lunedì 5 marzo 2012

Lasciamoci riconciliare dal Padre



di don  Valentino Salvoldi


«Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Gv 8,7). Solo Cristo può pronunciare simili parole: egli lancia la sfida e poi si china verso terra e scrive sulla sabbia tracce o parole che il vento cancella, come lui, il Figlio di Dio, can­cella e dimentica il peccato: «Nessuno ti ha condannato, don­na? Neanche io ti condanno. Va' e non peccare più» (Gv 8,11). Nessuno scaglia un sasso contro l'adultera. Tutti han­no più o meno peccato e i primi ad abbandonare il luogo del­l'intentato processo sono i più vecchi.

Col passare del tempo, una persona scopre che il suo più grande peccato è quello dell'omissione: il non rispondere con amore all’Amore, essere indecisa e cincischiare, anziché but­tarsi nella vita, dimenticando se stessa e diventando puro do­no. Peccato che consiste in una situazione: fare scelte di co­modo, invecchiare male perdendo la purezza delle origini, ab­bandonando il sogno e la fantasia e smettendo di lottare per­ché, forse, a furia di graffiare si sono rovinate le unghie e si ha paura, ora, di rovinare anche le dita...

II Qoèlet (e. 3) ci dice che c'è un tempo per ogni cosa, ma che ogni cosa è vana perché rinascono gli stessi problemi in ogni stagione. Forse pecca di eccessivo pessimismo. Col pas­sare dei tempi il volto di Dio, o la comprensione che di lui ha l'umanità, cambia. Forse la concezione del Padre — alla quale è legata la coscienza del peccato — cambia col passare degli anni, nell'arco di ogni esistenza umana. Quand'ero bam­bino lodavo il Signore perché grande e onnipotente. Il ser­virlo mi faceva sentire importante. Avevo bisogno della tra­scendenza, del mistero: ciò mi dava sicurezza. Nell'età ma­tura, camminando nel deserto alla ricerca delle tracce di Dio, lo lodo perché, sul male del mondo, lui, come me, piange.

Non mi interessa, ora, «l'Assoluto», «l'Onnipotente», dopo aver scoperto che il suo volto più bello è quello della misericordia: « Là dove il male abbonda, la grazia sovrab­bonda». Non danno angoscia il male, il limite e il peccato, visti alla luce del perdono di Dio, venuto sulla terra non per i sani, ma per i malati. Alla coscienza del mio limite è legata la gioiosa esperienza che tutta la vita di Cristo mi appartie­ne, nella misura in cui mi ritengo peccatore come Zaccheo, prostituta come la Maddalena, rinnegatore come Pietro.
Il peccato può essere  uno stimolo a cantare la miseri­cordia di Dio. E ciò vale tanto per il peccato personale e na­scosto quanto per quello di chi si confessa: ogni accusa non interessa tanto in se stessa, ma piuttosto come uno stimolo a pregare di più e un mezzo per aiutare il penitente a scopri­re se, oltre il limite o nel peccato stesso, ci sia nascosta un'a­nima di bontà da ricuperare.

A tutti i cristiani, ma in particolare ai sacerdoti è rivolta l'esortazione: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati. Non con­dannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdo­nati. Donate e vi sarà dato... » (Le 6,36-38). Ecco il parame­tro della misericordia cristiana: imitare il Padre, essere co­me lui, che non condanna, ma perdona, dimentica e dona tutto di sé; essere come Cristo, che più volte, nel Vangelo di Giovanni, dice di non voler giudicare nessuno perché la­scia al Padre questa responsabilità (cf. Gv 3,17; 8,15; 12,47); essere come lo Spirito Santo, comunicato a noi come fuoco che purifica e consuma il peccato, senza umiliare, anzi con lo scopo di riabilitare e di togliere le scorie perché in noi luc­cichi ciò che è prezioso.
Chi fa l'esperienza della misericordia di Dio trasforma il perdono ricevuto in uno stimolo a essere dono per il prossimo. Naturale gli diventa il condividere, il portare il fardello degli altri, l'uscire dalla tranquillità della propria esistenza per farsi carico di chi è nel bisogno. E tutto ciò, ben lungi dall'essere un peso insopportabile, diventa uno scopo di vi­ta, fonte di quella segreta gioia che nasce solo quando una persona riesce a dimenticare se stessa, a non ripiegarsi sulla sua tristezza, a trovare pace nel vedere sorridere e sperare il debole e l'emarginato.

Paolo, fatta esperienza della misericordia di Dio, dice: «Quando sono debole, allora sono forte» (2 Cor 12,10). È la situazione tipica di chi ha intuito che il Signore ci ama grazie alla nostra debolezza, lui che ha deciso di farsi piccolo per raggiungerci, lui che cammina con il nostro stesso passo ed è «debole» proprio perché ama. Non è forse l'amore debo­lezza, capacità di farsi piccoli, desiderio di scomparire per­ché l'altro cresca, bisogno di un abbraccio, fare i pagliacci perché i bambini ridano, giocare la parte del debole che fa di tutto per sentirsi dire: «Ti voglio bene»?

Chi è debole, chi si fa mendicante d'amore, diventa for­te, vivendo il discorso della montagna: «Beati i misericor­diosi, perché otterranno misericordia». E chi è misericordio­so? L'uomo coraggioso, degno di fiducia perché compie ciò che non è obbligato a fare, ma agisce guardando al Padre, e cerca di imitarlo. È misericordioso chi evita di fare come il fariseo che non si associa al peccatore (cf Mt 9,13; 12,7), chi si mette al livello degli altri e perciò è tollerante, soccorre chi è nel bisogno, perdona ricordando di essere « stato salva­to non per le opere di giustizia da lui compiute, ma per la sola misericordia di Dio» (Tt 3,5).
Il misericordioso otterrà misericordia, virtù che, per l'An­tico Testamento, implica giustizia (cf Os 12,17; Mie 6,8), ret­titudine e santità (Sal 36,11 ; 40,11), pace  (Ger 16,5). Tale virtù che, come la gioia, non può stare da sola, esige di essere con­divisa da una comunità chiamata a fare festa: la festa della misericordia. Il peccatore che leva gli occhi al cielo è motivo di festa per i santi e di tripudio per il Padre: «Venite alla festa!».
Dio ci invita a «lasciarci riconciliare», perché ciò fa bene a noi: ci libera da assurde angosce, da unità alla nostra esi­stenza, fa cadere quelle barriere che c'impediscono di amare e d'essere amati, ci rappacifica con la creazione, essa pure ferita e umiliata dalle nostre scelte egoistiche.
All'invito a lasciarsi riconciliare, il peccatore risponde con un gesto che, mentre richiede un'umiliazione nel riconoscere lo sbaglio commesso, è contemporaneamente espressione della sua grandezza in quanto «libera la lode» incatenata dal pec­cato. In un mondo incline alla tristezza, in un'esistenza in cui gli errori sono fonte d'angoscia, il sacramento della riconciliazione acquista il valore profetico di spezzare le cate­ne del male che impediscono all'uomo d'essere grande nel can­tare la misericordia di Dio.
Chi ha ricevuto l'assoluzione è accolto dalla comunità che festeggia il Risorto, attorno a un banchetto in cui pane e vi­no sono offerti «in remissione dei peccati»: il corpo e san­gue di Cristo ristabiliscono l'alleanza d'amore con il Padre estirpando la radice stessa del male, l'egoismo, guarendo il fedele e ridandogli la gioia di ripetere: «Canterò in eterno la misericordia del Signore».

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