreno, volerà via in cerca di quelle avventure sognate tutta la vita e mai realizzate. Ma c’è un imprevisto: il piccolo Russell, un boy scout di 8 anni che gli si è infilato in casa e che vuole viaggiare con lui… Controvoglia, il burbero Carl se lo deve portar dietro: insieme si troveranno a vivere in Sud America avventure mirabolanti, drammatici pericoli e sorprese a non finire (con scene che esaltano l’incredibile spettacolarità del film, sempre con la casetta volante appresso…): come la scoperta che certi eroi non sono poi così apprezzabili, e che invece anche la persona più comune può diventare un vero eroe per salvare chi vuol bene.
Abbiamo forse detto anche troppo, ma in realtà c’è molto di più in Up, a cominciare da alcuni “caratteri” comici che seguono la tradizione Disney e Pixar (il divertente cane parlante Doug e l’uccello rarissimo Kevin), da battute irresistibili, da gag calibrate al millimetro. Ma soprattutto, in Up c’è la consueta capacità dello staff Pixar – qui alla regia c’è Pete Docter, che già realizzò Monsters & Co. – di unire divertimento e toccante rappresentazione umana. Dopo aver raccontato giocattoli in crisi di identità o alla ricerca delle proprie origini (i due Toy Story), mostri che scoprono l’accettazione dell’alterità come strada per l’amicizia (Monsters & Co.), padri ansiosi e figli ribelli (Alla ricerca di Nemo), uomini in crisi di mezza età e di famiglie litigiose ma in fondo unite (Gli incredibili), amicizie che cambiano la vita (Cars), talenti che aprono anche il cuore più indurito (Ratatouille), e uomini capaci di riscattarsi dopo secoli di “letargo” esistenziale (Wall-E), anche stavolta riescono ancora a sorprenderci. Raccontando non solo l’ennesima “strana coppia” del cinema formata dal bambino e dal vecchietto (che ricorda tantissimo Spencer Tracy, grande attore di qualche decennio fa, anche nei modi burberi ma in fondo bonari), ma soprattutto mettendo al centro temi come la perdita della persona amata, la solitudine, la necessità di vivere il ricordo come memoria viva e non come ostacolo alla vita.

Dopo aver sognato avventure impossibili, Carl non solo si troverà a viverle anche oltre ogni sua immaginazione, ma capirà – grazie all’ultimo regalo di Ellie, in una scena che fa commuovere anche i sassi – che la sua più grande avventura è stato vivere sempre accanto al grande amore della sua vita. Un amore così grande da invitarlo ad andare avanti, a non fermarsi a un pur dolce ricordo e a lanciarsi nelle nuove avventure che l’esistenza gli può ancora proporre. Che sia lanciarsi in imprese spericolate per un ometto quasi ottantenne o confortare un bambino dalla difficile situazione affettiva.


Belgio: in coma da molti anni come Eluana, sentiva tutto!


Tratto da Il Giornale del 24 novembre 2009

Londra - Per ventitré anni ha vissuto imprigionato nel suo corpo incapace di muoversi e di comunicare. I medici gli avevano diagnosticato uno stato di coma vegetativo, ma si erano sbagliati. Rom Houbens, un uomo belga che adesso ha 46 anni, capiva perfettamente tutto quello che accadeva intorno a lui, ma non era in grado di dirlo. Così, dopo che un grave incidente d'auto l'aveva lasciato paralizzato, ha trascorso metà della sua esistenza ascoltando i medici che tentavano di migliorare le sue condizioni, poi rinunciavano a curarlo.

Il suo era ormai stato archiviato come un caso senza speranza quando la sua diagnosi venne rivista. Si tratta di una storia accaduta a Zolder, in Belgio, tre anni fa e che è stata resa pubblica soltanto ora dopo la pubblicazione su una rivista scientifica proprio dal medico che ha cambiato il destino di Houbens.

Raccontata ieri dal quotidiano inglese Daily Telegraph, questa vicenda fa molto riflettere sul diritto all'eutanasia di cui tanto si è discusso anche in Italia soprattutto dopo il caso di Eluana Englaro. E viene da pensare con raccapriccio a che cosa sarebbe accaduto se la famiglia del signor Houbens avesse insistito nel chiedere ai medici di «staccare la spina». Rom sarebbe probabilmente morto quando ancora era del tutto consapevole di ciò che accadeva. Prima dell'incidente occorsogli nel 1983, l'uomo era uno studente universitario appassionato di arti marziali. Dopo essere rimasto paralizzato i medici l'hanno curato costantemente controllando le sue condizioni con il Glasgow Coma Scale, un metodo internazionalmente riconosciuto che giudica lo stato del paziente attraverso le sue risposte visive, verbali e motorie.

A ogni esame la diagnosi inesatta veniva riconfermata e Houbens assisteva in silenzio ai commenti dei medici e alla disperazione dei parenti senza poter fare nulla. Tre anni fa, la svolta. All'università di Liegi un medico decide di riesaminare il caso dall'inizio e finalmente si scopre che il cervello di Houbens ha funzionato quasi normalmente per tutti questi anni. La nuova terapia che gli è stata prescritta adesso gli consente di comunicare con il mondo esterno attraverso un computer. Per Rom è stato come rinascere per una seconda volta. «Non potete immaginare che cosa significhi risvegliarsi e capire di aver perso il controllo del proprio corpo - ha raccontato l'uomo, - tentare di gridare senza che dalla mia bocca uscisse nemmeno un suono. Per anni sono stato testimone della mia sofferenza. Non dimenticherò mai il giorno che hanno scoperto l'errore nella diagnosi. Per tutto questo tempo non ho fatto altro che sognare una vita migliore».

Il neurologo Steven Laureys, che si è occupato del caso, afferma che spesso il coma vigile viene scambiato per coma vegetativo. «Soltanto in Germania - ha spiegato il medico che dirige il dipartimento di Neurologia all'ateneo di Liegi - ogni anno 100mila persone subiscono gravi traumi cerebrali. Circa 20mila restano in coma per tre settimane o più a lungo. Alcuni muoiono, altri si riprendono. Ma una percentuale che oscilla dalle 3mila fino alle 5mila persone l'anno, rimane intrappolata in uno stato intermedio. Continuano a vivere senza mai ritornare indietro completamente». Houbens adesso si trova in una struttura vicino a Bruxelles e può nuovamente comunicare con i suoi genitori e con tutti i suoi amici.

Guai a discutere di Maometto. Ma Gheddafi può insultare Gesù.


A cura di Renato Farina – Il Giornale 17/11/09

Arrivato a Roma, che resta in fondo la capitale della cristianità, Gheddafi non ha staccato il crocifisso dal muro. A quello ci pensa l'Europa. Lui ha preteso di identificare chi vi è stato inchiodato. Dicendo: «Non è Gesù, non è mai stato Gesù».

«Era un sosia, uno che gli assomigliava», ha predicato con solennità. Per citare l'agenzia Ansa si sarebbe espresso così: «Voi credete che Gesù è stato crocifisso ma non lo è stato, lo ha preso Dio in cielo. Hanno crocefisso uno che assomigliava a lui». Ma non solo: «Gli ebrei hanno cercato di ammazzare Gesù perché lui voleva rimettere sulla via giusta la religione di Mosè».
Insomma: Gesù è un profeta dell'Islam, e sarebbe una specie di vigliacco che scappa in braccio a Dio per non farsi mettere a morte dagli ebrei, lasciando che sia un altro a soffrire per lui. La nostra idea, forse la nostra speranza, è che ieri a dire queste bestialità beduine non sia stato il vero Colonnello ma un suo sosia. Una pratica molto nota tra i capi musulmani. Saddam Hussein ne aveva una dozzina, è stato scritto un bellissimo libro sul tema da Martin Amis. Probabile ne abbia anche Gheddafi, ma la prossima volta li scelga più intelligenti, e anche più rispettosi delle persone e del luogo dove va a pontificare.

La storia, per le persone cui fosse sfuggita, è questa: il capo del popolo libico, a Roma per il vertice della Fao, ha fatto rastrellare duecento ragazze alte e belle, vestite in modo castigato. Ha donato a ciascuna una banconota, poi ha cercato di convertirle. Da noi, nei Paesi occidentali, non è vietato: c'è libertà religiosa e anche di proselitismo. Ma da noi c'è anche il diritto di critica. E per il momento abbiamo anche il diritto alla difesa della Bibbia e in essa del Vangelo.
Stiamo un attimo sul punto. Quella della crocefissione di un Sosia, non è una trovata del leader libico, è una affermazione che sta scritta nel Corano. Il quale fa di Gesù un Profeta, ma nega l'essenziale su di lui, lo mangia e lo digerisce per il comodo di Maometto, che voleva sostituire la Rivelazione cristiana con la sua. Legittimo, da noi c'è libertà di religione. Ma il fatto che il rappresentate di un popolo convochi, con 50 euro di mancia al netto delle tasse, cento ragazze italiane per indottrinarle, senza diritto di replica, è qualcosa che se fosse stato fatto - a parti rovesciate - in Arabia o in Libia, il predicatore non sarebbe vivo. Se ad esempio, alla Mecca (che corrisponde più o meno a Roma per l'Islam) Berlusconi andasse a sostenere che Maometto sposando una bambina di nove anni ha violato l'infanzia, sarebbe stato decapitato come minimo, più probabilmente lapidato.

Noi ci ricordiamo bene quando, con il pretesto della maglietta con la vignetta su Maometto indossata dal ministro Calderoli, per poco non si dichiarò guerra all'Italia e fu assaltato il nostro consolato a Bengasi. E quella maglietta era assai delicata rispetto alla negazione ostentata, nella Roma di Pietro, della verità storica sulla passione e sul Calvario. Una specie di insensato negazionismo. Finché resta nei confini delle moschee ed è esposto da semplici imam, offende la nostra comunità e la nostra tradizione, ma ci sta, amaramente ci sta: è il prezzo della tolleranza e della libertà. Ma un capo di Stato non può abusare della sua intangibilità di ospite nonché di detentore del gas e del petrolio. Esistono dei doveri di civiltà, anche fra i beduini in visita, e conviene che qualcuno li ricordi al leader Gheddafi.

