sabato 19 maggio 2018

Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco - Gv 21,20-25

Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?».
Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.
Parola del Signore

Commento al Vangelo di Don Luigi Maria Epicoco

La scena descritta dal Vangelo di oggi è una scena interessante per tutto quel carico di umanità che si porta appresso. Pietro, dopo aver pareggiato i conti con la misericordia di Dio (sempre se si può parlare di pareggiare i conti con chi ti perdona gratuitamente), si gira e vede il più piccolo dei discepoli, Giovanni, il discepolo amato, seguire lui e Gesù. Pietro ha una reazione di gelosia tipicamente umana, tipicamente di chi vuole tenersi per sé le cose belle. Non sa però che ognuno di noi è unico e irripetibile e che non ci è concesso mettere il naso nell’unicità della vita degli altri: “Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: "Signore, che cosa sarà di lui?". Gesù gli rispose: "Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi"”. Se essere Chiesa significa fare un’esperienza di compagnia e di comunione, non dobbiamo però dimenticare che la comunione non annulla la nostra unicità e la nostra individualità. Essere Chiesa non significa smettere di essere se stessi, ma imparare ad essere se stessi insieme con gli altri. Tutto ciò che ci vuole uniformare non è cristiano. Cristo non ha uniformato gli apostoli, anzi li ha resi tutti diversi, ma a chiesto loro di amarsi gli uni gli altri. Ciò che ci tiene insieme nella Chiesa non è il fatto che pensiamo tutti allo stesso modo ma il fatto che ci amiamo di vero cuore. L’amore vale più delle idee diverse. Ecco perché nella Chiesa c’è spazio per Pietro e spazio per Giovanni, e che tutte le volte che a Pietro, o a chi per lui, viene in mente di guardare indebitamente nei percorsi degli altri, dobbiamo ricordarci che l’osservazione dell’erba del vicino solitamente non crea comunione ma gastriti. La nostra deve essere la Chiesa in cui c’è spazio per Marta e per Maria, per Pietro e Giovanni, per Filippo e Giacomo. Che tradotto significa che la nostra deve essere la Chiesa missionaria e contemplativa, istituzionale e profetica. La nostra deve essere la Chiesa in cui c’è spazio per tutti, perché la Chiesa o è lo spazio dello Spirito, o non è.


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