giovedì 5 aprile 2012

Novantaquattro semi



Il seme è già albero. il seme è albero che sogna un terreno fertile per potere crescere. E’ già tutto lì, basta nutrirlo. Quello che desidera è una possibilità.
L’albero cresce con la bruna terra, l’acqua, il sole. Un bambino ha pure bisogno di tutte queste cose, e insieme il caldo di una madre, la forza di un padre, l’amore. Un uomo non è che un bambino che ha avute queste cose, in mancanza delle quali cresce rattrappito e storto come un albero su una roccia. O non cresce affatto.

Gli embrioni morti qualche giorno fa a Roma erano semi lasciati in un sacchetto. Sul perché fossero lì non so: qualcuno frutto dell’amore, qualcuno dell’egoismo, o del caso. Non so neanche quanti fossero voluti e quanti la riserva di una procedura troppo arida, di una tecnologia che dell’amore di un padre e di una madre non può dire niente. Quanti sarebbero sbocciati? Quanti sarebbero rimasti dimenticati nel gelo o discretamente eliminati come si getta la semenza in soprannumero?

Nelle mie campagne si vedono tanti alberi che il gelo di quest’inverno ha ucciso, i rami senza gemme, le foglie dei sempreverdi brune e torte. Quello che ha invece ammazzato quegli uomini-che-sarebbero-potuti-essere è stata la mancanza di gelo.
Quanto siamo fragili.
Semi non nati dall’amore ma dalla tecnica; che non il vento, non la pioggia disperde, ma la mano di un uomo come loro.
Loro sono più della scienza che li ha generati. Più della speranza che li ha desiderati. Non sono nostri. Non dimentichiamoci dei nostri fratelli più piccoli e indifesi, i nostri semi.


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