Il Crocifisso scomodo


di Antonio Socci

da Libero 4 novembre 2009

Gesù è stato giudicato – duemila anni fa – dalle varie magistrature del suo tempo. E sappiamo cosa decise la “giustizia” di allora.
Oggi la Corte europea di Strasburgo ha emesso una sentenza secondo cui lasciare esposta nelle scuole la raffigurazione di quell’Innocente massacrato dalla “giustizia umana” viola la libertà religiosa.
E’ stato notato che semmai il crocifisso ricorda a tutti che cosa è la giustizia umana e cosa è il potere ed è quindi un grande simbolo di laicità (sì, proprio laicità) e di libertà (viene da chiedersi se gli antichi giudici di Gesù sarebbero contenti o scontenti che una sentenza di oggi cancelli l’immagine di quel loro “errore giudiziario” o meglio di quella loro orrenda ingiustizia).
Ma discutiamo pacatamente le ragioni della sentenza di oggi: il crocifisso nelle aule, dicono i giudici, costituisce “una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni” e una violazione alla “libertà di religione degli alunni”.
Per quanto riguarda la prima ragione obietto che quel diritto dei genitori è piuttosto leso da legislazioni stataliste che non riconoscono la libertà di educazione e che magari usano la scuola pubblica per indottrinamenti ideologici.

La seconda ragione è ancor più assurda. Il crocifisso sul muro non impone niente a nessuno, ma è il simbolo della nostra storia. Una sentenza simile va bocciata anzitutto per mancanza di senso storico, cioè di consapevolezza culturale, questione dirimente visto che si parla di scuole. Pare ignara di cosa sia la storia e la cultura del nostro popolo.
Per coerenza i giudici dovrebbero far cancellare anche le feste scolastiche di Natale (due settimane) e di Pasqua (una settimana), perché violerebbero la libertà religiosa.
Stando a questa sentenza, l’esistenza stessa della nostra tradizione bimillenaria e la fede del nostro popolo (che al 90 per cento sceglie volontariamente l’ora di religione cattolica) sono di per sé un “attentato” alla libertà altrui.

I giudici di Strasburgo dovrebbero esigere la cancellazione dai programmi scolastici di gran parte della storia dell’arte e dell’architettura, di fondamenti della letteratura come Dante (su cui peraltro si basa la lingua italiana: cancellata anche questa?) o Manzoni, di gran parte del programma di storia, di interi repertori di musica classica e di tanta parte del programma di filosofia.
Infatti tutta la nostra cultura è così intrisa di cristianesimo che doverla studiare a scuola dovrebbe essere considerato – stando a quei giudici – un attentato alla libertà religiosa. In lingua ebraica le lettere della parola “italia” significano “isola della rugiada divina”: vogliamo cancellare anche il nome della nostra patria per non offendere gli atei? E l’Inno nazionale che richiama a Dio?

Perfino lo stradario delle nostre città (Piazza del Duomo, via San Giacomo, piazza San Francesco) va stravolto? Addirittura l’aspetto (che tanto amiamo) delle vigne e delle colline umbre e toscane – come spiegava Franco Rodano – è dovuto alla storia cristiana e ad un certo senso cattolico del lavoro della terra: vogliamo cancellare anche quelle?

Ma non solo. Come suggerisce Alfredo Mantovano, “se un crocifisso in un’aula di scuola è causa di turbamento e di discriminazione, ancora di più il Duomo che ‘incombe’ su Milano o la Santa Casa di Loreto, che tutti vedono dall’autostrada Bologna-Taranto: la Corte europea dei diritti dell’uomo disporrà l’abbattimento di entrambi?”
Signori giudici, si deve disporre un vasto piano di demolizioni, di cui peraltro dovrebbero far parte pure gli ospedali e le università (a cominciare da quella di Oxford) perlopiù nati proprio dal seno della Chiesa?

Infine (spazzata via la Magna Charta, san Tommaso e la grande Scuola di Salamanca) si dovrebbero demolire pure la democrazia e gli stessi diritti dell’uomo (a cominciare dalla Corte di Strasburgo) letteralmente partoriti e legittimati (con il diritto internazionale) dal pensiero teologico cattolico e dalla storia cristiana?
La stessa Costituzione italiana – fondata sulle nozioni di “persona umana” e di “corpi intermedi” (le comunità che stanno fra individui e Stato) – è intrisa di pensiero cattolico. Cancelliamo anche quella come un attentato alla libertà di chi non è cattolico?
E l’Europa? L’esistenza stessa dell’Europa si deve alla storia cristiana, se non altro perché senza il Papa e i re cristiani prima sui Pirenei, poi a Lepanto e a Vienna, l’Europa sarebbe stata spazzata via diventando un califfato islamico.
Direte che esagero a legare al crocifisso tutto questo. Ma c’è una controprova storica. Infatti sono stati i due mostri del Novecento – nazismo e comunismo – a tentare anzitutto di spazzare via i crocifissi dalle aule scolastiche e dalla storia europea.
Odiavano l’innocente Figlio di Dio massacrato sulla croce, furono sanguinari persecutori della Chiesa e del popolo ebraico (i due popoli di Gesù) che martirizzarono in ogni modo e furono nemici assoluti (e devastatori) della democrazia e dei diritti dell’uomo (oltreché della cultura cristiana dell’Europa e della civiltà).

Il nazismo appena salito al potere scatenò la cosiddetta “guerra dei crocefissi” con la quale tentò di far togliere dalle mura delle scuole germaniche l’immagine di Gesù crocifisso.
Non sopportavano quell’ebreo, il figlio di Maria, e volevano soppiantare la croce del Figlio di Dio, con quella uncinata, il simbolo esoterico dei loro dèi del sangue e della forza. Lo stesso fece il comunismo che tentò di sradicare Cristo dalla storia stessa.

Se le moderne istituzioni democratiche europee si fondano sulla sconfitta dei totalitarismi del Novecento, non spetterebbe anche alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo considerare che la tragedia del Novecento è stata provocata da ideologie che odiavano il crocifisso (e tentarono di sradicarlo) e che i loro milioni di vittime si ritrovano significate proprio dal Crocifisso?
Non a caso è stata una scrittrice ebrea, Natalia Ginzburg, a prendere le difese del crocifisso quando – negli anni Ottanta – vi fu un altro tentativo di cancellarlo dalle aule: “Non togliete quel crocifisso” fu il titolo del suo articolo.

Scriveva:
“il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino allora assente. La rivoluzione cristiana ha cambiato il mondo. Vogliamo forse negare che ha cambiato il mondo? (…) Dicono che da un crocifisso appeso al muro, in classe, possono sentirsi offesi gli scolari ebrei. Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato, e non è forse morto nel martirio, come è accaduto a milioni di ebrei nei lager? Il crocifisso è il segno del dolore umano”.
La Ginzburg proseguiva:
“Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo… prima di Cristo nessuno aveva mai detto che gli uomini sono uguali e fratelli tutti, ricchi e poveri, credenti e non credenti, ebrei e non ebrei e neri e bianchi, e nessuno prima di lui aveva detto che nel centro della nostra esistenza dobbiamo situare la solidarietà fra gli uomini… A me sembra un bene che i ragazzi, i bambini, lo sappiano fin dai banchi della scuola”.
Con tutto il rispetto auspichiamo che pure i giudici lo apprendano. “Il crocifisso fa parte della storia del mondo”, scrive la Ginzburg.

Infine il crocifisso è il più grande esorcismo contro il Male. Infatti non è il crocifisso ad aver bisogno di stare sui nostri muri, ma il contrario. Come dice un verso di una canzone di Gianna Nannini: “Questi muri appesi ai crocifissi…”. Letteralmente crolla tutto senza di lui, tutti noi siamo in pericolo.
Per questo potranno cancellarlo dai muri e alla fine – come accade in Arabia Saudita – potranno proibirci anche di portarne il simbolo al collo, ma nessuno può impedirci di portarlo nel cuore. E questa è la scelta intima di ognuno. La più importante.


giovedì 5 novembre 2009

Via il crocifisso? E allora abolite il calendario, la Domenica, gli ospedali, le università...



Un divertente articolo di Andrea Tornielli ci aiuta a far luce sull'abissale ignoranza della Corte di Strasburgo.

tratto da Il Giornale.it
di Andrea Tornielli

Caro Direttore,
la sentenza della Corte di Strasburgo mi ha finalmente aperto gli occhi. L’Italia deve svegliarsi dal suo medioevale torpore e imparare dalle avanguardie europee. Diciamola tutta: è l’ora di finirla con quest’Italietta cattolica, con questo Paese di campanili, con il frusciar di tonache pretesche e d’ingerenze cardinalizie a ogni piè sospinto.

Finalmente c’è un giudice a Berlino che riconosce l’inaudita violenza alla quale sono stati sottoposti fin dalla fondazione dello Stato unitario generazioni di studenti, costretti a incrociare con lo sguardo svogliato, quei due pezzi di legno inchiodati al muro. È ora di liberarsi da questi fardelli del passato, la cristianità è tramontata, la Repubblica è laica, i cristiani tengano i crocifissi in casa o in chiesa, non pretendano di imporli a scuola e negli uffici in pubblici né tantomeno nelle aule di giustizia dove vengono giudicati i poveri cristi.

