E' una testimonianza davvero edificante. In questi giorni in cui le cronache non fanno altro che parlarci di violenze, di vendette, di aguzzini, di depravazione...dalle pagine di Avvenire, la giornalista Giulia Galeotti ci propone la storia di Liliana Segre. Deportata ad Auschwitz-Birkenau a 13 anni, subì atrocì sofferenze...un giorno si trovò nell'occasione propizia per vendicarsi; una pistola a pochi cm e un Comandante delle SS ignaro del pericolo.
Liliana in un'istante comprese l'orrore del male, superò l'orrenda tentazione di abbassarsi al livello dei suoi aguzzini e scelse la vita, l'unica opzione che poteva renderla veramente libera!
Liliana in un'istante comprese l'orrore del male, superò l'orrenda tentazione di abbassarsi al livello dei suoi aguzzini e scelse la vita, l'unica opzione che poteva renderla veramente libera!
di Giulia Galeotti
(©L'Osservatore Romano - 26-27 gennaio 2009)
Alle cronache che raccontano di adolescenze sempre più vuote e violente, è bello rispondere, in occasione della giornata della memoria, ricordando i tanti giovani che, nei modi più diversi, si opposero al nazismo. Tra le vicende che la storia ha documentato, v'è quella di Liliana Segre, che abbiamo personalmente ascoltato qualche anno fa, narrata dalla stessa protagonista con voce ferma e calda, appassionata ma serena. Liliana, nata in una famiglia ebrea non praticante, ha tredici anni quando viene portata a forza sul binario 21 della stazione centrale di Milano, divenendo improvvisamente "vecchia, sola, triste e disperata". Sono seicentocinque i deportati sul convoglio che quella notte parte per la Germania , destinazione Auschwitz-Birkenau.
Cinquecentottantacinque di loro evaporeranno nei lunghi camini, compreso Alberto, l'uomo che stringe la mano della bambina. Suo padre. Nel racconto - divenuto un libro, Sopravvissuta ad Auschwitz, scritto con Emanuela Zuccalà, edizioni Paoline 2005 - Liliana rivive molti aspetti di quella drammatica esperienza. Colpisce, ad esempio, lo shock e l'impotenza del pudore violato.
"Di colpo, nello stesso giorno in cui ti strappano ai tuoi familiari, nello stesso giorno in cui scendi da un treno della deportazione e arrivi in un posto che non conosci, che non sai nemmeno collocare geograficamente su una cartina, ti ritrovi nuda assieme ad altre disgraziate che, come te, non capiscono niente di quello che sta succedendo. Non c'è nulla, lì attorno, che non faccia paura. Sei terrorizzata, e intanto i soldati passano sghignazzando, oppure si mettono in un angolo discosto a osservare la scena di queste donne che vengono rasate, tatuate, già umiliate, torturate per il solo fatto di essere lì, nude". Tra le altre cose, "era questo sprezzo a essere intollerabile, questo ridere di noi, questo punire ogni minima disobbedienza facendoci stare inginocchiate nude per delle ore. La nudità è stata una costante e io l'ho vissuta come una grande persecuzione morale, aggiunta a una situazione già di per sé terribile".
Sopravvissuta a diverse selezioni, nel gennaio 1945 Liliana fa parte di quel corteo di fantasmi che i nazisti hanno fatto camminare di notte di lager in lager - la marcia della morte - nel patetico tentativo di nasconderli agli occhi del mondo. Sebbene malata e nei suoi trentadue chili, la ragazzina sopravvive anche a questa prova: liberata nel circondario di Ravensbrück il 1° maggio, quattro mesi dopo torna a Milano. Ma nulla sarà facile nemmeno qui: è durissima, dopo l'infezione, la convalescenza del corpo e dell'anima, la convalescenza senza la quale non si è in grado di affrontare l'enormità di un letto comodo, di una tavola apparecchiata, di un bagno caldo, degli sguardi umani che, pur non capendoti più, si posano su di te. Colpisce davvero il modo pacato con cui Liliana riesce a parlare di argomenti così tremendi.
Colpisce l'assenza di odio, l'amore per la vita che pervade anche le scene più atroci senza mai cadere nella retorica, la sua capacità di cogliere segni di speranza, bagliori di vita, anche nei luoghi in cui la morte si fa più assurda e selvaggia. Non c'è spazio per la disperazione nelle sue parole, v'è, invece, un'enorme fiducia nella vita, e nella forza di resistenza dell'umanità di fronte al male.
"Scelsi una piccola stella nel cielo, e mi identificai con lei. Io non ero ad Auschwitz: mi ero fusa con quella stellina e pensavo: io sono quella stellina. Finché brillerà nel cielo io non morirò, e finché resterò viva, lei continuerà a brillare". Ma il momento in cui questa ragazzina attua davvero la sua resistenza al male è quando sceglie di non essere una bestia, ma una persona umana. È il momento in cui Liliana decide di dare un senso a quel numero 75.190 che le è stato tatuato, e che mai si cancellerà perché ormai è parte di lei.
"Il comandante dell'ultimo campo, crudele assassino, camminava vicino a me (...), si spogliò, rimase in mutande, si rivestì da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero ancora uno Stück, un pezzo. Quando buttò la pistola ai miei piedi, con tutto l'odio che avevo dentro di me e la violenza subita che mi invadeva il corpo, io pensai per un istante: "Adesso mi chino, prendo la pistola e, in questa confusione assoluta, lo ammazzo".
Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l'azione giusta, nel momento giusto; il giusto finale di quella storia di cui ero stata protagonista e testimone. Ma fu un attimo. Un attimo importantissimo, definitivo nella mia vita, che mi fece capire (...) che nella debolezza estrema che mi vinceva, la mia etica e l'amore che avevo ricevuto da bambina mi impedivano di diventare uguale a quell'uomo. Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow. Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno, e da allora fui libera".
(P.S. Sottolineature mie)
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