«Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra» (Gv 8,7). Solo Cristo può pronunciare
simili parole: egli lancia la sfida e poi si china verso terra e scrive sulla sabbia
tracce o parole che il vento cancella, come lui, il Figlio di Dio, cancella e dimentica
il peccato: «Nessuno ti ha condannato, donna? Neanche io ti condanno. Va' e non peccare più» (Gv 8,11).
Nessuno scaglia un sasso contro l'adultera. Tutti hanno più o meno peccato e i primi ad abbandonare il luogo dell'intentato
processo sono i più vecchi.
Col passare del tempo, una persona scopre che il suo più grande peccato è
quello dell'omissione: il non rispondere con amore all’Amore, essere indecisa e
cincischiare, anziché buttarsi nella vita, dimenticando se stessa e diventando
puro dono. Peccato che
consiste in una situazione: fare
scelte di comodo, invecchiare male
perdendo la purezza delle origini, abbandonando
il sogno e la fantasia e smettendo di lottare perché, forse, a furia di
graffiare si sono rovinate le unghie e si ha paura, ora, di rovinare anche le
dita...
II Qoèlet (e. 3) ci dice che c'è un tempo per ogni cosa,
ma che
ogni cosa è vana perché rinascono gli stessi problemi in ogni stagione.
Forse pecca di eccessivo pessimismo. Col passare dei tempi il volto di Dio, o la comprensione che di
lui ha l'umanità, cambia. Forse la
concezione del Padre — alla quale è
legata la coscienza del peccato — cambia col passare degli anni, nell'arco di ogni esistenza umana.
Quand'ero bambino lodavo il Signore
perché grande e onnipotente. Il servirlo
mi faceva sentire importante. Avevo bisogno della trascendenza, del mistero: ciò mi dava sicurezza.
Nell'età matura, camminando nel
deserto alla ricerca delle tracce di Dio, lo lodo perché, sul male del mondo, lui, come me, piange.
Non mi
interessa, ora, «l'Assoluto», «l'Onnipotente», dopo aver scoperto che il suo
volto più bello è quello della misericordia:
« Là dove il male abbonda, la grazia sovrabbonda». Non danno angoscia
il male, il limite e il peccato, visti alla
luce del perdono di Dio, venuto sulla terra non per i sani, ma per i malati. Alla coscienza del mio
limite è legata la gioiosa
esperienza che tutta la vita di Cristo mi appartiene, nella misura in cui mi
ritengo peccatore come Zaccheo, prostituta come la Maddalena,
rinnegatore come Pietro.
Il peccato può essere uno stimolo a cantare la misericordia di Dio. E ciò vale tanto per il peccato personale e
nascosto quanto per quello di chi si
confessa: ogni accusa non interessa tanto in se stessa, ma piuttosto come uno stimolo a pregare di più e un mezzo per
aiutare il penitente a scoprire se, oltre il limite o nel peccato stesso, ci sia nascosta un'anima di bontà da ricuperare.
A tutti i cristiani, ma in
particolare ai sacerdoti è rivolta l'esortazione: «Siate misericordiosi, come
il Padre vostro è misericordioso. Non
giudicate e non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarete perdonati. Donate e vi sarà dato... » (Le 6,36-38). Ecco il parametro della misericordia cristiana: imitare il
Padre, essere come lui, che non
condanna, ma perdona, dimentica e dona tutto
di sé; essere come Cristo, che più volte, nel Vangelo di Giovanni, dice di non voler giudicare nessuno
perché lascia al Padre questa responsabilità (cf. Gv 3,17; 8,15; 12,47);
essere come lo Spirito Santo, comunicato a noi come fuoco che purifica e consuma il peccato, senza
umiliare, anzi con lo scopo di
riabilitare e di togliere le scorie perché in noi luccichi ciò che è prezioso.
Chi fa
l'esperienza della misericordia di Dio trasforma il perdono ricevuto in uno stimolo a
essere dono per il prossimo.
Naturale gli diventa il condividere, il portare il fardello degli altri, l'uscire dalla
tranquillità della propria esistenza per farsi carico di chi è nel bisogno. E tutto ciò, ben
lungi dall'essere un peso
insopportabile, diventa uno scopo di vita,
fonte di quella segreta gioia che nasce solo quando una persona riesce a dimenticare se stessa, a non ripiegarsi sulla sua
tristezza, a trovare pace nel vedere sorridere e sperare il debole e
l'emarginato.
Paolo,
fatta esperienza della misericordia di Dio, dice: «Quando sono debole, allora sono
forte» (2 Cor 12,10). È la situazione tipica di chi ha
intuito che il Signore ci ama grazie alla nostra debolezza, lui che ha
deciso di farsi piccolo per raggiungerci, lui che cammina con il nostro stesso
passo ed è «debole» proprio perché ama. Non è forse l'amore debolezza, capacità
di farsi piccoli, desiderio di scomparire perché l'altro cresca, bisogno di un
abbraccio, fare i pagliacci perché i bambini ridano, giocare la parte del
debole che fa di tutto per sentirsi dire: «Ti voglio bene»?
Chi è debole, chi si fa mendicante d'amore, diventa forte, vivendo il
discorso della montagna: «Beati i misericordiosi, perché otterranno
misericordia». E chi è misericordioso? L'uomo coraggioso, degno di fiducia perché
compie ciò che non è obbligato a fare, ma agisce guardando al Padre, e cerca di
imitarlo. È misericordioso chi evita di fare come il fariseo che
non si associa al peccatore (cf Mt 9,13;
12,7), chi si mette al livello degli altri e perciò è tollerante, soccorre chi è nel bisogno,
perdona ricordando di essere « stato salvato non per le opere di giustizia da
lui compiute, ma per la sola
misericordia di Dio» (Tt 3,5).
Il misericordioso otterrà misericordia, virtù che, per l'Antico Testamento,
implica giustizia (cf Os 12,17;
Mie 6,8), rettitudine e
santità (Sal 36,11 ; 40,11),
pace (Ger 16,5). Tale virtù che, come la gioia, non può stare da
sola, esige di essere condivisa da una comunità chiamata a fare festa: la festa
della misericordia.
Il peccatore che leva gli occhi al cielo è motivo di festa per i
santi e di tripudio per il Padre: «Venite alla festa!».
Dio ci invita a «lasciarci riconciliare», perché ciò fa bene a noi: ci libera
da assurde angosce, da unità alla nostra esistenza, fa cadere quelle barriere che
c'impediscono di amare e d'essere amati, ci rappacifica con la creazione, essa
pure ferita
e umiliata dalle nostre scelte egoistiche.
All'invito a lasciarsi riconciliare, il peccatore risponde con un gesto che,
mentre richiede un'umiliazione nel riconoscere lo sbaglio commesso, è
contemporaneamente espressione della sua grandezza in quanto «libera la
lode» incatenata dal peccato.
In un mondo incline alla tristezza, in un'esistenza in cui gli errori sono
fonte d'angoscia, il sacramento della riconciliazione
acquista il valore profetico di spezzare le catene del male che impediscono all'uomo d'essere grande nel cantare
la misericordia di Dio.
Chi ha ricevuto l'assoluzione è
accolto dalla comunità che festeggia il
Risorto, attorno a un banchetto in cui pane e vino sono offerti «in remissione
dei peccati»: il corpo e sangue di Cristo ristabiliscono l'alleanza d'amore con il Padre
estirpando la radice stessa del male, l'egoismo, guarendo il fedele e
ridandogli la gioia di ripetere: «Canterò in eterno la misericordia del Signore».
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