La battaglia per la libertà dal giogo della religione è però appena cominciata. Questo è soltanto un primo, timido ma necessario passo. Te ne suggerisco qualche altro. Non basterà abolire, come tu stesso hai ricordato, il simbolo della Croce Rossa su fondo bianco, ormai tradizionale emblema delle istituzioni ospedaliere. Bisognerà porre la questione ormai irrinunciabile, del computo del tempo. Ti pare corretto che io, laico, sia costretto per un’assurda convenzione d’antan a calcolare gli anni dalla data nascita di un ebreo marginale e irrilevante, venuto al mondo in un villaggio agli estremi confini dell’Impero romano? Ti pare giusto che io debba riferirmi a quella nascita ogni qual volta spedisco un’email, scrivo una lettera, pianifico una vacanza o leggo un giornale? Sopruso insopportabile: son costretto a riferirmi a Gesù ogni santo giorno e più volte al giorno. L’Europa dovrebbe studiare un calendario veramente laico e condiviso, che faccia piazza pulita di queste convenzioni religiose di parte. Si potrebbe ricominciare a contare gli anni dalla fondazione di Roma (ma i laziali saranno d’accordo?) o meglio inventare una data di partenza ex novo.

E poi, vogliamo parlare della domenica? Si continua a chiamarla così, vale a dire dies Domini, giorno del Signore, e sono costretti a festeggiarla tutti, anche i non credenti, quando è risaputo che in questo giorno si ricorda la resurrezione del suddetto ebreo marginale nato in Giudea un paio di millenni fa. Perché favorire quei cattolici (sempre meno), che usano di quel giorno per le loro pratiche religiose di precetto? Noi laici dovremmo ribellarci, e chiedere all’Europa di istituire il fine settimana il martedì (non il mercoledì, sennò favoriamo quelli che vanno all’udienza del Papa), equidistante sia dalla domenica cristiana sia dal venerdì islamico e dal sabato ebraico. Non parliamo poi di feste quali il Natale o la Pasqua, così smaccatamente cristiane. Basta con l’ipocrisia di trasformarle in feste dei buoni sentimenti o della primavera: si aboliscano. E i cristiani che vogliono andare a messa si prendano un giorno di ferie.

Ancora. Vogliamo finirla con le scuole pubbliche e le vie intitolate ai santi? Perché mai una scuola statale dovrebbe chiamarsi «Francesco d’Assisi»? La famiglia benestante potrebbe risentirsi, non ritenendo quello di San Francesco un modello in linea con la new economy, come pure potrebbe non essere d’accordo la famiglia del cacciatore, che agli uccellini e ai lupi preferisce sparare piuttosto che parlare. E i troppi affreschi esposti in luogo pubblico, così irritanti per il loro contenuto ostentatamente religioso? E i campanili che svettano fastidiosamente, impossibili da non notarsi, anche quando si percorre l’autostrada? Non si potrebbero oscurare con appositi pannelli? Chi pensa ai miei diritti di laico quando passeggiando per i sentieri di montagna m’imbatto in quelle edicole con l’effigie della Madonna (la madre dell’ebreo marginale di cui sopra)? E perché in cima alle montagne ci si deve andare per forza a piantare una croce?

Infine, bisognerà pur affrontare anche il problema di certi simboli matematici. Il segno del «più», lo sanno tutti, è una croce bell’e buona. Anche il segno del «per» lo è, infatti quella è la forma della croce di Sant’Andrea. Troviamo un’alternativa, per non offendere i laici che impegnati in un calcolo algebrico, potrebbero perdere la loro concentrazione soffermandosi su quel segno. Un segno che li potrebbe distrarre, ricordando le crociate, le battaglie contro gli arabi musulmani ai quali dobbiamo, tra l’altro, proprio i numeri che utilizziamo ogni giorno. Forse in nome della laicità, e per non sembrare di prendercela solo con i cristiani, sarebbe meglio abolire pure i sincretisici numeri indo-arabici e tornare ai vecchi numeri romani. Mi fermo qui, perché ho già scritto troppo, per l’esattezza LXXIX righe.

giovedì 29 ottobre 2009

Halloween? No grazie, Holyween






I giovani nell'era di Nietzche


di Matteo Lusso

"Ahimè! Sta per giungere il tempo in cui l'uomo non scoccherà più la freccia del suo desiderio oltre l'essere umano e la corda del suo arco avrà disimparato a vibrare" (Nietzche, Così parlò Zarathustra, 1885).

"Nei prossimi anni il mondo sarà sottosopra: dopo che il vecchio Dio è stato congedato, sarò io a reggere il mondo "(Nietzche, lettera a Carl Fuchs, 18 dicembre 1888).

Verrebbe innanzitutto da dire che quel tempo è giunto, che la profezia di Nietzche/Zarathustra si è perfettamente avverata. Il mondo di oggi - anche quello dei giovani - è così: l'uomo ha disimparato a tendere l'arco del proprio desiderio, l'obiettivo della freccia è sempre a corto raggio e come il bambino si esalta quando riesce a superare una prova che gli viene facilitata, così l'uomo di oggi si accontenta ed è appagato di ciò che riempie facilmente la sua vita, dentro il perimetro ristretto del proprio desiderio. Siamo in fondo contenti così, va bene così, proprio perché non sappiamo reagire, non sapremmo far vibrare l'arco e scoccare la freccia verso orizzonti più lontani, perché abbiamo disimparato a desiderare. Avere il vestito firmato, trascorrere una settimana al mare con il proprio "tipo/a", un bel cellulare, andare bene a scuola e poter tornare all'ora in cui si vuole la notte: ecco la portata - ben identificabile - degli obiettivi della propria freccia. D'altra parte è così che ci vuole il mondo: rassegnati, impegnati, indaffarati, distratti: così siamo fedeli consumatori e perfetti cittadini. L'importante è non disturbare, non lasciarsi prendere dall'irrequietudine, non creare problemi, tanto non serve.... il mondo è un meccanismo troppo perfetto per essere inceppato. Un gioco, in cui i giocatori sanno già chi vince: ribellarsi un po' va bene, fa parte del gioco, è concesso all'adolescente questo margine di creatività ma anche lui stesso sa che presto o tardi il gioco finirà e per questo non si prenderà sul serio più di tanto. Chi non sa accettare il limite rischia grosso, chi non rientra in tempo, chi va oltre il prevedibile o il concesso.... Succede, soprattutto ai più sensibili o vivaci! Allora saranno guai davvero ed arriveranno schiere di esperti del disagio giovanile, della devianza, del recupero. Sono rischi previsti dalla società per chi non ha capito che si trattava di un gioco e che il ritorno alla realtà era inevitabile.

Forse per Nietzche più che una profezia si trattava di un auspicio: che l'uomo impari a non desiderare altro che l'essere umano, che l'arco del desiderio disimpari a vibrare significa accettare finalmente e sino in fondo la propria mortalità, imparare a cercare il senso della terra nel vivere stesso, scoprire il senso del proprio cammino umano giorno dopo giorno mentre si compie il cammino stesso. Non più ipotesi di senso assolute ed universali ma unicamente costruite, cercate, verificate nella propria ed irripetibile biografia. Ma il grande pensatore tedesco, se fosse presente oggi, credo dovrebbe lealmente constatare che, in luogo del superuomo, l'io nato dalla morte di Dio è un bambino smarrito in una foresta di giocattoli.

Ai giovani che incontro amo dire: dovete imparare a difendervi, dovete imparare a difendervi dai vostri padri (in senso generazionale), malgrado nessuno abbia intenzioni cattive, dovete difendervi dalla nostra confusione e dal nostro smarrimento. Dovete farlo perché la vita è vostra ed è terribilmente bella e voi avete diritto a goderne pienamente.

La cultura nichilista di oggi, che esalta la libertà individuale e rifiuta la sacralità della vita, è stata paragonata dal Papa alla follia hitleriana. «I lager nazisti, come ogni campo di sterminio, possono essere considerati simboli estremi del male, dell'inferno che si apre sulla terra quando l'uomo dimentica Dio e a Lui si sostituisce, usurpandogli il diritto di decidere che cosa è bene e che cosa è male, di dare la vita e la morte», ha detto infatti Benedetto XVI all'Angelus, denunciando che «purtroppo questo triste fenomeno non è circoscritto ai lager. Essi sono piuttosto la punta culminante di una realtà ampia e diffusa, spesso dai confini sfuggenti».

«Bisogna riflettere sulle profonde divergenze che esistono tra l'umanesimo ateo e l'umanesimo cristiano; un'antitesi che attraversa tutta quanta la storia, ma che alla fine del secondo millennio, con il nichilismo contemporaneo, è giunta a un punto cruciale, come grandi letterati e pensatori hanno percepito, e come gli avvenimenti hanno ampiamente dimostrato». «Da una parte - ha rilevato il Pontefice - ci sono filosofie e ideologie, ma sempre più anche modi di pensare e di agire, che esaltano la libertà quale unico principio dell'uomo, in alternativa a Dio, e in tal modo trasformano l'uomo in un dio, che fa dell'arbitrarietà il proprio sistema di comportamento. Dall'altra - ha continuato - abbiamo i santi, che, praticando il Vangelo della carità, rendono ragione della loro speranza; essi mostrano il vero volto di Dio, che è Amore, e, al tempo stesso, il volto autentico dell'uomo, creato a immagine e somiglianza divina». (Angelus, 9 agosto 2009)

C'è qualcuno che sappia parlarvi delle stelle? Che sappia farvi sognare le stelle?

E' iniziato il Grande tranello 10


Tratto da Avvenire del 28 ottobre 2009

Un gran successo di auditel, per Canale 5. Perché Il Grande Fratello 10 ha esordito, lu nedì sera, con un aumen to di 1 milione 449. 000 spettatori rispetto all’an no precedente, con un to tale di 6. 047. 000, share del 30, 87%. Numeri che col piscono e in qualche misura ingannano, perché in una Italia che conta sessanta mi lioni di anime la cifra di coloro che si sono incatenati alla tv per la nuova serie corrisponde a un decimo della popolazione: molti, ab bastanza per un bilancio posi tivo, per la rete, ma fortunata mente numero lontano dalla maggioranza degli italiani, che testimonia in modo confor­tante della capacità di critica di coloro che nei numeri non appaiono, ma che seguono in tv spettacoli meno sconfor tanti o hanno altro da fare. Perché il giudi zio che da anni si esprime nei confronti del format acchiappa- curiosi, già quasi estin to altrove ma fiorente, a quanto pare, sol tanto da noi, certamente non cambia di fronte allo spettacolo penoso della barac conata della grande casa, con la sfilata – fra i reduci delle precedenti edizioni, ricaduti nel vuoto – dei nuovi concorrenti, tutti de­bitamente affini fra loro e ai modelli ora im peranti.

Tanti Fabrizio Corona gocciolanti di gel, con tatuaggi a iosa, fanciulle strepitanti come scimmie platirrine che si sforzavano di e mulare Belen e alternavano strilli a mugo lii di gioia abbracciando chiunque. E natu ralmente casi umani, come si dice, orfani e disoccupati, potenziali esuli dal loro gene re nativo avviati verso la carriera di ' trans', personaggi che si sono distinti per il nulla assunto a professione, ragazze bamboleg gianti e giovanotti che si accarezzano pen sosi la barba simulando pensieri. Fra le ur la della Marcuzzi, i cui polmoni usciranno usurati da una conduzione che si prevede di mesi, e gli applausi frenetici di una folla di ammiratori che si accon tentano di poco lo spettacolo si è avviato secondo lo sche ma del circo e la ' prima' si è snodata per interminabili ore sino a notte fonda, ma per la consolazione degli appassio nati, che non sapranno stac carsene, ci sarà su altri canali la possibilità di seguire in ogni istante la commedia che intrecceranno gli ospiti (ma, rispetto agli altri anni, non su Sky, alla qua le Mediaset ha negato la trasmissione), ora tutti festosamente abbracciati, ma pronti a sbranarsi e ad eliminarsi l’un l’altro, come vuole il gioco, in prevedibili risse e nel 'con fessionale' custode di malignità e accuse.

Tutto già visto, secondo un copione che ha tolto, al gioco cosiddetto, ogni originalità: il che suggerisce, purtroppo, che ci saran no certamente trasgressioni a iosa come «sorprese» per solleticare curiosità anche morbose. «Al peggio non c'è mai fine», di cevano una volta gli scettici.

lunedì 26 ottobre 2009

Il premio Nobel per la Letteratura Saramago se la prende con Dio


di Alessandro Gnocchi
Tratto da Il Giornale del 25 ottobre 2009

«Vendicativo, rancoroso, cattivo e indegno di fiducia». Questo losco figuro, secondo lo scrittore portoghese José Saramago, premio Nobel per la letteratura, è il «Dio della Bibbia». In quanto alla Chiesa cattolica, essa «scatena nuovi odii alimentando rancore».

Il motivo di tanto risentimento verso il «Dio della Bibbia» è presto detto. Saramago ha appena pubblicato in Portogallo Caino romanzo in cui reinterpreta il fratricidio biblico. Lo spot del libro, un vero e proprio trailer, ha come slogan: «Che diavolo di Dio è questo che, per innalzare Abele, disprezza Caino?». Il lancio, a fine agosto, aveva suscitato scalpore ma non abbastanza, nonostante l’impegno dell’autore prodigatosi in affermazioni nelle quali qualcuno ha visto una sfumatura di antisemitismo: «Mi risulta difficile comprendere come il popolo ebraico abbia scelto per testo sacro l’Antico Testamento. È un tale miscuglio di assurdità che non può essere stato inventato da un uomo solo. Ci vollero generazioni e generazioni per produrre questa mostruosità».

Comunque sia, l’uscita del romanzo ha lasciato perplessa la chiesa lusitana, rinnovando così uno scontro iniziato negli anni Novanta, quando Saramago aveva mandato in libreria Il vangelo secondo Gesù, storia di come Cristo perse la verginità con Maria Maddalena. I vescovi del Paese hanno accusato lo scrittore di offendere i cattolici e bollato Caino come «una operazione pubblicitaria irriverente». Saramago non aspettava altro, e calatosi nella parte del perseguitato ha convocato una conferenza stampa durante la quale si è prodotto nelle dichiarazioni di cui sopra. «Nella Bibbia - ha poi aggiunto - si narrano crudeltà, incesti, violenze di ogni genere, carneficine. Tutto ciò è incontestabile, ma è bastato che lo dicessi io, per suscitare una polemica». E ha concluso con un sentito richiamo al «diritto di riflettere» che «appartiene a ciascun individuo» e con una vibrante denuncia della «intolleranza delle religioni organizzate».

Ecco, la «intolleranza delle religioni organizzate». Un tema già affrontato da Saramago, ateo e comunista, in modo alquanto sorprendente. Lo scrittore portoghese, infatti, quando vede i simboli del cristianesimo è come un toro nell’arena davanti al drappo rosso: carica a testa bassa. Diventa però mansueto se alla croce si sostituisce la mezzaluna islamica. Nel 2007 in Spagna fu pubblicato, con denaro pubblico, un libro fotografico con immagini choc: tanto per dirne una, la Madonna con in braccio un maiale. Comprensibile la reazione, ferma ma composta, dei cattolici spagnoli, ovviamente indignati. Saramago insorse contro chi protestava, gridando alla tentata censura: «Crediamo fermamente che un valore fondamentale delle società democratiche, come quello della libertà di espressione e di creazione, non possa essere sottomesso o soggiogato a regole morali».

Pochi mesi prima era scoppiata la questione delle vignette danesi sul profeta Maometto, le vergini, i kamikaze. I musulmani scesero in piazza e già che c’erano bruciarono qualche ambasciata. Anche in quel caso il premio Nobel insorse. Ma contro i disegnatori: «Quello che mi ha davvero spiazzato è l’irresponsabilità dell’autore o degli autori di quei disegni. Alcuni ritengono che la libertà di espressione sia un diritto assoluto. Ma la cruda realtà impone dei limiti».

Ecco, la «cruda realtà» è questa: per Saramago tutte le religioni sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre. La «intolleranza delle religioni organizzate»? In alcuni casi lo scrittore la giustifica. In quanto alla libertà d’espressione, è un valore relativo, dipende da chi chiede la parola. Un eventuale Nobel per la doppia morale non glielo toglierebbe nessuno.

Scalfari: "Papa Benedetto? Un modesto teologo"



Ci vuole una bella faccia tosta per fare una simile affermazione. Dare del modesto teologo a chi ha contribuito in maniera sostanziale per mezzo di libri, trattati, simposi, conferenze, encicliche, e badate bene, un Concilio (il Vaticano II) a fare la storia della teologia del nostro tempo.
Bhé d'altra parte Scalfari da qualche anno a questa parte si è dato anima e corpo alla teologia dell'EGO e del nichilismo di cui è tra i più grandi ed illustri esponenti, ed in questo campo, bisogna essere onesti, l'ex-direttore è davvero imbattibile!

Dan Brown, l'anticattolico reoconfesso



Per la serie, se non si era capito...

Tratto da Avvenire del 24 ottobre 2009

Dan Brown, l’autore de «Il codice da Vinci» e, ora, de «Il simbolo perduto», conferma esplicitamente quanto osservato da Massimo Introvigne su «Avvenire» lo scorso 17 settembre: «L’obiezione di questo critico corrisponde a verità: sono molto più benevolo nei confronti della massoneria che del Vaticano».

Nell’intervista rilasciata a Marco De Martino per «Panorama», lo scrittore ritorna sulla bagarre suscitata dal suo romanzo più celebre, confermando che dietro al quadro in nero che ha fatto della Chiesa c’è effettivamente un astio personale. Anzi, arriva al punto di esaltare la massoneria come «un’organizzazione globale i cui membri si congregano in pace», «un modello straordinario di tolleranza spirituale a livello globale».

E la Chiesa? Dan Brown dice di aver rispetto per i suoi «sforzi nei confronti di chi soffre», ma proprio non riesce a frenare la sua ostilità per quella che definisce «un’organizzazione che esclude chi non aderisce alla sua visione del mondo» e per un Vaticano «struttura di potere antica e sorpassata».

sabato 24 ottobre 2009

Popieluszko “Non si può uccidere la speranza”



Assolutamente da vedere il film presentato lo scorso 19 Ottobre al festival di Roma. Il film intitolato “Popieluszko”, racconta la vita del “cappellano di Solidarnosc”, barbaramente ucciso il 19 ottobre 1984. Il film, che ha già riscosso un ampio successo in Polonia, verrà distribuito a fine mese nelle sale italiane.

Di seguito riportiamo una recensione del film ed una breve biografia del “Servo di Dio” P. Jerzy Popieluszko…


Il cappellano di Solidarnosc


di Gianluca Arnone
Libero News 12 ottobre 2009

Al Festival di Roma l'Evento Speciale sarà Popieluszko: storia di un martire che ispirò Walesa e guidò la Polonia alla libertà
Il corpo di Padre Jerzy Popieluszko venne ritrovato il 30 ottobre 1984 nelle acque della Vistola. Aveva 37 anni ed era considerato da tutti il cappellano di Solidarnosc. Dimenticata per anni, la sua storia - che testimonia ad un tempo il sacrificio individuale per la verità, la dignitosa fermezza di un popolo vessato da anni di totalitarismo e il volto criminale del regime comunista polacco - riemerge precisa e tragica in Popieluszko, il film che sarà presentato come Evento Speciale al festival di Roma il prossimo 19 ottobre, esattamente 25 anni dopo il suo rapimento a Torun e la barbara uccisione per mano di tre funzionari dei servizi segreti (più un complice). E' allora che la vita di Padre Jerzy entra di diritto nella rosa delle biografie straordinarie del novecento, piccole onde che si allungano nelle paludi della storia come maremoti, travolgendo argini e regimi. La sua vicenda ricorda da vicino quella del nostro Padre Puglisi, l'uno e l'altro martiri della libertà contro la sopraffazione organizzata. Il film di Rafal Wieczynski - che sul "Servo di Dio" (titolo che la Chiesa cattolica assegna dopo la morte a persone che si sono distinte per «santità di vita» o «eroicità delle virtù») aveva già realizzato il documentario I vincitori non muoiono. Documento su padre Popieluszko, inedito in Italia - ripercorre passo dopo passo la vita del cappellano, dall'infanzia nelle campagne di Okopy (dove Popieluszko, figlio di contadini, era nato nel 1947) al servizio militare obbligatorio presso l'unità di Bartoszyce, riservata ai seminaristi, dal trasferimento a Varsavia sotto le cure spirituali di Padre Teofil Bocucki all'attività pastorale in seno al neonato sindacato libero degli operai polacchi (Solidarnosc), con cui condivise speranze e scoramento, aneliti e lotte, divenendone alla fine simbolo di libertà e rettitudine. Troppo scomodo per il regime, che già nel 1981 aveva introdotto nel Paese la legge marziale e finito per praticare l'eliminazione sistematica di tutti gli avversari: padre Jerzy non fu né il primo né l'ultimo, ma era considerato tra i più pericolosi. "Senza per questo aver mai oltrepassato le sue competenze di sacerdote - sottolinea Padre Kazimierz Nycz, Arcivescovo di Varsavia - o aver ridotto la Chiesa e il suo messaggio a strumento di lotta politica. Il suo era davvero il vangelo dell'amore, incentrato sulla salvaguardia della dignità umana. Infondeva coraggio ai fedeli, non sobillava rivoluzioni". Quasi mezzo milione di persone parteciparono al funerale di padre Jerzy il 3 novembre 1984, presso la chiesa di San Stanislao Kostka di Varsavia, dove il cappellano aveva operato dal 1980. Tra questi c'era anche il regista del film, allora sedicenne: "A dispetto dei divieti - ricorda Rafal Wieczynski - mi assentai da scuola per partecipare alle esequie. Fu un'esperienza nuova, di libertà e comunione. Tornando a casa, attraversando le strade di Varsavia, ricordo che pensai molto a Padre Jerzy. Mi chiedevo se sarei stato capace come lui di sacrificare la mia vita per la Verità. Mi appariva come un grande eroe, un extraterrestre. Oggi invece, che ho quasi la stessa età che aveva lui quando venne ucciso, vedo in Padre Jerzy un uomo come noi che, messo alla prova, fece le sue scelte con grande fatica". Il corpo di Popieluszko venne seppellito nel giardino della chiesa di San Stanislao. La sua tomba da allora è stata luogo di pellegrinaggio per 18 milioni di persone, ma qui a Varsavia ricordano soprattutto la visita di Giovanni Paolo II del 14 giugno 1987, e la commossa preghiera sulla sua lapide. Accanto alla Chiesa è nato una decina d'anni fa anche un museo dedicato a Padre Jerzy, messo su da una delle più strette collaboratrici, Caterina Sobora. Il percorso del Museo è una sorta di Via Crucis nella vita del sacerdote e della Nazione, uno scrigno aperto di foto, filmati e oggetti personali a restituirci la tragica normalità degli eroi dinnanzi alle sciagure della storia. "Eppure le generazioni più giovani - sottolinea Wieczynski - non conoscono quelle lotte, non immaginano nemmeno cosa hanno significato per noi polacchi quei mutamenti radicali. Perciò desideravo che l'avventura di questo testimone di Cristo, che combatteva senza violenza contro la falsità, diventasse anche per loro memoria condivisa: volevo che Popieluszko fosse la storia vera, e insieme romantica, delle radici di libertà di cui oggi gode tutta l'Europa Centrale". Diversamente dal cinema politico di Wajda - che ha raccontato il regime e le lotte di Solidarnosc con L'uomo di marmo (1977) e L'uomo di ferro (Palma d'oro a Cannes nel 1981) - e di Agnieszka Holland (che aveva già affrontato la vicenda del cappellano di Solidarnosc nel malriuscito Un prete da uccidere, con Christopher Lambert), Popieluszko di Wieczynski privilegia un approccio intimista nel tentativo di svelare "come un cammino spirituale diventi anche un percorso di liberazione politico e civile". La controparte comunista nel film non ha tentennamenti né dubbi, umanamente non esiste: "Nel mio Paese troppi film hanno speculato sui comunisti buoni e pentiti, elevandoli al rango di eroi. Io volevo fornire invece una rappresentazione astratta del regime, svelarne il meccanismo implacabile e oppressivo. Gli eroi erano altri. Erano i preti che sostenevano, sfamavano e curavano le sofferenze dei perseguitati, fino a morire per loro". "La figura di Popieluszko - racconta Adam Woronowicz, l'attore che interpreta il cappellano nel film e che vanta con lui una somiglianza fisica impressionante - continua a interrogarmi e a mettere in discussione le mie qualità di padre, marito, amico. Spero che le domande che ancora oggi mi tormentano, nonostante abbia interpretato nel frattempo diversi altri ruoli, scuotano anche il pubblico in sala". Un auspicio che ha trovato finora riscontri positivi in Polonia, dove più di un milione di persone ha già visto il film. Il battesimo internazionale, come detto, sarà invece in Italia, al Festiva di Roma, dove la pellicola sarà accompagnata da Lech Walesa, leader di Solidarnosc, e Jozef Glemp, Primate di Varsavia, amico di Padre Jerzy e interprete del film nel ruolo di se stesso. Sempre in Italia Popieluszko sarà distribuito a fine ottobre da Rainieri Made srl, mentre la RAI ha già acquistato i diritti dei futuri passaggi televisivi. L'attenzione del cinema e della cultura verso la figura di Padre Jerzy va di pari passo con il processo di beatificazione (per martirio) del presbitero, iniziato l'8 febbraio 1997 e non ancora concluso. Nonostante la comunità internazionale abbia riconosciuto a Popieluszko un ruolo decisivo nei cambiamenti politici che interessarono la Polonia nella seconda metà degli anni '80, il suo sacrificio non ha ancora ottenuto la giustizia dei tribunali: Grzegor Piotrowski, Adam Pietruszka, Leszek Pekala e Waldemar Chmielewski, esecutori materiali del delitto, non si sono mai pentiti e hanno già lasciato il carcere. Hanno cambiato nome, residenza e aspetto fisico. I mandanti invece - tra i quali figurerebbero gli alti apparati dello Stato (Jaruzelski nega però ogni coinvolgimento) e alcune spie russe di stanza in Polonia - restano ancora nell'ombra.

Padre Jerzy Popieluszko (Polonia)
(1947 - 1984)

Il Servo di Dio Padre Jerzy Popieluszko nasce nella regione di Bialystok da genitori contadini. È un ragazzino molto religioso e solitario. Entra in seminario a Varsavia nel 1965. Durante il servizio militare (1966 – 1968) viene più volte punito per “atteggiamento ribelle”. È ordinato sacerdote nel 1972. Presta la sua opera in diverse chiese di Varsavia, fra cui la chiesa di sant’Anna, sede della pastorale accademica da cui ogni anno parte il pellegrinaggio a Czestochowa degli studenti universitari e centro di numerose attività dell’opposizione. Alla fine degli anni Settanta ha seri problemi di salute, per cui deve limitare i suoi impegni.
Nel giugno 1980 viene assegnato come sacerdote residente alla parrocchia di san Stanislao Kostka, sul cui territorio si trova la grande acciaieria “Huta Warszawa”. Il 28 agosto è inviato dal primate di Polonia, cardinal Stefan Wyszynski, dagli operai della Huta in sciopero che chiedono un sacerdote per dire la Messa: diventa così il cappellano di Solidarnosc della Huta. Dopo l’introduzione dello stato di guerra è uno degli organizzatori del Comitato del Primate di Aiuto ai Perseguitati e alle loro famiglie, che coordina i comitati locali e nel gennaio 1982 assiste al processo contro gli operai della Huta. Insieme al parroco della chiesa di san Stanislao Kostka organizza ogni mese una Messa per la Patria, che raccoglie migliaia di persone: operai, intellettuali, artisti, e anche persone lontane dalla fede. Nelle sue omelie chiede il ripristino delle libertà civili e di Solidarnosc. Svolge un’ampia opera di sostegno materiale e spirituale e si mantiene in stretto contatto con gli intellettuali dell’opposizione e con le strutture clandestine di Solidarnosc. Le autorità temono la sua influenza e si fanno sempre più frequenti le proteste alla Curia di Varsavia in cui lo si accusa di attività anti statale. Viene strettamente controllato dai Servizi di Sicurezza, anche con la collaborazione di agenti segreti, fra cui una sacerdote e almeno quattro laici che fanno parte del gruppo dei suoi più stretti collaboratori (come è emerso dai dossier dei Servizi di Sicurezza), ed è continuamente convocato dalla polizia. Durante le Messe per la Patria la chiesa viene spesso circondata da un cordone di automezzi della polizia e fanno la loro comparsa dei gruppi di provocatori. Il 14 dicembre 1982 ignoti gettano nella sua stanza un mattone con una carica esplosiva. Da quel momento gli operai della Huta Warszawa decidono di garantirgli una scorta giorno e notte. Nel maggio 1983 organizza i funerali di Grzegorz Przemyk, il figlio della poetessa Barbara Sadowska, esponente di spicco dell’opposizione, ucciso dalla polizia. Nel settembre 1983 padre Popielusko organizza per la prima volta un pellegrinaggio di operai a Czestochowa, divenuto una tradizione che resiste ancora, e nell’autunno organizza presso la sua chiesa un’università parrocchiale per gli operai.
Il 12 dicembre 1983 è convocato per un interrogatorio durante il quale viene fermato come indagato per “aver abusato della libertà di coscienza e di confessione, sia durante gli uffici religiosi, che nelle sue omelie”. Rischia 10 anni di carcere e solo l’intervento dell’arcivescovo di Varsavia presso il Ministro degli Interni lo riporta in libertà senza che si arrivi al processo. I servizi di sicurezza, comunque, continuano a tenerlo sotto controllo, e il Primate Glemp gli propone di andare a studiare a Roma, ma rifiuta. Il 1 maggio 1984 celebra la Messa per gli operai, durante la quale parla della dignità del lavoro e al termine della funzione la polizia chiude le strade attorno alla chiesa e attacca la folla degli operai con gli idranti. Nello stesso periodo i mass media conducono una feroce campagna denigratoria contro di lui, definito dal portavoce del governo: “un fanatico politico, un Savonarola dell’anticomunismo, mentre le sue Messe non sono altro che rappresentazioni intrise di odio”.
Il 13 ottobre 1984 tre ufficiali dei Servizi di Sicurezza cercano di provocare un incidente automobilistico mentre si trova sulla strada per Danzica. Il 19 ottobre, durante la recita serale del Rosario in una chiesa di Bydgoszcz, il sacerdote ripete ancora una volta: “Chiediamo di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta. Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza”. Mentre rientra a Varsavia viene rapito da quegli stessi tre ufficiali. Il suo autista, Waldemar Chrostowski, riesce a fuggire e racconta l’accaduto: immediatamente a Varsavia cominciano le veglie di preghiera in un clima di grande apprensione. Il 30 ottobre il suo corpo viene ritrovato nel lago di Wloclawek. L’autopsia rivela che prima di morire è stato torturato e seviziato. Il processo contro gli esecutori del delitto si svolge dal 27 dicembre 1984 al 7 febbraio 1985. Nonostante l’accusa chieda per due degli imputati la pena di morte, le condanne vanno da 25 a 14 anni di carcere, mentre i mandanti restano ignoti. Gli autori materiali torneranno presto in libertà a seguito di riduzioni della pena.
I funerali, che si svolgono il 3 novembre, a cui partecipano decine di migliaia di persone, si trasformano in una grande manifestazione popolare. La salma viene tumulata nel cortile della chiesa di san Stanislao Kostka e ben presto la sua tomba diviene meta di pellegrinaggi e di visite ufficiali di uomini politici stranieri. Si stima che in dieci anni sia stata visitata da 18 milioni di persone. L’8 febbraio 1997 è stato ufficialmente aperto il processo di beatificazione diocesano, che si è concluso quattro anni dopo. Il 3 maggio 2001 sono iniziati i lavori per il processo di canonizzazione.
Testi di Padre Popieluszko:Il cammino della mia croce. Messe a Varsavia,
Queriniana, Brescia, 1985
La mia vita per la verità. Diario, altri scritti, testimonianze,
Ed. M, Padova, 1988
Omelie per la Patria
La Nuova Agape, Forlì, 1985

Francia: boom di aborti dopo il 1975


di Daniele Zappalà
Avvenire, 20 ottobre 2009

Da quando l’aborto è stato legalizzato, nel 1975, la Francia ha conosciuto un’impressionante inflazione del ricorso alla contraccezione, in ogni sua forma, eppure, il numero di aborti è rimasto nel tempo stranamente costante e soprattutto a un livello altissimo: 200mila l’anno,quasi uno ogni tre nascite. Ma oggi si diffondono anche nuovi timori legati alla somministrazione della Ru486 fuori dagli ospedali…

Per molti anni, si è tentato di negarlo. Ma ormai, davanti alle crude evidenze statistiche, tanti medici, demografi e sociologi d’Oltralpe hanno rotto il ghiaccio: esiste davvero un inquietante «paradosso abortivo francese».
Non si può definire in altro modo un fenomeno storico del tutto imprevisto che mette oggi in crescente imbarazzo i responsabili sanitari transalpini: da quando l’aborto è stato legalizzato, nel 1975, la Francia ha conosciuto un’impressionante inflazione del ricorso alla contraccezione, in ogni sua forma. Eppure, il numero di aborti è rimasto nel tempo stranamente costante e soprattutto a un livello altissimo: attorno ai 200mila casi ogni anno, ovvero quasi un aborto ogni tre nascite. Un tasso, ad esempio, che è il doppio di quello tedesco. E tutto questo, nonostante gli esperti prevedessero e auspicassero invece negli anni Settanta, come ancora negli anni Ottanta, esattamente il contrario: che «logicamente» l’aborto sarebbe divenuto un fenomeno «residuale» grazie agli «investimenti pubblici» senza precedenti in politiche contraccettive di massa.
Cambiando il punto di vista e passando a quello dei cittadini, il «paradosso» equivale a un’inquietante banalizzazione dell’aborto nella società francese. Ammessa a chiare lettere fin dal 2004 anche da un’autorevole istituzione scientifica pubblica come l’Istituto nazionale di studi demografici (Ined): a parità di altri fattori, «la stabilità dei tassi di Ivg [che sta per interruzione volontaria di gravidanza, il termine burocratico ufficiale utilizzato per l’aborto] sembra proprio tradurre un aumento della propensione a ricorrere all’aborto in caso di gravidanza non prevista».
Una verità scomoda da ammettere in un Paese in cui l’aborto è stato ufficialmente introdotto per legge come una soluzione di estremo ricorso esplicitamente rivolta alle «donne in stato di sofferenza».
Ma di fronte a questo paradosso e all’ampiezza presa dalle deformazioni rispetto all’iniziale ispirazione legislativa, sono in molti oggi a chiedersi quanta parte di responsabilità possa essere imputata all’introduzione dell’aborto chimico: una «specialità» industriale storicamente francese che ancor oggi continua a rappresentare una specificità nazionale.
In effetti, l’introduzione della Ru486 ha innescato lo scivolamento progressivo dell’aborto al di fuori dei confini delle strutture ospedaliere. Al punto che da qualche mese la somministrazione dell’aborto chimico è possibile persino presso i centri associativi di «planning familiare». Prima, vi era già stata un’estensione agli ambulatori medici convenzionati con gli ospedali.
Col concorso di un discorso pubblico inizialmente centrato sulla «semplicità» di fruizione del trattamento anti-ormonale, la quota dell’aborto chimico ha superato in pochi anni il 30% del totale.
Ma oggi, sullo sfondo già tetro dell’auspicata eccezione abortiva trasformatasi invece dopo un trentennio in «norma» corrente, si diffondono anche nuovi timori legati alla somministrazione della Ru486 fuori dagli ospedali. Si moltiplicano, soprattutto su internet, le testimonianze di donne, talora adolescenti, che hanno vissuto il dramma straziante di un aborto pressoché solitario in casa, dopo aver ingerito la Ru486 davanti a un medico. E c’è già, in questi tempi di crisi economica, chi accusa i poteri pubblici di aver allentato oltre ogni limite ragionevole le misure di accompagnamento.
Ciò, sostengono i detrattori, ha forse garantito qualche economia alle casse statali, ma gli effetti concreti sulle persone potrebbero rivelarsi negli anni sempre più devastanti.
Chiamato inizialmente a «risolvere gli inconvenienti dell’aborto chirurgico», l’aborto chimico è visto ormai sempre più spesso come un cavallo di Troia carico di detestabili conseguenze impreviste.

lunedì 19 ottobre 2009

Bambino guarito per intercessione di Giovanni Paolo II


Un articolo di Andrea Tornielli pubblicato su "Il Giornale" riporta il caso della miracolosa guarigione di un bambino, operata per intercessione di Giovanni Paolo II ancora vivente. Buona lettura...

di Andrea Tornielli

È uno dei presunti «miracoli» avvenuti grazie all’intercessione di Giovanni Paolo II, quando il Papa era ancora in vita, che si aggiunge a quelli che stanno arrivando da persone che hanno incontrato Wojtyla durante il suo lungo pontificato, durato quasi 27 anni.

Anche in questo caso, chi scrive era a conoscenza del fatto prima della morte di Giovanni Paolo II. E conosce di persona la mamma del bambino, Margherita Enrico, collega giornalista che abita in una città del Nord Italia. È una storia ben nota all’entourage papale: si tratta della guarigione di un bambino da una grave forma di deficienza immunitaria.

Margherita Enrico e il marito sono due professionisti e hanno due figli. Il più piccolo di questi, Francesco, sei mesi dopo la sua nascita, avvenuta nel 1993, ha cominciato ad avere seri problemi di salute. Ecco l’eccezionale racconto della madre, che abbiamo raccolto nei giorni del funerale di Papa Wojtyla, mentre si trovava a Roma per rendere l’ultimo omaggio al Pontefice ma anche per effettuare una nuova serie di esami clinici che hanno confermato la perfetta salute del figlio Francesco.

Che sintomi manifestava il bambino?
«Francesco mangiava poco, dimagriva. All’inizio, nei primi mesi di vita, non ci abbiamo dato troppa importanza. Poi è stato di colpo molto male, con difficoltà respiratorie. Lo abbiamo ricoverato d’urgenza all’ospedale della nostra città: aveva infezioni ai reni, all’intestino, ai bronchi. Era in condizioni gravissime e i medici non erano certi di potergli salvare la vita. Ha passato molti mesi in ospedale».

Che cosa gli hanno diagnosticato i medici?
«Una forma di immunodeficienza. Il suo organismo non aveva le difese immunitarie necessarie, non produceva le immunoglubuline. Questa grave carenza lo esponeva a tutti i tipi di infezioni».

Può raccontare che cosa è accaduto negli anni successivi?
«Mio figlio si è ripreso, i medici gli hanno salvato la vita, ma è rimasto un bambino diverso dagli altri. Gracilissimo, stava sempre male, non aveva forze, non poteva fare alcuno sport, si ammalava di continuo. In più, a causa delle continue infezioni alle orecchie, per molto tempo non ha potuto sentire bene ed è stato affetto da un problema di dislessia, da problemi nell’articolare il linguaggio».

I medici vi davano qualche speranza? Come dovevate curarlo?
«Gli specialisti che abbiamo consultato ci dicevano che non vedevano una soluzione al problema di Francesco. Io, vedendolo in quelle condizioni, ho lasciato il lavoro per seguirlo quotidianamente, per stargli sempre vicino».

Com’è avvenuto l’incontro col Papa? Perché vi siete rivolti a lui?
«Noi avevamo il desiderio di incontrarlo, perché siamo credenti. Tramite un prelato che conosceva molto bene Giovanni Paolo II abbiamo avuto questo privilegio. Nel giugno 2002 siamo stati invitati nell’appartamento del palazzo apostolico, per assistere alla Messa privata. Era prestissimo, di mattina. Siamo entrati nella cappella del Papa e lui era già lì inginocchiato che faceva adorazione silenziosa davanti al Santissimo sacramento. Oltre a Francesco c’erano anche mio marito e l’altra mia figlia. Abbiamo partecipato alla Messa celebrata dal Santo Padre, poi siamo stati introdotti nel suo studio per un saluto a tu per tu...».

All’epoca Papa Wojtyla camminava o stava seduto nella sedia a rotelle?
«No camminava ancora, riusciva a muoversi autonomamente, anche se si aiutava con il bastone».

Incontrandolo gli avete parlato della malattia di vostro figlio?
«No, ci siamo soltanto presentati. Francesco non gli ha neanche detto di voler guarire. Ma è stato molto bello perché lui e il Papa si sono guardati a lungo negli occhi e in quel momento mio figlio ha avuto la sensazione di conoscere da sempre il Santo Padre. Era come se si trovasse di fronte a un vecchio amico: si è sentito accolto, amato».

E poi che cosa è accaduto?
«Giovanni Paolo II ha benedetto mio figlio e lo ha accarezzato sul volto. In quel momento, ci dirà poi Francesco, lui ha avuto la sensazione che dalla mano di Wojtyla uscisse come del calore. Ci ha raccontato proprio in questi termini quanto gli era accaduto in quegli istanti mentre si trovava davanti al Pontefice».

Che cosa vi ha detto vostro figlio appena usciti da quell’incontro in Vaticano?
«Ha detto subito: “Mamma, papà, io mi sento bene! Non sono più stanco!”. Era contento, allegro. Ci ha raccontato della sua sensazione, di quel calore che ha avvertito nel momento in cui il Santo Padre lo benediceva. Pensi che noi lo abbiamo anche preso in giro, gli abbiamo detto di non farsi strane illusioni, di non farsi ingannare dalle sensazioni passeggere. Ma certamente siamo rimasti subito colpiti dal fatto che appariva cambiato, completamente cambiato. Ce ne siamo accorti non appena tornati a casa. La spossatezza, la mancanza di forze che lo assaliva continuamente erano scomparse. Ha ripreso a fare sport. La maestra si è accorta subito che era accaduto qualcosa perché quasi non lo riconosceva. Era rifiorito, era diventato un altro».

Avete fatto dei controlli medici per accertare che cosa fosse successo?
«Sì, li abbiamo fatti subito. I dottori ci hanno detto: “Non ha più niente. È guarito”. Da allora e fino a questo momento tutti i controlli hanno confermato questa guarigione».

Come ha reagito Francesco alla notizia?
«Ha voluto scrivere subito al Papa. Di suo pugno. Gli ha mandato una lettera con queste parole: “Santo Padre ti ringrazio per prima cosa perché ho avuto la possibilità di conoscere un santo. Ho visto come pregavi Gesù. Ho visto anche che sulle tue spalle quando eri curvo in preghiera c’erano tutti i problemi del mondo. Grazie perché mi hai guarito. Da adesso io prego ogni giorno per te il rosario e chiedo alla Madonna di guarirti”».

E il Papa ha risposto?
«Sì, anche lui di suo pugno, personalmente. È stato meraviglioso, commovente, ricevere la sua lettera di risposta indirizzata a mio figlio. Non si è mai attribuito quanto è successo, non ha mai parlato di miracolo, ma ha scritto: “Ringraziamo il Signore, il Signore è buono!”».

lunedì 12 ottobre 2009

Sul disegno di legge riguardante il reato di omofobia


Potrebbe essere vicino il giorno in cui il predicatore che legga e commenti il brano riguardante la distruzione di Sodoma e Gomorra possa essere incriminato! Povero mondo...

tratto da Fattisentire.net

Oggi alla Camera si discute se introdurre il reato di omofobia. La proposta, già bollita nella scorsa legislatura, torna in auge per volere del gruppo parlamentare del Pd e con il tacito consenso di non pochi della maggioranza di governo. Venerdì scorso, senza smentita dai ministeri competenti, il presidente dell’Arcigay festeggiava gli accordi con Carfagna e Gelmini per introdurre l’aggravante per la discriminazione di orientamento sessuale e le informazioni scolastiche sul gender. Il sesso maschile e femminile, secondo questa ideologia irreale, non dipende dalla natura ma dalla scelta che ciascuno può (deve) fare liberamente e senza discriminazioni. Così forse, dovremo insegnare ai nostri figli, nelle scuole, che essi possono scegliere liberamente il loro orientamento sessuale, cioè il loro sesso? Con l’introduzione nell’ordinamento della modifica del codice penale, l’inserimento della circostanza aggravante inerente all’orientamento e alla discriminazione sessuale, si potrebbero verificare alcune incredibili situazioni...

di Luca Volonté *
*Deputato Udc alla Camera

Se foste il padre o la madre di un bimbo abusato da un pedofilo e reagiste con un ceffone, rischiereste una pena con l’aggravante, per aver colpito il suo «orientamento». La gender theory rischia di entrare nell’ordinamento italiano, essa non riconosce alcuna differenza specifica o congenita tra uomo e donna, rappresenta una missione verso eterodossi, porta alla distruzione dell’unità tra i sessi e tra le generazioni. Ciò che risiede nelle intenzioni e nella lettera della modifica del codice penale, nell’introduzione dell’aggravante per discriminazione di orientamento che si inizierà a discutere lunedì, nell’Aula di Montecitorio, è la lotta per la piena equiparazione di gay, lesbiche, transessuali, secondo l’evocazione del principio di antidiscriminazione.
La proposta, già bollita nella scorsa legislatura, torna in auge per volere del gruppo parlamentare del Pd. Venerdì scorso, senza smentita dai ministeri competenti, il presidente dell’Arcigay festeggiava gli accordi con Carfagna e Gelmini per introdurre l’aggravante per la discriminazione di orientamento sessuale e le informazioni scolastiche sul gender. Il sesso maschile e femminile, secondo questa ideologia irreale, non dipende dalla natura ma dalla scelta che ciascuno può (deve) fare liberamente e senza discriminazioni. Così forse, dovremo insegnare ai nostri figli, nelle scuole, che essi possono scegliere liberamente il loro orientamento sessuale, cioè il loro sesso?
Con l’introduzione nell’ordinamento della modifica del codice penale, l’inserimento della circostanza aggravante inerente all’orientamento e alla discriminazione sessuale, si potrebbero verificare alcune incredibili situazioni: compiere una azione violenta o rivolgere una minaccia contro un pedofilo (essendo la pedofilia un «orientamento sessuale») verrebbe punito con aggravante. Lo stesso vale per la zoofilia o l’incesto. Non è finita, chi subisce atti di violenza o minaccia per ragioni di orientamento sessuale avrebbe una protezione privilegiata rispetto a chi subisce violenza e minaccia non per ragioni di orientamento sessuale: si nega il principio di uguaglianza. Un omosessuale che subisce violenza a causa del suo orientamento sessuale (ma, come verificare, se davvero la violenza e la minaccia sono a causa del suo orientamento sessuale?) verrebbe protetto in modo maggiore rispetto a un eterosessuale che subisce violenza non per ragioni di orientamento sessuale.
La violenza colpisce tutti e uno Stato deve difendere tutti, maschi e femmine di qualunque età, per far ciò è necessario rafforzare l’azione delle forze di polizia, non fare norme discriminatorie e violare il principio di uguaglianza, privilegiando talune categorie di «passioni» sessuali. C’è il rischio che tale norma possa portare alla intolleranza nei confronti di chi (su basi etiche o religiose) ritiene doveroso difendere la rilevanza della differenza sessuale uomo/donna e della complementarietà eterosessuale (rispetto ad altre scelte sessuali) quale condizione indispensabile della identità antropologica e della socialità. Rimane una assurdità, non essendo possibile accertare nell’interiorità dell’animo l’autentico movente che spinge alla violenza. Ne conseguirebbe che chi subisce violenza presumibilmente per le ragioni di orientamento sessuale, riceverebbe una protezione privilegiata rispetto a chi subisce violenza tout court (con la negazione del principio di uguaglianza). Attenzione: tra i delitti non colposi, cui si riferisce la proposta Concia (Pd), ci sono la prostituzione minorile, la tratta di persone, il sequestro di persona, l’acquisto o alienazione di schiavi, minacce e atti persecutori. Quanto tempo mancherà prima che un tribunale qualunque, con un magistrato «orientato», possa condannare un parroco che legge la Bibbia o le lettere di San Paolo? Attenzione: da uno spiffero entreranno correnti gelide, da un piano inclinato scorrerà un slavina. Siamo tutti uniti contro le violenze, ma attenzione a non scivolare pericolosamente verso la discriminazione della natura umana, «maschio e femmina li creò».

Il Giornale lunedì 12 ottobre 2009


sabato 10 ottobre 2009

Nobel per la Pace ad Obama? Ma stiamo scherzando?


Quanta falsità! Si è arrivati a chiamare male il bene e bene il male...

tratto dal blog Un esorcista...oggi

Nel 17 ottobre 1979 il Premio Nobel per la Pace fu assegnato alla Beata Madre Teresa di Calcutta: "per il lavoro compiuto nella lotta per vincere la povertà e la miseria, che costituiscono anche una minaccia per la pace". Nel discorso di premiazione disse: "A nome di Dio e dei poveri, lo accetto esclusivamente", e presentò l'aborto come il principale pericolo in grado di minacciare la pace nel mondo. Rifiutò il convenzionale banchetto cerimoniale per i vincitori, e chiese che i 6000 dollari di fondi fossero destinati ai poveri di Calcutta, che avrebbero potuto essere sfamati per un anno intero: "le ricompense terrene sono importanti solo se utilizzate per aiutare i bisognosi del mondo". Alla domanda: "Cosa possiamo fare per promuovere la pace mondiale?", rispose: "Andate a casa e amate le vostre famiglie".
Il 9 ottobre 2009 a 30 anni di distanza il premio Nobel per la Pace viene affidato al Presidente Americano Barack Obama. Un uomo, un politico, un Presidente, che inganna i suoi cittadini, favorendo l'aborto ovvero la distruzione dell'uomo, non dimentichiamo che l'aborto è omicidio. Uomo che favorisce le "unioni" omosessuali overo la distruzione della famiglia. Dov'è finito il Santo timor di Dio??? L'Ascolto della Sua legge???
"Chi non è con noi è contro di noi!!"



Pillola RU486: quanta ipocrisia...


di Massimo Pandolfi
tratto da Vite Spericolate dello 01/10/09

L'ipocrisia e le bugie sulla pillola abortiva

Ho scritto più volte della pillola abortiva, la famigerata Ru486 che sta per essere commercializzata in Italia. Già in partenza sbaglio: mi sto adeguando con le poche righe che ho scritto all'ipocrisia comune di quando si parla di questo argomento. In realtà la pillola abortiva è già utilizzata, e da anni, in Italia, con degli stratagemmi da alcune regioni, in particolare quelle più rosse. La capolista, non a caso, è l'Emilia Romagna. Migliaia di donne hanno abortito con questo cocktail di pillole, molte volte l'espulsione del feto è avvenuto in casa, in perfetta solitudine, in alcuni casi ci sono state conseguenze fisiche antipatiche, quasi sempre ci sono conseguenze psicologiche devastanti.

Eppure siamo davanti al trionfo dell'ipocrisia, dicevo. Cioè: qui si continua a chiacchierare e chiacchiarare e non si tiene conto della realtà. Adesso l'Aifa (l'agenzia del farmaco) che ieri si è riunita per ore e ore (chissà che si diranno in quelle stanze per tutte quelle ore...) ha ripetuto che le linee guida per la commercializzazione verranno date il 19 ottobre. E guai se qualcuno usa sconfessare quest'Aifa, guai se la politica si mette di mezzo: ma lo sapete che di questo benedetto consiglio dell'Aifa, in realtà, il membro più importante è Giovanni Bissoni, assessore alla sanità dell'Emilia Romagna? Più politica di così.. Ma funziona così: i giornali, quando vogliono avere un parere tecnico sulla pillola, nove volte su dieci si rivolgono a Silvio Viale, medico attivista radicale, più radicale di Pannella. Potete immaginarvi le risposte che arrivano: eppure il suo è il vangelo per molti giornali. Di parte sono solo quei medici, tanti, che mettono all'erta sul pericolo e il rischio (soprattutto psicologico) che comporta l'assunzione di queste pillole.

Ed ecco allora che si finisce per girare sempre attorno al nodo del discorso senza arrivare al fulcro. Che è il seguente. Uno: bisognerebbe fare una verifica (mai fatto in modo serio) sulle vere complicanze fisiche extra aborto con la Ru486 nei casi (migliaia) finora registrati in Italia. Due: controllare, sempre in modo serio, come è andata nel mondo (decine di donne sono morte e chissà quante sono decedute, in silenzio, nei paesi della censura: penso alla Cina). E poi l'uovo di colombo: ma se la legge 194 prevede che l'aborto debba avvenire in una struttura pubblica, è regolare la pillola Ru486 che ti fa nove volte su dieci espellere il feto a casa, magari nel wc? Bissoni sostiene: la pillola va presa in ospedale. Balle. Nel senso che per aborto si intende l'uccisione ma anche l'espulsione del feto. E anche quando va a casa (e il feto non è stato ancora espulso) la donna non sa se il suo bambino che non nascerà mai è già morto o è ancora vivo. Vive in diretta l'agonia del suo figlio indesiderato.

Sarebbe più serio dire: la Ru486 non rispetta la legge sull'aborto (194) che ora quindi va modificata. Ma Bissoni e soci non possono dirlo, perchè facendo ciò ammetterebbero di aver operato per alcuni anni in modo irregolare.

E allora avanti con l'ipocrisia.


venerdì 2 ottobre 2009

Il Cardinale Christoph Schönborn: le chiese chiuse sono una ferita al corpo di Cristo


tratto da Zenit.org

ARS, giovedì, 1° ottobre 2009 (ZENIT.org).- "E' una grave ferita nel Corpo di Cristo che le chiese abbiano le porte chiuse", ha osservato il Cardinale Christoph Schönborn, OP, Arcivescovo di Vienna, che questo mercoledì ha pronunciato la sua terza meditazione sul tema "Preghiera e combattimento spirituale" nel ritiro sacerdotale internazionale ad Ars (Francia), nel contesto dell'Anno Sacerdotale.

Il combattimento per eccellenza, ha affermato, è quello "della preghiera", ma il combattimento della preghiera "è anche la questione del luogo di preghiera".

Il Curato d'Ars, San Giovanni Maria Vianney, istruendo i suoi parrocchiani esclamava guardando il tabernacolo: "Egli è lì, è lì". Questo, ha constatato il porporato, è "un invito costante ad approfittarne".

"In Austria portiamo avanti una lotta costante per tenere aperte le nostre chiese, accessibili ai fedeli e agli altri, perché è una grave ferita nel Corpo di Cristo che le chiese abbiano le porte chiuse", ha sottolineato.

"Fate tutto il possibile e l'impossibile ha raccomandato il Cardinale Schönborn per permettere ai fedeli e alle persone che cercano Dio e che Dio aspetta di aver accesso a Gesù nell'Eucaristia: non chiudete le porte delle vostre chiese, per favore!".

mercoledì 30 settembre 2009

Dan Brown l'uomo che più sbaglia più vende


Ci risiamo, fatto il nuovo romanzone, trovato l'inghippo.
Dan Brown sembra avere il vizietto di far passare per veri i frutti della sua fantasia e del suo scopiazzare a destra e sinistra. Anche questa volta come era accaduto per "Il Codice da Vinci", anche se in una forma più sintetica, ha scritto nell'introduzione del nuovo thriller "Simbolo perduto": «Tutti i rituali, i fatti scientifici, le opere d’arte e i monumenti descritti in questo romanzo sono veri».
Ed è così che il Daily Telegraph si è preso la briga di controllare. Il risultato? Bhè a dir poco esilarante. Se masticate un pochino di inglese potete farvi due risate leggendo i 50 grossolani errori individuati dal quotidiano inglese che spaziano dalla geografia, alla storia, passando per la scienza, la mitologia, la religione e la grammatica...
http://www.telegraph.co.uk/culture/books/booknews/6232148/The-Lost-Symbol-and-The-Da-Vinci-Code-author-Dan-Brown-50-factual-errors.html

Se poi volete leggere un articolo simpatico sull'argomento, vi consiglio quello di Matteo Sacchi comparso sulle pagine de "Il Giornale". Buona lettura!

di Matteo Sacchi
Tratto da Il Giornale del 29 settembre 2009

Dan Brown è uno di quegli scrittori che ci tiene proprio tanto a far sapere quanto è puntiglioso nelle ricerche che compie per scrivere i suoi romanzoni pieni di mistero. Nell’introduzione inglese del Simbolo perduto, il suo nuovo thriller, scrive: «Tutti i rituali, i fatti scientifici, le opere d’arte e i monumenti descritti in questo romanzo sono veri». Breve precisazione che, con qualche parolina in più, aveva anteposto anche al suo precedente romanzo, Il codice da Vinci. E con degli incipit così può anche capitare che qualche decina di milioni di creduloni finisca per prendere per «quasi vere» le cose che Brown racconta.

Nonostante queste belle dichiarazioni i suoi testi sono stati, a più riprese, accusati di contenere errori e sfondoni della più varia natura, sebbene nessuno si fosse mai preso la briga di contarli tutti. Ora però ci si è messo con puntiglio e spirito cultural-goliardico il quotidiano inglese Daily Telegraph.

Il risultato è impressionante, roba da far mettere le mani nei capelli a qualunque insegnate delle medie. Che si tratti di Angeli e Demoni, il Codice Da Vinci, o il Simbolo Perduto, a essere in pericolo sono la geografia, la storia, persino la grammatica. Il Telegraph ha evidenziato, dividendoli per categorie, un totale di più di cinquanta errori (ma forse la definizione più precisa sarebbe orrori). Tanto per fare qualche esempio limitandosi alla sezione storia: per Brown (Angeli e Demoni) Galileo Galilei era membro della società degli Illuminati. Peccato che questa società sia stata fondata in Baviera nel 1776 (essendo morto nel 1642, il grande scienziato si sarà iscritto in forma ectoplasmica). Ma è roba da niente rispetto a quando racconta degli innumerevoli musulmani decapitati durante le crociate dalle guardie svizzere. Le guardie svizzere sono state fondate nel 1506 l’ultima crociata è del 1270 (proprio ad essere buoni e contando la così detta crociata alessandrina si può arrivare al 1365).

Non è, poi, che tutte le «distrazioni» riguardino questioni che necessitano di disporre almeno di un enciclopedia o di un sussidiario. Dan Brown riesce a essere sciatto anche quando deve limitarsi a citare due parole in Italiano. Nella versione inglese di Angeli e Demoni un agente della polizia ordina a un sottoposto di accertarsi che non ci siano microspie in una determinata chiesa. E lo fa così: «spazzare di cappella». Non avete capito? Oppure avete pensato a un’inquietante doppio o triplo senso? Semplicemente Brown si è limitato ad una traduzione letterale dell’inglese «sweep» non sapendo che, in italiano, si usa il verbo bonificare e che, in italiano, la parola cappella è meglio tenerla lontano dal verbo scopare o spazzare. E dopo questa bella prova linguistica il fatto che Brown sia convinto che il Rio della Plata sia in Europa o che creda che nella mitologia egizia Iside sia la moglie di Ammone, in fondo, sembra robetta. Ma Daily Telegraph o non Daily Telegraph si può scommettere che, come sta già succedendo, che un numero sterminato di lettori continueranno a ingozzarsi dei teo-thriller di Brown. Meglio un brutto intrigo di un bel sussidiario.